Le voci femminili preimpostate per gli assistenti vocali - Siri di Apple, Alexa di Amazon e Cortana di Microsoft, ma anche Google Assistente nella versione originale in lingua inglese - rafforzano gli stereotipi di genere. A dirlo è una ricerca pubblicata dall’Unesco, secondo cui le risposte spesso sottomesse o civettuole che vengono date dagli assistenti vocali anche a domande inopportune, volgari o allusive restituiscono l’immagine di una donna servile e remissiva.
Lo studio si intitola “I’d blush if I could”, “Arrossirei se solo potessi”, che è la risposta fornita fino a qualche tempo fa da Siri a chi la insultava dandole della poco di buono. Attualmente, invece, l’assistente replica: "Non so proprio cosa rispondere".
A sviluppare questi sistemi di intelligenza artificiale sono team composti prevalentemente da uomini (tra i ricercatori in AI, le donne sono solo il 12%), si osserva nell’indagine. I ricercatori evidenziano le potenziali implicazioni negative a lungo termine soprattutto nei bambini, che cresceranno interfacciandosi con gli assistenti vocali.
«Macchine obbedienti e cortesi che fingono di essere donne stanno entrando nelle nostre case, auto e uffici», ha osservato Saniye Gulser Corat, direttrice per l’Uguaglianza di genere all’Unesco. «La sottomissione che è inculcata in loro influenza il modo in cui le persone parlano alle voci femminili, e modella il modo in cui le rispondono alle richieste e si esprimono».
Amazon nel 2017 è finita nel mirino del fisco italiano perché accusata dalla procura di Milano di aver evaso 130 milioni di euro di tasse. La Guardia di Finanza ha descritto un sistema con il quale il colosso fatturava le proprie attività in Lussemburgo in modo simile a quanto fatto in precedenza da Google.
Il colosso di Jeff Bezos, con 4 poli logistici in Italia e 23 centri, ha reagito dicendo che loro pagano tutte le imposte dovute in ogni Paese in cui operano: «le imposte sulle società sono basate sugli utili, non sui ricavi, e i nostri utili sono bassi».
È la complessa situazione dei big del web, costantemente accusati di eludere il fisco a fronte di fatturati stellari e condizioni di lavoro non sempre moderne.
Da anni Amazon ha trasformato il commercio mondiale e le condizione di chi lavora nel settore. Nel 2018 un cronista italiano, Luigi Franco, ha scritto un reportage per il magazine Millennium, dopo essersi fatto assumere come magazziniere allo stabilimento di Castel San Giovanni (Piacenza) e riscontrando condizioni di lavoro difficili, tra ritmi di lavoro pesanti, dettati da un algoritmo, e problemi di salute legati all’usura dei lavoratori applicati.
Ma per gli stati l’avanzata di Amazon, e delle sue condizioni di lavoro, sembrano irrefrenabili. Ci ha pensato la Svizzera, non un Paese del terzo mondo o del “pericoloso” sovranismo europeo, a definire regole vantaggiose per le imprese nazionali e non per il colosso americano.
Nella primavera del 2018 era attesa l’apertura del primo centro di Amazon in Svizzera. Ma l’evento è stato anticipato da una nuova regola sull’Iva, entrata in vigore nel Paese di Guglielmo Tell dal gennaio 2019. Le società straniere che si occupano di vendita per corrispondenza e che generano oltre 100.000 franchi svizzeri l’anno in piccole spedizioni in tutto il mondo sono soggette a tassazione.
Il giornale Ticinonline ha calcolato che sarebbero circa centomila i clienti svizzeri che hanno ricevuto da Amazon una comunicazione in cui si spiega che dal 26 dicembre 2018 il sito americano non consegnerà più nella loro terra. E consiglia di effettuare ordini presso le filiali europee di Germania, Amazon.de, o Italia, Amazon.it. Queste filiali si vedranno comunque applicare un dazio (intorno almeno a 11.50 €) su ogni prodotto, viste le nuove disposizioni. Su Amazon.it si scrive che “a partire dal 1 gennaio 2019, Amazon applica l'imposta sul valore aggiunto svizzera ai prodotti forniti in Svizzera. Solo alle consegne dei libri si applica un’aliquota ridotta del 2.5% del valore del prodotto. Agli articoli delle seguenti categorie si applica un’aliquota standard pari al 7.7% del valore del prodotto: Musica, DVD, Video, PC e Videogiochi, Software, Abbigliamento, Sport, Gioielli, Orologi, Auto e Moto, Elettronica e Foto, Cucina, Casa e Giardino, Cancelleria e prodotti per ufficio, Strumenti musicali, Giocattoli”.
