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Ciao Giulio del futuro. Come va? Spero bene.

Giulio Adorno. 1C

Non ti sto scrivendo questa lettera per parlarti dei miei attuali sogni e di ciò che vorrei diventare da grande, ma per permetterti di ricordare una realtà che tra vent’anni, quando leggerai questa lettera, potrebbe essere stata dimenticata: parlo dell’Olocausto, della shoah; tema su cui ancora oggi si riflette molto e su cui si dovrà riflettere per sempre.

È da un po’ che volevo scriverti una lettera, ma non sapevo bene su cosa e, approfittando del progetto “Tra storia e memoria”, in onore del centenario della nascita di Primo Levi, che abbiamo da poco iniziato e di cui sicuramente avrai vari ricordi, ho deciso di mettere nero su bianco le mie riflessioni, con lo scopo di rinfrescarti la memoria, permettendoti di non far morire il messaggio della shoah, che dovrai trasmettere ai tuoi figli, ai tuoi nipoti e a tutte le persone che avrai la fortuna o la sfortuna di incontrare e ciascuno di loro dovrà fare lo stesso. Solo così, una realtà atroce, agghiacciante come questa, che chiunque vorrebbe dimenticare e che ognuno vorrebbe fosse solo un’illusione, non tramonterà mai e persisterà per sempre nei cuori degli essere umani.

Avevo già sentito parlare della shoah e di Primo Levi, ma non ho mai avuto l’occasione di esprimere le mie riflessioni, cosa che questo progetto mi consente di fare. Ora, quindi, stai per leggere quello che pensavi quando avevi solo 14 anni.

Quest’esperienza mi ha aperto gli occhi verso un qualcosa che prima ignoravo - pur essendone a conoscenza - forse per evitare emozioni così forti, o forse perché non mi ritenevo in grado di indossare i panni di tutte le vittime della shoah; ora però ho capito che è proprio questo ciò che ognuno di noi deve fare: andare oltre le semplici parole che tutti ci raccontano su questo incubo, soffermarsi su quello che è il vero messaggio che i superstiti, come Primo Levi con “Se questo è un uomo”, hanno cercato di diffondere il più possibile con la speranza di lasciare un segno e tentare, almeno per un secondo, di immaginare di essere i protagonisti di quello che è stato il più grande tormento della storia; solo così il sacrificio di milioni di ebrei, “servirà” a qualcosa: permetterà a tutti noi di non farci sopraffare dall’oscurità, di non “addormentarci” e di rivivere il più grande fra gli incubi mai fatti.

Sono molte le persone che ce lo ricordano, ma non bastano semplici parole per scolpire nella memoria di ognuno di noi il messaggio della shoah, insegnamento troppo importante per essere dimenticato e che come Primo Levi - grandissimo uomo che ha vissuto in prima persona, nel campo di sterminio di “Auschwitz”, questa terribile esperienza - aveva già capito in passato, necessita quasi di una sorta di “maledizione” per essere tramandato da generazione in generazione, proprio come quella del grandissimo scrittore e chimico di cui ti sto parlando, che sicuramente avrai avuto l’occasione di leggere e rileggere, che ho qui riportato, dandoti la possibilità di rinfrescarti la memoria.

Prima però ti saluto. Ci rivedremo presto. Avrò sicuramente l’occasione di scriverti di nuovo. Ora leggi e ricorda: trasmetti il messaggio che in questa lettera hai cercato di esprimere al meglio quando eri me.

Avevo iniziato a leggere “Se questo è un uomo” già due anni fa...

Beatrice Balducci. 1C

in estate, per leggere qualcosa di diverso dalle tipiche letture estive, di gialli, thriller, fumetti, e via dicendo, ma all’epoca non ero riuscita ad andare oltre le prime cento pagine. Quel particolareggiato racconto dell’annientamento della persona umana, della sua dignità, del dolore aveva provocato in me un dolore troppo difficile da metabolizzare o anche solo comprendere per una ragazzina di dodici anni.

La partecipazione al progetto su Primo Levi della mia classe mi ha rimesso di fronte alla lettura rimasta incompiuta. Lo leggo con immutato dolore, ma non più stranita, sono più consapevole e, per questo, anche più sdegnata degli abissi in cui possono precipitare gli uomini. Oggi ci siamo concentrati su alcuni passaggi del libro che evidenziano, da un lato, la capacità di Levi di descrivere con un linguaggio semplice ma estremamente chiaro le atrocità, le nefandezze, le ignominie che ha vissuto e che ha visto perpetrare ai suoi compagni di sventura, e dall’altro, l’incapacità delle parole esistenti di esprimere compiutamente le sensazioni di freddo, fame, stanchezza, ecc.. patite nei lager. Come può la parola fame esprimere la sensazione che possiamo provare noi tornando a casa dopo cinque ore di scuola e, al contempo, descrivere la sensazione di privazione totale di qualsiasi forma di cibo commestibile, provata dalle persone richiuse nei lager? Stesso discorso per il freddo e la stanchezza.

