Quando eravamo bambini, ma anche più tardi, esisteva il famoso diario segreto, magari chiuso con un lucchetto. Personalissimo, destinato a contenere le cose inconfessabili o comunque personali, di cui “i grandi” non dovevano aver nulla a che spartire. Guai a essere scoperti a ficcarci il naso dentro.
Oggi non è più così. Il diario cartaceo, magari, esiste ancora, ma per essere condiviso e mostrato: chiunque può lasciarci un messaggio, incollarci una foto o un ritaglio di giornale. È consentita pure la lettura agli amici. La stessa funzione è esercitata da astucci e zaini scolastici. Pure lì fanno bella mostra di sé gadget di ogni tipo: un altro modo di mostrare sé stessi, cosa si pensa e si prova al grande pubblico, anche a chi non si conosce.
Un’ulteriore estensione di questo modo d’essere è il proprio corpo e il proprio vestire: tatuaggi, piercing, abbigliamento: ogni trovata è utile. Ma non per differenziarsi o per osare di più. Questa – semmai – è una sfida verso i genitori. No. Il fine ultimo è l’omologazione: «io devo essere/vestirmi/compormi così (ma anche avere) perché gli altri sono così». Non sono i nostri figli a dettare le regole della moda, e ne sono consapevoli. Loro possono solo seguirla. Guai a dirgli: «perché non fai come ti pare?» ci prenderebbero per scemi. Solo i big della tivù – prima – e gli influencer – ora – (a proposito: è diventata una professione) possono permettersi questo lusso: inventare un modo di essere. Noi comuni mortali possiamo solo subire passivamente.
Sembra una parentesi di psicologia dell’età evolutiva (e per molti aspetti lo è), ma – come avremo modo di vedere – è legata a doppio filo con il successo dei social network.
Col passare del tempo tutto si è fatto più piccolino: il borsellino, il patentino, l’ombrellino... e infine il telefonino. All’estero la chiamano telefonia mobile, o – più semplicemente – mobile. Noi italiani abbiamo un modo tutto mostro di approcciarci alla tecnologia, ma – almeno in questo caso – siamo in ottima compagnia.
Il 20 settembre 1976 Larry Mullen affigge nella bacheca della Mount Temple School, Dublino, un messaggio: cerca giovani musicisti per formare una band. Rispondono Adam Clayton (famoso nella scuola per il suo atteggiamento scanzonato e per il successo con le ragazze), David Howell Evans (The Edge), suo fratello Dick, ma soprattutto un ragazzo ribelle e introverso: Paul David Hewson (soprannominato Bono Vox, dal nome di un negozio di cornetti acustici). La storia è lunga e la conoscete: è l’inizio degli U2 (sia dall’assonanza con la pronuncia di you too, anche tu, sia you two, voi due; senza dimenticare il celebre aereo-spia americano abbattuto il 6 maggio 1960 mentre era in missione nell’Unione Sovietica). Non era nato il telefonino, non in tutte le case c’era il telefono (in molte c’era il duplex), ma qualche vagito in essemmesese, evidentemente, già era percepibile.
«I only use email to communicate with old people», uso l’email solo per comunicare con anziani. Di roba così, in rete, se ne trova finché si vuole. Non sorprende, quindi, lo stupore del giornalista del New York Times. Evidentemente non ha un adolescente in casa. «Segnali che sei un old fogey, uno all’antica: guardi i film in videocassetta, ascolti dischi di vinile, usi la pellicola per fotografare. E ti piace usare l’email». Così esordisce il giornale di New York in una corrispondenza da San Francisco, la patria spirituale dell’informatica statunitense.
Non è la condanna a morte della posta elettronica. Solo una prova delicata di epitaffio. Non la prima. La buona, vecchia mail – che noi abbiamo imparato a usare e gli adolescenti davano per scontata – sarà presto superata. Facebook, Twitter, chat, Skype, perfino l’sms sono più immediati, informali, gratificanti. L’email obbliga a un minimo di preparazione: un indirizzo di posta, un destinatario con un altro indirizzo, magari qualcosa nel «subject» (argomento). Bisogna aspettare che il destinatario risponda: e non sempre lo fa. Occorre evitare gli errori di ortografia, e magari fingere di essere educati. Nessuno, in Italia, chiude una email con «In attesa di favorevole riscontro», se non ha assunto sostanze molto pesanti. Ma un saluto prima della firma lo inseriscono tutti.