Semplice e indolore. La Svizzera, con i suoi 8 milioni e mezzo di abitanti e una elevata capacità di garantire i propri cittadini ha imposto delle regole per favorire il commercio interno, penalizzando il più grande colosso mondiale che trasformerebbe il settore come ha già fatto in ogni altro Paese.
A queste condizioni vendere in Svizzera non conviene. Amazon non ha retto alle nuove imposte. “È una vittoria per il commercio svizzero”, ha reagito l'esperto di e-commerce Jan Bomholt al giornale 20 Minuten.
Non sarebbe difficile fare altrettanto in Italia, con i corretti accorgimenti del caso viste le dimensioni del nostro Paese e la presenza già forte di Amazon sul territorio. Fino a oggi le scelte dei governi italiani sono state però in tutt’altra direzione. Come nel 2016 con la nomina, voluta dall’ex premier Matteo Renzi, di Diego Piacentini, senior vice president international di Amazon.com a commissario straordinario per l’attuazione dell'Agenda Digitale per il governo italiano.
Siamo soliti catalogare le tipologie di codice maligno in circolazione con termini che descrivono la natura della loro azione malevola. Non solo malware, ma anche spyware, adware, ransomware, trojan e così via. All’elenco aggiungiamo un appellativo forse meno utilizzato, ma già di per sé piuttosto chiaro: stalkerware. Un problema che riguarda il mondo Android e che ha richiesto l’intervento attivo da parte di Google.
Il gruppo di Mountain View ha eliminato da Play Store sette applicazioni fino a pochi giorni fa distribuite alla luce del sole, dalla piattaforma ufficiale del sistema operativo. Lo ha fatto in seguito a una segnalazione pubblica da parte di Avast.
I software, per funzioni e dinamiche simili agli spyware, permettevano agli utenti di spiare i dispositivi dei partner o dei dipendenti, raccogliendo e inviando da remoto informazioni in merito agli spostamenti, alle chiamate effettuate, ai messaggi scambiati, alle fotografie scattate e così via. Un comportamento ritenuto da bigG non in linea con le policy del mondo Android. Queste le app oggetto della cancellazione.
Come si può intuire dai nomi, erano distribuite sotto forma di strumenti per il parental control (per tenere sotto controllo i figli) o per monitorare l’attività dei dipendenti sul posto di lavoro. Nelle descrizioni e nelle recensioni, però, tanti i riferimenti a un impiego per spiare partner, fidanzati e coniugi, attuali oppure ex. Di seguito le parole di Nikolaos Chrysaidos, numero uno del team Mobile Threat Intelligence and Security per Avast.
Queste applicazioni non sono etiche e risultano problematiche per la privacy delle persone, non dovrebbero essere ospitate dal Play Store di Google poiché promuovono comportamenti criminali: datori di lavoro, partner invadenti o stalker potrebbero abusarne. Alcune delle app sono offerte come strumenti di parental control, ma dalle descrizioni emerge un quadro diverso, dicendo agli utenti che possono impiegarle per “tenere d’occhio i traditori”.
Per funzionare le app dovevano essere installate sullo smartphone della vittima, dunque era necessario accedervi fisicamente. Dopodiché agivano in background, senza nemmeno mostrare un’icona, così da non poter essere facilmente individuate.
Uno studio condotto lo scorso anno da IPV Tech Research afferma che non è semplice capire se sul proprio dispositivo è stato installato uno stalkerware, poiché gran parte degli strumenti dedicati alla sicurezza non etichetta queste app come dannose. Avast lo fa mostrando un avviso all’utente. Nel mese di aprile Kaspersky ha dichiarato che inizierà a farlo in futuro. Symantec, Malwarebytes e Lookout seguiranno a ruota. L’obiettivo comune è quello di togliere di mezzo anche questa forma di minaccia per la privacy che interessa l’universo mobile.
