Gianna Maggiulli negli anni della giovinezza si dimostra, prima ancora che artista e pittrice di indubbio talento, un tipico esempio di giovane intellettuale del Sud, ricca, ricchissima di cultura certamente, ma ancor più di fremiti, di pulsioni, di aneliti, talvolta di profonda insoddisfazione per tante occasioni mancate, per tante rinunce, per tanti limiti, per tanto diffuso conformismo. La Maggiulli compie tutto il percorso di studi artistici: l’Istituto Statale d’Arte e l’Accademia di Belle Arti a Bari, perfino la Scuola Libera di Nudo presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Sembra subito sospinta dal sacro furore della creazione e dell’attività artistica, oltretutto con premi e riconoscimenti che la raggiungono fin dalle esperienze giovanili, quando ecco insorgere i primi ripensamenti, le prime incertezze, le prime lacerazioni. Ed un conseguente periodo di chiusura e sospensione in cui l’attività artistica lascia il posto alla riflessione ed al ritorno agli studi. Ma quando riprende la sua amata pittura, verso la fine degli anni settanta, la giovane e bella figlia della Puglia, battagliera e anticonformista, è mossa da una sorta di furore, di spinta demolitrice. L’urgenza primaria è quella di comunicare, di trasmettere forse non un messaggio, quanto piuttosto una carica interiore che ha bisogno e si sforza di oggettivarsi in discussione, in una polemica sulla realtà, che per Gianna non è mai uguale all’apparenza. In una terra in cui nulla deve cambiare completamente, in cui le abitudini tendono a comprimere la costruzione e l’affioramento del nuovo, la Maggiulli incomincia a scavare un sentiero sulla doppia verità, sull’alterità celata, sulle due facce della stessa medaglia. Ecco nascere “Stratificazioni: l’immagine doppia”, dei primi anni ottanta, in cui praticamente viene annunciato, in una specie di silente caleidoscopio al negativo, tutto il mondo poetico e culturale della giovane artista. Un mondo di contrasti profondi che devono finalmente affiorare per inverarsi e trovare, in questo riconoscimento, la possibilità e l’occasione sincera di convivenza, di mediazione attiva, di rimescolamento e contaminazione. La vita, per Gianna Maggiulli, forse anche per noi, non è piatta, uniforme e conforme, la vita è continua opposizione e discussione, e quindi anche l’arte deve dare risposta e rappresentazione a questa continua alternanza, a questo “positivo-negativo”, a questa duplicità dinamica e sincera, che ci insegna la categoria del dubbio e della ricerca. Chiariva già lei, con molta sensibilità e acume: “Apparente antitesi dei materiali, volontà di puntualizzare la contraddizione fra lo spessore –consistenza delle carte peraltro duttili e manipolabili e la rigidità sintetica del plexiglass ma recepibile come realtà fortemente carica di trasparenze, leggerezza visiva, riflessi…”.(1)
Eravamo nel territorio delle dualità dei materiali, più ancora che in quelle della forma, in cui fondante rimaneva l’esigenza di presentare, legandola, una contraddizione strutturale dell’immagine, che viveva della e nella sua doppiezza, indipendentemente dalla sua stessa specificità iconografica, o dalla sua valenza come immagine stessa. Compro una, vedo due, un paradigma decisivo della vita. Ma, a parte le soluzioni tecniche, e le avventure formali, in questo periodo, come quasi sempre nello sviluppo del percorso creativo della Maggiulli, determinante, come guida e come riferimento, rimane il suo segno, corrosivo, rabdomantico, vigoroso, dichiarato. La Pittrice si affida al segno anche nelle installazioni, confermando un suo personale processo di contaminazione.