È questa sovrastruttura che gli adolescenti trovano pesante, in America come in Italia, a Londra come a Pechino. Una email non può – o non dovrebbe – contenere solo «:-O», per spiegare che il mittente è sorpreso. Facebook, per esempio, s’è accorta che la riga del «subject» (l’argomento) resta spesso vuota (al massimo qualcuno inserisce hi! oppure ehi!). Così ha deciso di eliminarla insieme a cc (copia) e bcc (copia nascosta).
Facebook si è sforzato finché a potuto di non essere un paese per vecchi; l’email sì. Yahoo! e Hotmail – celeberrimi siti di posta elettronica – hanno perso il 16% dei visitatori in un anno; solo Gmail, prodotto di casa Google, è cresciuta del 10%. Chi ama e usa l’email ha motivo di ritenersi superato? La risposta è: quasi. Utilizzare frasi complete può sembrare normale, a un anziano trentenne. Ma gli adolescenti non comunicano così: parlano per codici, monosillabi e grugniti che in una mail risulterebbero goffi. La punteggiatura, che nelle mail resiste, per i ragazzi è diventata come l’acne: se non c’è, meglio. La chiocciolina (@) è una specie in via di estinzione? Probabilmente sì. Poco male: l’email ha avuto una vita intensa. Intensa ma breve. Quindici anni, diciamo.
L’impatto sociale inizia nel 1995. L’email è come le ragazze della televisione: c’è sempre una più giovane in agguato. Le lettere di carta hanno resistito meglio: cinquanta secoli? Qualcuno ancora ne manda, anche se l’abitudine è ristretta ormai a tre categorie di persone: molto romantici, molto anziani, molto eccentrici. Accadrà presto anche agli utenti di posta elettronica. «Ti mando una email» sembra il titolo di una commedia romantica all’americana, di quelle dove si baciano a dieci minuti dalla fine e tutti applaudono. Vederla fa sempre piacere, ma la vita funziona in altro modo.
La piazza, questa sconosciuta. Era il luogo di ritrovo per antonomasia. La piazza, le vie del centro, il cortile dietro casa. Insomma: ovunque, meglio se all’aperto. Questo è stato il nostro modo di essere e di vivere.
I nostri figli non sono così. Oggi per darsi appuntamento non serve incontrarsi. Basta(va) una telefonata, meglio un post in bacheca. Più la tecnologia ha aumentato la sua efficienza consentendoci di comunicare a grandi distanze con estrema semplicità, più sono aumentate le distanze tra le persone.
Questo – paradossalmente – implica che, nonostante la facilità di comunicazione, è diventato sempre più difficile ritagliare quel famoso “tempo libero” da dedicare agli affetti. Noi adulti non possiamo capire, se non ci siamo avventurati almeno una volta nei territori degli adolescenti, ma l’incontro è diventato un optional, sostituito dal contatto.
Per di più: gli adolescenti si sentono minacciati quando percepiscono la presenza di adulti nelle loro piattaforme di interazione sociale. Questo è il motivo per cui Facebook è ormai noto come il social dei vecchi, un po’ come quelli della generazione Facebook consideravano le persone ancora affezionate a Myspace (noto anche come il social dei musicisti).
«Do you want the internet to turn into a jungle? This could happen, you know, if we can’t control the use of our personal information online». Si apre con queste parole il videomessaggio che Viviane Reding, Commissario UE alla società dell’informazione e ai Media, il 14 aprile 2010, ha indirizzato ai netcitizen europei e alle istituzioni.
La tentazione di chiunque creda nella capacità della Rete di autoregolamentarsi è quella di bollare il grido di allarme e il richiamo all’ordine di Reding come l’ennesimo sintomo di quella dilagante tecnofobia legislativa o, piuttosto, come il preludio di un nuovo pesante intervento – questa volta da parte delle istituzioni europee – nell’attività di sovra-regolamentazione della rete cui negli ultimi mesi abbiamo assistito impotenti.