Instagram toglie la possibilità di vedere il numero dei like sotto i post. Il social network, nel luglio 2019, ha avviato il test in diversi Paesi, compresa l’Italia: si potrà sempre porre la propria approvazione davanti a un contenuto ma scomparirà la possibilità di vedere quali siano i numeri complessivi raccolti fino a quel momento. Solo la persona che amministra l’account potrà vederli.
“Vogliamo che Instagram sia un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimere se stessi. Ciò significa aiutare le persone a porre l'attenzione su foto e video condivisi e non su quanti Like ricevono. Stiamo avviando diversi test in più paesi per apprendere dalla nostra comunità globale come questa iniziativa possa migliorare l’esperienza su Instagram”, spiega Tara Hopkins, Head of Public Policy Emea del social network di proprietà di Facebook.
L’esperimento di togliere i like ai contenuti era già stato annunciato da Instagram ad aprile durante F8, l’annuale incontro degli sviluppatori del gruppo Facebook. Allora, però, il test era limitato al Canada mentre ora si allarga ad altri contesti, nazioni, community.
Lo scopo è quello di disinnescare la dipendenza da ‘like’ di molti utenti, un fenomeno messo in luce da Kaspersky in una ricerca fatta due anni fa. Secondo la ricerca, il 61% degli utenti intervistati affermava di stare sui social per sentirsi meglio ma il 57% confessava di non trovare quello che desiderava vedere; solo il 31%, cioè un utente su tre, non si preoccupava del numero di “mi piace” ricevuto quando pubblicava un post; il 24% degli uomini e il 17% delle donne addirittura si arrabbiava se non avesse ricevuto l’attenzione, espressa sempre in like, adeguata alle sue aspettative iniziali.
Poi ci sono altri due dati più preoccupanti. Pur di avere più like le persone mettono in discussione e in pericolo la propria privacy: la propria abitazione (37%), la propria mail personale (31%), lo stato della propria relazione (30%), il posto di lavoro (18%) e così via. Gli intervistati, infine, affermavano che per colpa dei social avevano iniziato a comunicare sempre meno con i genitori (31%) i figli (33%) i partner (23%) gli amici (35%) e i colleghi (34%).
“Un’ottima notizia, un freno agli abusi degli influencer e a chi fa pubblicità occulta sui social senza rispettare le linee guida dell'Antitrust”, commenta Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori. “Siamo stati i primi a scoperchiare il problema e a ottenere la prima condanna in materia dall’Antitrust – spiega – Grazie al nostro esposto, dopo la moral suasion, si è passati ad impegni precisi e concreti, sia da parte delle aziende che degli stessi influencer. Il problema, però, è che le segnalazioni di violazioni proseguono e che è difficile monitorare il fenomeno, troppo vasto. La nuova politica di Istagram, se divenisse definitiva, affronterebbe il problema alla radice”, conclude Dona.
Lo sa bene Chiara Ferragni che sembra piuttosto preoccupata dal mutamento in atto. Nelle ultime ore l’influencer, che si trova a Tokyo per un evento, ha condiviso diverse Stories su Instagram chiedendo ai follower se i like erano visibili oppure no.
“Tanti utenti mi stanno dicendo che non riescono a mettere like alle mie foto negli ultimi due giorni – ha scritto –, succede anche a voi?”. Poco dopo Chiara ha pubblicato un sondaggio, chiedendo se i follower riuscivano a vedere i like.
In tanti hanno ironizzato sul comportamento della fashion blogger, definendo eccessiva la sua preoccupazione. In realtà è comprensibile che Chiara, arrivata al successo proprio grazie a Instagram, sia preoccupata per quello che sta succedendo e per il suo futuro.
I big della Silicon Valley ci spiano costantemente e sanno anche quando un utente naviga su siti con contenuti pornografici in modalità anonima.
Secondo un articolo in uscita su New Media & Society, per il quale sono stati analizzati 22.484 siti per adulti, i sistemi di tracciamento di società quali Google e Facebook monitorano i dati di navigazione degli utenti. Quello che non è chiaro, è il motivo.