Un’incapacità che mi ha colpita profondamente e che Levi evidenzia ancora più manifesta quando si tratta di descrivere una condizione mai provata prima di allora: la demolizione di un uomo. In effetti, a voler scorrere l’intero vocabolario, non c’è parola in grado di esprimere con compiutezza il processo di annientamento di uomini e donne attuato dai nazisti. La descrizione di Levi dell’arrivo nei campi, con denudazione, docce, rasatura dei capelli, mi ha riportato alla mente la scena del film di Spielberg, Schindler’s list, che più mi ha fatto piangere, quella delle donne spinte nella camera per essere disinfettate, rasate, dopo essere state costrette a spogliarsi di ogni loro avere, vestito, ricordo, e il terrore nei loro occhi, l’avvicinamento l’un l’altra quasi a volersi difendere da un nemico comune, capace di ogni crudeltà e abominio. Da persone, da quel momento, diventano numeri, i numeri tatuati su ogni braccio.

La tematica della Shoa...

Maria Ginevra Congedo. 1C

sin dalle prime volte in cui ne ho potuto sentir parlare o capirne minimamente il significato, si è insinuata nella mia mente e non l’ha mai più abbandonata.

Ho sempre provato, infatti, a capire cosa potesse significare vivere una tale esperienza e provare certe sensazioni ma ho compreso, finalmente, che in realtà non posso.

Per quanto io possa tentare di comprendere quel dolore, quella paura così tremenda o quella straziante sensazione di impotenza, non sarò mai in grado di assimilarne davvero il significato.

Essendo vissuta e vivendo tuttora come persona libera, queste sensazioni, così brutali, così crude, ma, soprattutto, reali le posso conoscere solo attraverso la lettura delle parole scritte proprio da quegli stessi uomini che, invece, le hanno sentite sulla propria pelle e le hanno odiate giorno dopo giorno, cercando di dominarle e respingerle, finché non si sono trasformate in una profonda e indelebile cicatrice nelle loro anime, finalmente libere.

Spero di non dover mai scoprire cosa si provi a perdere la propria identità, venendo privati del proprio nome, trasformati esclusivamente in un numero, in semplici cifre prive di significato, perdere chi si è ma, soprattutto, chi si vuole essere, perché non si ha scelta, il lager non lascia scelta.

Non si ha più tempo né forza per pensare, sfiniti dalla “fame” dal “freddo dell’inverno”, dalla “stanchezza”, troppo complesse e disumane per essere definite da queste semplici parole.

Come dice Levi, esse sono, infatti, inadeguate a descrivere tali situazioni, poiché create e usate da uomini liberi, che non sanno cosa sia questo desiderio continuo di sazietà, questa fatica che non abbandona mai il povero corpo e l’astratta speranza di non venir uccisi e di tornare a casa, uomini che loro non erano più, chiusi nel campi e ridotti a sporchi e stanchi stracci, quasi privi ormai anche di solidarietà verso i propri compagni.

Per questo, talvolta, mi sento addirittura di mancare di rispetto a questi uomini, a queste donne ma, soprattutto, a questi bambini, privati dei propri sogni, della propria infanzia e troppo spesso anche della propria vita, cercando di descrivere come mi si gelino le ossa e un profondo vuoto mi cali dentro ascoltando le loro storia o pensando soltanto o cosa abbiamo provato, a quanto sia stato difficile sopravvivere, perché non sarà mai paragonabile a ciò che hanno dovuto affrontare loro ogni giorno.

Pensare a come hanno lottato per la propria vita, come alcuni siano riusciti ad avere così tanta forza da continuare a sperare, da continuare a cercar di rimanere vivi, è impressionante, ma soprattutto ammirevole.

Primo Levi, infatti, aveva ragione, le parole comuni non possono descrivere tale orrore, tale disumanità ed è, quindi, nostro compito continuare a ricordare, mantenere accesa nella mente delle persone la memoria, perché così è e sarà sempre giusto.

Milioni e milioni di persone senza alcuna colpa sono morte, sono state torturate, hanno perso le persone che più amavano, talvolta le hanno addirittura viste dirigersi verso la propria morte, ma hanno lottato con tutta la propria forza, e noi, che abbiamo avuto la fortuna di essere liberi, di vivere senza quella paura che attanaglia lo stomaco e non ti abbandona finché non sei tu a crollare ormai stremato, dobbiamo continuare a lottare per loro, per tutti coloro che non possono più farlo.

Credo, infatti, che sia un dovere nei loro confronti e che ognuno, con anche solo un briciolo di umanità, ne senta quasi il bisogno, perché è profondamente ingiusto che tutto ciò venga semplicemente dimenticato.