All’indomani della raccomandazione del 17 ottobre 2008 con la quale i Garanti per la privacy di mezzo mondo, riuniti a Strasburgo, hanno indirizzato raccomandazioni e suggerimenti agli utenti delle piattaforme di social network e ai loro gestori, spingendosi a caldeggiare l’utilizzo di pseudonimi nell’ambito di tali realtà e a imporre/proporre la non indicizzazione da parte dei motori di ricerca dei profili degli utenti creati e ospitati su tali piattaforme, si sono avanzati dubbi e perplessità sull’opportunità e utilità di un approccio regolamentare tanto invadente e “dirigista” rispetto a una nuova dimensione della socialità. Infatti, l’approccio con il quale nel secolo della Rete e nell’era di quello che è stato definito il web 2.0 occorrerebbe guardare alla privacy degli utenti dovrebbe essere orientato più che alla fissazione di regole e principi, a far sì che ogni utente riceva un’informativa effettivamente puntuale e trasparente circa i termini e le modalità di trattamento dei dati personali che lo riguardano e possa conseguentemente determinare, in ogni momento e in assoluta autonomia, l’ambito di diffusione di tali dati nello spazio telematico. Il diritto ad autodeterminare tali profili relativi alla propria identità personale, infatti, costituisce un principio irrinunciabile quale che sia la nozione di privacy cui si intende accedere, risultato dell’evoluzione dei costumi, della società e del mercato, di riferimento nel passato, nel presente e nel futuro.
Tuttavia, per chiedere al legislatore e al Governo di fare un passo indietro o, almeno, di non lasciare che la paura del nuovo o l’ansia di restaurare in rete le dinamiche di controllo proprie del vecchio, costituiscano i principi cui ispirare la nostra politica dell’innovazione occorre che anche i protagonisti del web – i grandi e gli utenti – facciano la loro parte con rispetto reciproco ed equilibrio.
Non sempre è così. Non è così, per esempio, nei rapporti tra Facebook, i propri utenti e le leggi. Recentemente Cristina D’Arienzo, una giovane programmatrice, ha segnalato una duplice preoccupante curiosità nel trattamento dei dati personali da parte del colosso del social network in relazione all’archiviazione, la conservazione e la cancellazione delle immagini caricate dagli utenti.
Le immagini, infatti, all’atto dell’upload vengono caricate su un server diverso da quelli sui quali gira la piattaforma e, a ciascuna esse, viene assegnato un autonomo indirizzo che le rende raggiungibili senza l’esigenza di passare per la piattaforma stessa. Con una prima, importante, conseguenza: chiunque conosca la “codifica” dell’indirizzo assegnato a ogni immagine all’atto dell’upload – si tratta, peraltro, di una codifica che risponde a un preciso schema matematico e, dunque, agevolmente decodificabile come mostrato su Trackback – è in condizione, quali che siano le scelte in materia di privacy del titolare delle immagini – di accedervi, visualizzarle e appropriarsene per qualsiasi genere di uso.
Piuttosto grave, se si considera che le condizioni generali sul trattamento dei dati personali dell’utente pubblicate su Facebook inducono quest’ultimo a ritenere – in conformità peraltro alla disciplina vigente – di essere in grado di autodeterminare l’ambito di “pubblicità” dei dati e delle informazioni immesse nella piattaforma.
Ma c’è di più. Le stesse condizioni generali chiariscono all’utente che, in qualsiasi momento, può rimuovere i contenuti che ha caricato online, revocando – da un punto di vista giuridico – il consenso prestato alla diffusione al pubblico delle proprie immagini.
Cristina ha fatto una prova in questo senso: il 12 marzo ha caricato un’immagine sul suo profilo Facebook e l’ha quindi rimossa. Peccato che la foto sia ancora lì, non più raggiungibile attraverso il profilo di Cristina ma facilmente accessibile da chiunque abbia conservato l’URL di pubblicazione o, addirittura, casualmente.
La sostanza è questa: pare che Facebook, a seguito della richiesta di rimozione di un contenuto dalla propria piattaforma (e dunque della revoca del consenso all’utilizzo dei dati personali di un utente) si limiti a sospendere l’indicizzazione del contenuto medesimo in abbinamento al profilo dell’utente ma conservi i relativi dati o informazioni.