“I siti che pubblicano contenuti pornografici devono trattare i dati di cui entrano in possesso con maggiore consapevolezza e considerarli dati sensibili, esattamente come accade per i dati sanitari”, afferma Elena Maris, la ricercatrice con borsa di studio post-dottorato che ha condotto lo studio per Microsoft. “La protezione dei dati è cruciale per la sicurezza dei visitatori e da ciò che abbiamo visto questi siti e piattaforme potrebbero aver preso la gestione di tali dati sottogamba”.
Gli altri autori che hanno partecipato allo studio – Jennifer Henrichsen, dottoranda all’Università della Pennsylvania e Tim Libert, docente di scienze informatiche alla Carnegie Mellon (Pittsburg, Pennsylvania) – hanno rilevato che il 93% dei siti con contenuti pornografici presi in considerazione, ha inviato i dati in media ad altri sette domini esterni. Gli autori hanno utilizzato webXray, un software libero che analizza e incrocia le richieste di accesso ai siti ricevute da terze parti. La maggior parte delle informazioni (il 79% dei siti che hanno divulgato i dati degli utenti) è stata inviata per mezzo di cookie di tracciamento di società esterne.
Il fenomeno del tracking varia all’interno della rete. Gli utenti più frequenti vengono tracciati per mezzo dei cookie, segmenti di testo scaricati dal pc ogni volta che si visita un sito. In altre occasioni, i tracker si manifestano sotto forma di pixel invisibili posizionati su una pagina web. Nella maggior parte dei casi, questi strumenti di tracciamento permettono ai siti di identificare e classificare i visitatori più frequenti. Possono contribuire a far rimanere l’utente su un certo sito, a tenere traccia delle sue preferenze e a gestire gli annunci pubblicitari.
Lo studio ha rivelato la presenza di web tracker di Google (o di una delle sue società sussidiarie, come la piattaforma di annunci pubblicitari DoubleClick) nel 74% dei siti per adulti. Tracker della società di software Oracle sono stati individuati nel 24% dei siti e quelli di Facebook, che non permette la pubblicazione di contenuti pornografici o di immagini di nudo in alcuna delle proprie piattaforme, sono stati tracciati nel 10% dei siti pornografici presi in esame dallo studio.
“Il fatto che il meccanismo per tracciare i siti a luci rosse sia così simile, per esempio, a quello dei siti di vendite online, dovrebbe di per sé far suonare un campanello di allarme”, ha affermato la dottoressa Maris. “Non stiamo parlando di scegliere un maglione e di vedercelo proposto per tutto il web. È qualcosa di molto più specifico e profondamente personale”.
Lo studio ha rivelato che solo il 17% dei 22.484 siti presi in esame erano crittografati, il che suggerisce che un tesoretto composto dai dati degli utenti potrebbe essere esposto ad attacchi di hacker o a violazioni.
Qual è il vero motivo della presenza di questi strumenti di tracciamento? La maggior parte dei codici di siti esterni incorporati in questi siti internet, in realtà è parte di una pratica standard nel settore dell’editoria. Per The New York Times, utilizzare strumenti di tracciamento simili e raccogliere, utilizzare e condividere dati relativi ai propri lettori è una prassi abbastanza comune. Alcuni di questi strumenti, come quelli di Google Analytics, offrono una quantità enorme di dati sul traffico del sito. DoubleClick e altri costituiscono l’infrastruttura per gli annunci pubblicitari.
In cambio, queste società terze ricevono i dati dei visitatori delle pagine. Sia le agenzie pubblicitarie che le piattaforme sostengono che i dati raccolti rimangono anonimi. E mentre alcune informazioni sono basilari e riguardano per esempio il tipo di dispositivo utilizzato, altre (quali l’indirizzo IP o l’identificativo per dispositivi mobili per la pubblicità), se incrociate con i dati di un profilo già esistente, potrebbero essere utilizzate per risalire all’identità dell’utente.
Ciò che queste società potrebbero voler fare con i dati di navigazione ottenuti dai siti a luci rosse è un mistero. Oracle, che possiede un certo numero di “data broker” ed è stata soprannominata “la Morte Nera della privacy”, potrebbe, per esempio, aggiungere i dati raccolti dai propri strumenti di tracciamento ai profili dei quali è in possesso. Nei casi di Google e Facebook, che rifiuta di ospitare contenuti pornografici o a sfondo sessuale su diverse sue piattaforme, non è sempre chiaro il motivo per cui tali dati sensibili vengano raccolti, seppure in modo non intenzionale.
