L’Habitus di Gianna Maggiulli
Nicola Zito
L’abito rappresenta, nell’uso più comune e diffuso del termine, un vestito che copre le parti superiori o inferiori del corpo umano; ma è anche, filosoficamente, una disposizione caratteriale «stabile, innata o durevolmente acquisita, a essere o comportarsi in un certo modo nella vita affettiva, pratica, intellettuale»[1] e soprattutto una caratteristica esteriore, una maniera di essere e di apparire che è frutto di una stratificazione di esperienze legate al vissuto (habitus).[2]
Tutte queste valenze etimologiche convergono nel lavoro di Gianna Maggiulli che viene presentato per la prima volta nella galleria Museo Nuova Era di Bari, una mostra nata e sviluppatasi a partire dall’intreccio tra l’indagine portata avanti dall’artista sull’abito come «forma di comunicazione e copertura/svelamento della propria interiorità»[3], e la vicenda professionale del padre Armando, legata alla sua importate sartoria a Corato.
Questa riscoperta, conseguenza di un ritrovamento “quasi casuale” di un Progetto abito maschile realizzato «con tratto a matita fatto di linee, numeri, forme geometriche»[4] nel 1931, durante l’apprendistato del genitore nella prestigiosa Scuola Moderna Internazionale di taglio di Rocco Aloi, ha dato il via a un affascinante processo creativo basato sull’incrocio di percorsi personali, da una parte l’esperienza artistica di Gianna e dall’altra quella lavorativa di Armando Maggiulli.
Basata su un accostamento che diventa quasi automaticamente un incontro fra gli ordinati e professionali progetti paterni e gli abiti dell’artista, «colorati, svolazzanti e improbabili»,[5] la sovrapposizione tra due vicende distanti più ottant’anni si trasforma in un territorio comune dove emergono con chiarezza i punti di contatto, esplicitati attraverso una serie di interventi differenti dal punto di vista tecnico ma assolutamente allineati sul concetto centrale dell’esposizione.
Le opere su cartone pressato, la sovrapposizione digitale di una figura di nudo e di uno schema compositivo della serie Abito, convivono al fianco di progetti sartoriali accuratamente selezionati, in un’ampia riflessione che copre più aspetti del già ricco rapporto tra arte e moda che, almeno a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno tratto un reciproco arricchimento tecnico, stilistico e formale.
Dai Preraffaelliti Ford Madox Brown e Dante Gabriel Rossetti, e dalla produzione di Henry van de Velde, fino ad arrivare alle creazioni di Sonja Terk Delaunay ed Elsa Schiapparelli, passando per le importanti sperimentazioni dei futuristi (Giacomo Balla e Fortunato Depero, ma anche Vincenzo Fani Ernesto Thayaht, Mino Delle Site) e delle costruttiviste russe Varvara Stepanova, Aleksandra Ekster, Nadèsda Lamanova e Majakovskaja, sono innumerevoli i momenti di contatto tra due ambiti destinati a contaminarsi vicendevolmente. Richiami che si sono sostanziati anche nelle produzioni dei vari Karl Lagerfeld, Bill Cunningham, Ethel Price, Yves Saint Laurent,[6] senza dimenticare ovviamente gli Abiti aperti e mentali di Franca Maranò, con la quale Gianna Maggiulli ha condiviso l’importante esperienza rappresentata dalla galleria Centrosei di Bari.[7]
Ma l’operazione che compie Gianna Maggiulli va ben oltre il mero aspetto esteriore e stilistico, affondando nel vissuto e confrontandosi con un’eredità paterna fatta di ricordi e testimonianze tangibili. Come sempre «concettuale, ai bordi dell’informale»[8] l’artista rilegge una progettualità sartoriale precisa e pulita arricchendola con la sua peculiare cifra stilistica. L’inserimento di carte, di graffi e di lacerazioni – quelli che sono diventati i “segmenti”[9] di un’estetica estremamente caratterizzante – permette all’artista di mettersi in relazione con quanto fatto decenni prima dal padre, in un dialogo rispettoso che non sfocia mai in malinconia ma che, anzi, risulta essere la naturale conclusione di un percorso di studio e di recupero, che si concretizza a sua volta in una galleria di nuovi oggetti ispirati da antiche storie e di vecchi manufatti ammantati ora da un rinnovato significato.