Quando mi hanno raccontato di quest’esperienza, abbiamo fatto un’ulteriore prova: manifestare a Facebook, attraverso l’apposito modulo, la propria volontà di cancellare integralmente il proprio profilo – giuridicamente, potremmo dire, recedere dal contratto – e verificare poi se i contenuti sino a quel momento pubblicati restassero raggiungibili.
Detto, fatto. Il 24 marzo 2009 abbiamo proceduto a richiedere la cancellazione del profilo su Facebook di un amico (Cristina, questa volta, non se l’è sentita di fare a meno della sua social identity!) seguendo le istruzioni rese disponibili online. Ci è stato, quindi, comunicato che la rimozione del profilo era prevista per il successivo 7 aprile. Il 7 aprile qualcosa è realmente accaduto nel senso che il profilo “sacrificale” del nostro amico non era più raggiungibile nella piattaforma ma, sfortunatamente, le sue immagini caricate nel periodo di utilizzo del profilo oggi sono ancora al loro posto e, quindi, raggiungibili da chiunque.
È grave, gravissimo, promettere a un utente la cancellazione di un dato e continuarlo, invece, a utilizzare. Si tratta – prima che di una violazione di legge – di una manifestazione di scarso rispetto che rischia di compromettere ogni possibilità di dialettica e confronto tra i protagonisti della Rete e le istituzioni ed è un peccato che per gli errori di pochi debbano pagare in molti, assistendo impotenti al proliferare di una politica legislativa di repressione rispetto a una tecnologia che, se usata con rispetto, equilibrio e buon senso, può essere il più fedele alleato dei cittadini del XXI secolo e non già il loro nemico giurato come troppo spesso viene rappresentata.
Sarebbe, per questo, auspicabile un immediato intervento del Garante – almeno nei limiti in cui al trattamento di dati personali posti in essere da Facebook risulti applicabile la disciplina italiana – al fine rimettere in riga il gigante del social network e scongiurare il rischio che ci si debba, tra qualche mese, ritrovare costretti a convenire con il Commissario Reding sul rischio che la Rete si trasformi in una giungla.
Di seguito uno scatto fotografico divenuto - involontariamente - celebre in ogni angolo del cyberspazio. Durante la presentazione dei dispositivi per l'intrattenimento con la realtà virtuale per la piattaforma di Mark Zuckerberg è stato impossibile non notare che l'unica persona che, nella sala, non ha il visore è il proprietario della piattaforma. Le considerazioni, come si usa dire, sono lasciate al lettore.
Sembravano giorni difficili per la reputazione di Twitter, il sistema di cinguettii californiano che continua ad avere un grande successo specialmente negli States spesso citato come baluardo informativo nelle emergenze planetarie (talvolta a ragione, qualche volta no). Dichiara ormai qualcosa come 321 milioni di utenti e, nella vulgata riassuntiva di molta stampa, è spesso paragonato a Facebook quanto a successo, diffusione e possibilità future.
Tuttavia non serve un esperto di social network per comprendere come Facebook sia chiaramente definibile come una rete ampia e variegata, mentre Twitter fatichi ad allontanarsi da quella idea di semplice colonna cronologica informativa in costante aggiornamento così come è sempre stato sin dagli esordi nel 2006. Recentemente sono usciti un paio di studi molto interessanti sulla diffusione di Twitter che hanno contribuito a ridimensionarne fortemente portata e aspettative.
Il primo lo ha pubblicato Yahoo! (leggero conflitto di interessi, okay) e parte da una analisi di 260 milioni di tweet pubblicati fra il 2009 e il 2010. La ricerca fornisce un dato piuttosto sconvolgente: oltre il 50% dei messaggi propagati nel social network sono prodotti da circa 20mila persone, lo 0,05% degli iscritti. Il Principio di Pareto applicato ai social network (secondo il quale il 20% delle persone produce l’80% dei contenuti) viene stravolto e la quasi totalità degli iscritti a Twitter di fatto sembra non partecipare alla produzione di contenuti dentro il sistema. A cosa serve una rete sociale così ampia se un numero così ampio di persone che la frequentano (se la frequentano) tace?