Facebook and Google hanno negato che informazioni raccolte dagli strumenti di tracciamento sui siti per adulti vengano utilizzate per campagne marketing con l’intento di creare messaggi pubblicitari per gli utenti.
“Non permettiamo a Google Ads l’accesso ai siti per adulti e vietiamo la creazione di annunci ad hoc e di profili pubblicitari basati sulle abitudini sessuali o le attività online degli utenti” ha scritto la portavoce di Google in una dichiarazione. “Inoltre, ai tag dei nostri servizi di marketing non viene mai permesso di trasmettere a Google un’informazione che permetterebbe di risalire all’utente”.
Una spiegazione simile è stata data anche da un portavoce di Facebook che ha sottolineato che le regole della società proibiscono ai siti con contenuti per adulti di utilizzare gli strumenti di tracciamento a fini pubblicitari. Sebbene il pixel di monitoraggio di Facebook permetta a qualsiasi sito esterno l’installazione sulla propria pagina (non occorre ottenere un’autorizzazione) l’intento della società è quello di bloccare i siti pornografici e di non raccogliere informazioni da tali pagine. Il portavoce ha lasciato intendere che in caso si rilevi che siti di natura pornografica utilizzino lo strumento di tracciamento, la società si impegnerà a far rispettare il divieto.
Oracle non ha rilasciato dichiarazioni o commenti.
Ma anche se i dati sono tecnicamente anonimi e non vengono utilizzati per campagne pubblicitarie ad hoc, alcune informazioni relative alla cronologia potrebbero finire nei file della società. E quando si tratta di siti pornografici, anche un singolo dato sulla cronologia delle esplorazioni è estremamente sensibile poiché potrebbe rivelare tratti della personalità. Come fanno notare la dottoressa Maris e il dr. Libert in questo studio, quasi il 45% dell’URL dei siti web pornografici “rivela o suggerisce chiaramente il contenuto del sito stesso” e così facendo potrebbe rivelare l’identità o l’orientamento sessuale dell’utente o indurre terze parti a individuarne gli interessi sessuali. “Si tratta di un argomento molto delicato”, ha aggiunto la dottoressa Maris, citando alcuni URL per interesse specifico: zoorastia, incesti e sesso con adolescenti per fare qualche esempio.
I ricercatori hanno dimostrato che per i visitatori della maggior parte di questi siti non c’è modo di sapere se una delle società tech abbia installato dei cookie e sono riusciti a individuare le politiche sul trattamento dei dati personali solo nel 17% dei siti presi in considerazione.
La dottoressa Maris sostiene che una tale mancanza di trasparenza è simile alla questione del consenso all’atto sessuale. “Come in un rapporto sessuale, il silenzio non può essere considerato una forma di assenso”, ha affermato. “Gli individui devono essere in grado di comprendere chiaramente le dinamiche di potere nello scambio sessuale a cui vanno incontro quando accedono a un sito pornografico”. Tali dinamiche di potere, secondo la dottoressa Maris, sono assolutamente sbilanciate. “Stiamo parlando di alcune delle società più potenti al mondo”, ha ribadito, facendo notare che è molto difficile per un consumatore rivendicare i propri diritti nel caso in cui i propri dati finiscano nelle mani sbagliate.
Il consenso esplicito dovrebbe essere al centro della privacy sul web. Quasi tutte le attività di tracciamento avvengono per default e sono governate da regole sulla privacy impossibili da decifrare. In un’era che privilegia e rende prioritaria la raccolta di massa di informazioni personali, tutto ciò si concretizza in una raccolta di dati non solo invasiva ma anche superflua. Le fughe di dati degli utenti dai siti pornografici verso siti esterni è solo un esempio di quale sia oggi la prassi comune online.