Ed il segno persiste, pretendendo un ruolo determinante, anche quando comincia il sacrificio del cavare, del ferire, dello strappare, del lacerare i cartoni, nel ciclo delle “Cosmogonie” della seconda metà degli anni ottanta. Qui il tentativo di far affiorare una realtà potente , una espressione, perfino una misura vitale, dalla povertà apparente del materiale, altro non era che il proseguimento di quel navigare fra gli scogli dell’alterità e della duplicità delle immagini e dei valori: si poteva navigare solo guidati dalla barra sicura di un segno padrone di sé, di un braccio fermo, di una rotta comunque già stabilita. E il segno pretendeva assenza o remissione del colore, come diventava sempre più evidente nei successivi “Punto Zero” e “Forma” degli anni novanta. In un confronto con la sua ricerca si sono proposte analogie con le lacerazioni ed i tagli Fontana, un po’approssimativamente con i “Decollages” di un altro celebre artista del Sud, Mimmo Rotella, si sono perfino evocate le ricerche materiche di Burri; ma a parte le inevitabili commistioni insite in ogni esperienza artistica, soprattutto in personalità curiose e ben attrezzate culturalmente, a me pare che il percorso della Maggiulli sia stato ben diverso. Perlomeno nel suo sviluppare la prima parte del cammino. Per gli artisti che abbiamo citato, con qualche differenza da sottolineare nei riguardi di Rotella, il problema centrale era quello di trovare un nuovo motivo, una nuova espressione, una stessa giustificazione alla e della forma: un nuovo universo formale, che metteva in discussione la visione stessa dell’arte.
Per Gianna Maggiulli, invece, l’arte rimaneva, anzi diventava il vero unico momento di comunicazione ed espressione non di sé stessa, ma della realtà a tutto tondo: non un arte autoreferenziale, ma un’arte strumento, grimaldello per cercare, capire, penetrare e trasmettere.
Poi, c’è sempre un poi…
Poi, non tanto per il trascorrere degli anni, non tanto per un bisogno di quiete, soprattutto non per un cedimento della tensione morale e creativa, ma per un incontenibile amore per il proprio mestiere e la propria vocazione, il fuoco dolce della pittura ha conquistato ogni segmento, tutto il territorio, prendendo perfino il sopravvento sulla ricerca, pur senza per questo dismetterla o rifiutarla. Se qualche prevalenza del mondo, anzi dell’universo oggettuale, rispetto alla pur sempre preponderante tensione emotiva, sembrava talvolta palesarsi in alcune opere del passato, come le “Cosmogonie”, già con le “Interazioni” v ‘è un sopraggiungere di vibrazioni e fraseggi luminosi o materici, che ci conducono ai ritmi interni, a sottili modulazioni formali. E ricompare, ricuperando una sua precisa sonorità, il colore, in cadenze discrete, ma nette e puntuali: “… la ostinata nostalgia di un sogno formale che si condensa nella ricerca di ritmo interno alla superficie, mediante i segni, o nel ritorno del colore come scheggia…”.(2)Da questo momento nei cicli successivi, “Phisis”, “Omaggio a Simone de Beauvoir”, “Fragmentation visuelle” la pittura diventa più aerea, sempre più ritmica, talvolta perfino sinfonica e sontuosa, pur senza concessioni alla maniera, e senza mai tralasciare la ricerca sui materiali, sugli inserti, sulle sovrapposizioni. Accade solo che l’emozione, ancora fondante, si è decantata, e che la maturità raggiunta conduce la Maggiulli verso gli approdi della pittura pura; non la pittura per la pittura, non l’arte fine a sé stessa, ma la ricerca di una bellezza che resiste e supera la drammaticità e le problematiche della vita: una bellezza che sa riconoscersi anche nella forma, non solo attraverso la forma.
NOTE:
(1) “L’immagine doppia- Note di lavoro” da Gianna Maggiulli, Expo Arte Spazio Giovani, Bari, Marzo 1982_
(2) “Nel cerchio magico” da Pietro Marino, in catalogo, Gianna Maggiulli-Segmenti, Bari 2003_