A completare il quadro, anni fa, Nicholas Carlson su Business Insider ha incrociato qualche numero su Twitter partendo da una serie di informazioni ricavabili dalle API del social network e si è chiesto quanti siano realmente i suoi utenti attivi, visto che la società dichiara pubblicamente solo il numero complessivo di profili (ai tempi dell’analisi 175 milioni, appunto) aperti da quando il social network è stato fondato. Un numero, come si vede, volutamente oscuro, specie se posto a confronto con i dati diffusi da Facebook che ci informano di come quanti utenti lo utilizzino ogni mese in tutto il mondo e di quanti accedano alla piattaforma quotidianamente.
Secondo le API di Twitter, si è scoperto che ci sono 56 milioni di profili Twitter che non seguono nessun altro utente e altri 90 milioni di profili che non sono seguiti da nessuno. Un deserto dei tartari digitale. Secondo l’analisi di Business Insider se decidiamo di definire come “attivo” un profilo Twitter che abbia un numero minimo di altri profili che segue, nel caso in esame otto, se ne deve dedurre che il numero reale di account Twitter utilizzati nel mondo, nel 2011, era di circa 56 milioni. Tali numeri scendono a precipizio con l’aumentare dei profili seguiti, per esempio il numero di utenti iscritto ad almeno altri 64 profili è pari a 1,2 milioni.
Secondo queste valutazioni Twitter sembra essere terra di nessuno, fortemente spinta dai media mainstream che si riferiscono continuamente ai messaggi delle star televisive e dello sport e dalle analisi sociologiche sulle emergenze del pianeta, ma di fatto assai più marginale di quanto si sarebbe potuto immaginare in termini di diffusione informativa e conversazioni di rete.
Naturalmente, non tutto è andato così. Twitter, oggigiorno, è il canale più usato da politici, persone di spettacolo e altri che vogliono veicolare messaggi senza passare per i filtri che i giornalisti imporrebbero loro. Comunicare direttamente con i propri followers ha notevoli vantaggi, primo tra tutti: quello che scrivi è quello che viene recepito.
Instagram è un social network originariamente concepito per permettere agli utenti di scattare foto, applicarvi filtri, e condividerle in Rete. Nel 2012 l’azienda è stata comprata per un miliardo di dollari da Facebook Inc. per circa un miliardo di dollari.
Sull’utilità di questo social network si può affermare questo: “A partire dal 14 gennaio 2019, la foto con più like è una foto di un uovo, pubblicata dall’account @world_record_egg, creata con l'unico scopo di superare il precedente record di 18 milioni su un post di Kylie Jenner. L'immagine ha superato i 53 milioni e mezzo di like”.
Il funzionamento di Instagram è diverso da Facebook (ed è più simile a Twitter), pertanto merita alcune righe di spiegazione. Mentre su Facebook – anche se ci prendiamo a pugni in faccia – restiamo tutti “amici”, ovvero serve il consenso di entrambe le parti per condividere contenuti (testo, immagini, video), su Instagram gli utenti inseriscono i loro contenuti, gli altri incontreranno questi contenuti solo se hanno deciso di “seguire” quel determinato utente. I famosi followers.
Ma, prima di tutto: perché oggi i ragazzi sono su Instagram e non più su Facebook. In primo luogo per il meccanismo delle “amicizie”. Passi (e non tanto) quando ti chiede l’amicizia la mamma o il babbo, ma la zia, la nonna no: è decisamente troppo.
In secondo luogo Instagram nasce per condividere immagini: il testo è opzionale. Quindi molto minimalista. In questo modo viene incontro a una fascia di persone che non sono state abituate alla scrittura e alla lettura. Triste a dirsi, ma è così.
Terzo motivo: Instagram ha inventato le stories, ovvero contenuti in evidenza che si autodistruggono dopo ventiquattr’ore. Una vera manna per chi vuole condividere le foto di una serata o un video (massimo 15 secondi) che però tra un giorno sparirà (a meno di non renderlo pubblico).
Controindicazioni? Sì: le stories hanno generato un attaccamento agli smartphone come non si era mai visto prima. O segui, e con attenzione, il momento presente, oppure lo perdi.
Inoltre, sia Instagram, e Twitter prima (Facebook poi) hanno usato massivamente il meccanismo degli hashtag (quello che noi chiamavamo cancelletto). L’utilizzo dell’hashtag, serve per aumentare la popolarità dei post e della pagina, rendendola nota anche a chi non la conosce.