È questa una nuova tappa della carriera di Gianna Maggiulli che, oscillando tra «espansioni e dilatazioni (dai segreti personali a respiri di ordine cosmico)»,[10] coincide adesso con la voglia di “abitare” la propria arte e il proprio passato, e con il bisogno di fissare la memoria, prima personale e successivamente collettiva, su quanto è stato fatto non solo dal padre ma dalla sua intera generazione, in particolare quella legata al lavoro artigianale; una memoria che poi viene di fatto confrontata con l’attualità con l’intenzione di scovare punti di contatto e, ovviamente, di discontinuità.
L’abito è dunque per Gianna Maggiulli più di quello che si possa percepire superficialmente, cioè un oggetto tangibile atto alla copertura del corpo umano; esso si prefigura come un autentico processo mentale che porta a un ripensamento profondo della propria creatività, che adesso trae fondamentale linfa dal recupero e rivalorizzazione dell’attività sartoriale del padre e si trasforma in qualcos’altro. Si tratta di una nuova sensibilità estetica che l’artista offre a chiunque desideri “abitare”, come lei, questo riuscito connubio tra il passato e l’attuale, tra la professionalità artigianale e l’estro artistico, tra le due generazioni di Armando e di Gianna Maggiulli, che si sono intrecciate e, alla fine e in modo indissolubile, congiunte in un habitum unicum e irripetibile.
[1] Cfr. la definizione di “abito” che viene fornita ne I grandi dizionari Garzanti, direzione scientifica di Giuseppe Patota, De Agostini Scuola S.p.A. – Garzanti Linguistica (Edizione aggiornata), Milano 2010, p. 11.
[2] Cfr. a tal proposito B. Krais, G. Gebauer, Habitus, Armando Editore, Roma 2009, e Abito e identità: ricerche di storia letteraria e culturale, a cura di Cristina Giorcelli, Edizioni Associate, Roma 1995. Per quanto riguarda nello specifico l’abito femminile cfr. inoltre G. Dalla Negra, L’abito non fa la donna, in “Leggendaria: libri, letture, linguaggi”, a. XI, n. 66, Roma 2007, pp. 48-49, ed E. Baeri, Abito, abitudine, abitare, in “Lapis: percorsi della riflessione femminile”, n. 31, Edizioni Caposile, Milano 1996, pp. 19-21.
[3] G. Maggiulli, Abito indosso, 2015.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Sul fitto e proficuo rapporto tra arte e moda cfr. G. D’Amato, Moda e Design. Stili e accessori del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2007, L. F. H. Svendsen, Filosofia della moda, Guanda, Milano 2006, E. Morini, Storia della Moda XVIII-XX secolo, Skira Editore, Milano 2000 e G. Marangoni, Evoluzione storica e stilistica della moda. Il Novecento: dal liberty alla computer art, Edizioni S. M. C., Milano 1998. Cfr. inoltre J. Heimann, A. A. Nieder, Fashion. 100 anni di pubblicità di abbigliamento, Taschen, Colonia 2009.
[7] «La pugliese Gianna Maggiulli […] con notevole sapienza tecnica prepara i suoi décollage su cartone – décollage in versione femminile – incidendo, strappando e graffiando il supporto sul quale interviene con frammenti di scrittura e bicromie, spesso in bianco e nero», C. Farese Sperken, Centrosei – Arte Contemporanea – Nuove Situazioni. Storia di una Galleria ai margini delle capitali d’arte, in Centrosei. Storia di una Galleria, a cura di ead., Adda Editore, Bari 2012, p. 43; in ivi, anche in riferimento agli Abiti aperti e agli Abiti mentali di Franca Maranò, cfr. A. D’Elia, Le artiste del Centrosei, pp. 55-67.
[8] A. D’Elia, S. Fizzarotti, Gianna Maggiulli, in Maestrale, cat. della mostra (Bari, Sanpaolo Invest – Agenzia di Bari, 20 giugno – 24 luglio 1990), a cura di Giuseppe Sylos Labini, Edizioni del Sud, Bari 1990, s. p.
[9] Sulla produzione dell’artista rimane fondamentale il catalogo Gianna Maggiulli. Segmenti 1982-2002 a cura di Gianna Maggiulli, Cooperativa Grafica Italiana, Bari 2003; cfr. anche I. Battista, Gianna Maggiulli, tesi di laurea in Storia dell’Arte Contemporanea, Corso Magistrale in Storia dell’Arte, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, relatore Christine Farese Sperken, a.a. 2010-2011.
[10] P. Marino, Nel cerchio Magico, in Gianna Maggiulli. Segmenti 1982-2002, cit., p. 9.