L'ITIS "Enrico Mattei", durante un progetto PON dove i ragazzi hanno realizzato una web series in inglese, ha organizzato un evento (una première) e – per massimizzare il numero di spettatori – i termini “web”, “series” e “première” sono stati preceduti dal carattere ‘#’, un codice che tutti gli adolescenti conoscono a menadito, poiché lo utilizzano per rendersi visibili in queste comunità che – diversamente – non li noterebbero. Facilmente si ricerca la pagina di una celebrità, difficilmente quella di un adolescente.
Così facendo, chiunque ricerca ‘#web’, tra le tante cose, troverà anche questo post, probabilmente ormai seppellito tra migliaia di altri contenuti (web, in effetti deve essere molto utilizzato), ma quel post era stato pubblicato, strategicamente, alle 11.00 (ora di ricreazione, in cui tutti i ragazzi si riappropriavano dei loro smartphone) per annunciare un evento che sarebbe andato in onda alle 14.00, quando la scuola terminava e, la maggior parte di loro, prendeva la corriera e aveva molto tempo libero.
Queste si chiamano “strategie di marketing” e non si improvvisano. I ragazzi le conoscono perché le ereditano osservando i loro influencer che hanno persone pagate per massimizzare la loro visibilità. Noi dobbiamo apprenderle per il medesimo motivo.
Naturalmente l’hashtag #DomaniLaScuolaÈChiusa sarà pure bellissimo ma altrettanto inutile: la probabilità che qualcuno lo cerchi e lo trovi e molto scarsa. Meglio: #Scuola #Chiusura #Neve #Maltempo, ecc… più facili da individuare e – pertanto – condividere.
WhatsApp, Telegram, Skype, MSN, Hangouts, Viber, WeChat, Line, Signal, QQ, WhichApp e le altre varianti, altrimenti noti come “i social personali”. Sì, perché destinati a una cerchia ristretta di conoscenti, amici, gruppi (da non sottovalutare i gruppi delle mamme, tra i più pericolosi al mondo) e via dicendo.
WhatsApp Messenger è un social network, creato nel 2009 e facente parte dal 19 febbraio 2014 del gruppo Facebook Inc. Gli utenti possono scambiare messaggi di testo, immagini, video e file audio, nonché informazioni sulla posizione, documenti e informazioni di contatto tra due persone o in gruppi. L'applicazione viene eseguita da un dispositivo mobile ma è accessibile anche dai computer desktop; il servizio richiede agli utenti consumatori di fornire un numero di cellulare standard.
Quando Facebook (nel 2014) acquisì WhatsApp, questa aveva 450 milioni di utenti attivi al mese. A febbraio 2018 la base di utenti è salita a oltre un miliardo e mezzo, che si scambiano circa 60 miliardi di messaggi al giorno, rendendola l'applicazione di messaggistica più popolare al momento. WhatsApp è cresciuto in diversi paesi, tra cui Brasile, India e vaste aree dell'Europa, tra cui Regno Unito e Francia. Il primo gennaio 2018, WhatsApp batte il record di 75 miliardi di messaggi scambiati a capodanno.
Una domanda dovrebbe sorgere spontanea: dove trae profitto l’applicazione, dal momento che non vi è la minima traccia di pubblicità in essa e – promettono gli sviluppatori (e, ne sono certo) – mai vi sarà?
L’introduzione della messaggistica istantanea, che permette di chattare praticamente gratis, ha quasi mandato in pensione i tradizionali sms e il loro remunerativo modello di business: secondo uno studio di Deloitte nel giro di soli due anni il numero dei messaggi istantanei ha più che doppiato quello degli sms. E i gruppi attivi nei servizi di telecomunicazione sono riusciti a tamponare l’emorragia di ricavi che facevano sui vecchi messaggini solo grazie ai maggiori introiti per gli abbonamenti al traffico dati, su cui gli smartphone e le applicazioni come WhatsApp si appoggiano.
La scommessa di Facebook su WhatsApp si è insomma rivelata vincente, e se all’epoca l’acquisizione sembrò folle per la cifra spesa (circa 19 miliardi di dollari in tutto), col senno di poi è chiaro che sia stata quella la mossa che ha permesso a Facebook di vincere la partita della messaggistica, accentrando nelle sue mani un tris (WhatsApp, Instagram e Messenger) che sembra ormai impossibile da battere. E con il lancio di WhatsApp Business e del servizio di pagamenti di WhatsApp (in India), probabilmente adesso Facebook riuscirà anche a monetizzare più che mai il suo consolidato primato.
Senza parlare dei dubbi – sempre sussurrati – sull’uso dei dati. Istallando WhatsApp si cedono a Facebook Inc. non solo i propri contatti WhatsApp, gruppi e via dicendo, ma anche la propria rubrica telefonica. Questo significa che chi analizza i dati del gruppo Facebook è in grado di ricostruire le relazioni di tutto il pianeta, anche di chi possiede un volgarissimo Nokia 3310. Naturalmente sono solo supposizioni, ma se un prodotto è stato acquistato per 19 miliardi di dollari (una cifra, per confronto, pari a una manovra economica italiana di un intero anno).
L'acquisizione ha causato il trasferimento di un numero considerevole di utenti o l'esecuzione di altri servizi di messaggistica. Telegram ha affermato di aver visto 8 milioni di download aggiuntivi della sua app. Line ha affermato di aver visto 2 milioni di nuovi utenti per il suo servizio.
Per quanto riguarda Telegram, nel marzo 2018, l’applicazione ha raggiunto 200 milioni di utenti attivi al mese. Il 14 Marzo, 2019, Pavel Durov, CEO di Telegram, ha affermato: “tre milioni di nuovi utenti si sono iscritti nelle ultime 24 ore”. Durov non ha specificato cosa avesse indotto questo nuovo aumento di nuove iscrizioni; tuttavia nello stesso periodo si è verificata una prolungata interruzione di Facebook e della sua famiglia di app, inclusa Instagram, causando probabilmente tale incremento.
Potremmo congetturare a lungo sul futuro delle piattaforme di interazione sociale. Sbagliando, naturalmente. Di solito i futurologi (sì, esiste anche questa scienza) sono più propensi nel sbilanciarsi su scenari remoti (che si verificheranno tra qui e cento o duecento anni), rispetto a scenari tra qui e vent'anni.
La motivazione è semplice: nel secondo caso potremmo smentirli, nel primo no. Pertanto limitiamoci al presente.
In fotografia una tovaglietta in vendita, da diversi anni, presso gli store IKEA e simili. No, il taschino non serve per proteggere lo smartphone dal cibo che potrebbe caderci sopra. Semplicemente, serve a riporlo in tavola.
Un tempo, nemmeno dieci anni fa, nessuno avrebbe fatto questo gesto istintivamente, anzi: lo si sarebbe considerato scortesia, se non maleducazione. Oggi, non solo è tollerato, di più: previsto. Infatti la domanda, come sempre, ha prodotto l'offerta. La differenza col passato è semplice: una volta il dispositivo mobile era utilizzato prevalentemente come telefono, pertanto non aveva senso averlo a portata di mano. All'arrivo di una telefonata si sarebbe risposto, nulla di più. Ora questo dispositivo è diventato uno smartphone (sperando che non sia l'unica cosa smart che ci portiamo addosso), ovvero notifica eventi, messaggi provenienti da più fonti, email e molto altro ancora. Da qui l'esigenza di averlo costantemente sott'occhio.
La Francia, Stato con una visione mirabile, sin dal 2016 ha legiferato il «diritto alla disconnessione» digitale. Lo prevede, all’articolo 24, il progetto di legge della ministra El Khomri, che garantisce l’esercizio reale del diritto al riposo e sostiene un buon equilibrio tra lavoro e vita privata contro l’abuso di email e dell'internet per motivi professionali. La questione- in Francia - è stata già affrontata in alcune aziende come Areva, Axa France, La Poste o Orange, e nel 2015 le associazioni degli industriali Syntec (ingegneria) e Cinov (studi di consulenza) hanno firmato un accordo con i sindacati Cfdt e Cgc per riconoscere ai quadri il diritto alla disconnessione.
Anche in Italia qualcosa si sta muovendo, soprattutto in occasione del rinnovo dei contratti.