La storia della nostra democrazia è costellata di grandi eventi e di giornate strane, svolte imprevedibili, inserti che sembrano piombati improvvisamente in questo grande libro repubblicano. Oggi è una di quelle giornate perché, nel bene o nel male, a prescindere dal giudizio tecnico-politico che ognuno può maturare, questo è il giorno in cui il futuro governo, l’andamento dello spread, miliardi di capitalizzazione in Borsa, fragili equilibri bancari e molto altro dipendono dal click di poche persone. Il 3 settembre 2019 è stato il giorno di Rousseau.
Come si è arrivati a tutto questo? Una storia iniziata con un V-Day, costellata (parola non casuale) di colpi di scena sullo sfondo di un’utopia tecnocratica: una storia che passa dal comico (altra parola non casuale) al tragico, alla ricerca di un finale che apra ad un nuovo capitolo. Perché forse non è chiaro a tutti, ma questa strana giornata è probabilmente la fine della prima serie, in attesa di un sequel che rimescolerà i personaggi e costruirà una nuova narrazione.
A prescindere da quel che è successo e che succederà, il M5S ha raccolto un primo incontestabile successo: tutta l'Italia si è fermata a guardare la piattaforma Rousseau. Da oggetto di dileggio a cuore pulsante della politica nazionale. Non guardano tutti nello stesso modo a Rousseau, ovviamente: la stessa piattaforma rappresenta per qualcuno una chimera ideale di altissima democrazia, per altri non va oltre la becera bestemmia contro le istituzioni e la Costituzione. In mezzo a queste visioni estreme ci sono tutte le sfumature di un passaggio politico del tutto anomalo, che fa trasecolare e sognare al tempo stesso sulla base del punto di vista dell’osservatore.
Rousseau è la piattaforma di democrazia diretta del MoVimento 5 Stelle. I suoi obiettivi sono la gestione del MoVimento 5 Stelle nelle sue varie componenti elettive (Parlamenti italiano ed europeo, consigli regionali e comunali) e la partecipazione degli iscritti alla vita del MoVimento 5 Stelle attraverso, ad esempio, la scrittura di leggi e il voto per la scelta delle liste elettorali o per dirimere posizioni all’interno del MoVimento 5 Stelle.
Rousseau è la piattaforma del MoVimento 5 Stelle dove puoi esprimere le tue idee e sostenere le sfide in cui credi, proponendo disegni di legge, votando le leggi proposte dagli altri utenti che ritieni più utili o urgenti, e portando tematiche di interesse collettivo all’attenzione dei nostri Portavoce.
Il cambiamento è anche nelle tue mani, a partire da qui.
Il proseguimento dell’attività di Governo è stato deciso a colpi di click. Non era mai successo. Non può essere un giorno come gli altri e capirlo è fondamentale per capire su quali basi poggi ora quell’impianto repubblicano che ci hanno consegnato i padri costituenti.
Quanto è attendibile un voto gestito con tecnologie la cui trasparenza è tutto fuorché certificata? Si può immaginare di affidare il destino del Paese a un processo di voto non trasparente e quindi a quella che con sicurezza è soltanto la percezione di una democrazia diretta? La questione è di principio: non si discute se il voto sia inquinato o meno, ma sulla possibilità che possa esserlo. Non è lana caprina: una democrazia diretta può definirsi tale soltanto in proporzione alla solidità dei suoi strumenti, poiché altrimenti si rivela ancor più fragile di una democrazia che, pur basata su strumenti più grezzi e tradizionali, ha superato più sfide e può definirsi più collaudata.
Pensare che in questa giornata un “man-in-the-middle” possa cambiare l’esito di un voto non è qualcosa che dovrebbe far riflettere? Pensare che processi di hacking sociale, di forzatura dell’opinione pubblica o di semplici sfumature sulla formulazione del quesito possano decidere le sorti dell’Italia, non dovrebbe portare a cautele estreme e minor abbandono alla semplice propaganda? Per contro: siamo certi che le grandi riunioni con cui altri partiti regolano i propri processi interni abbiano dinamiche più trasparenti, meno inquinate e meno votate alla sterilizzazione del dibattito? E se arrivasse un DDOS? E se qualcuno manomettesse i DNS? E se un worm riuscisse ad inquinare il risultato? E se votasse anche R0gue_0? Chi lo spiegherebbe a chi potrebbe pagarne a caro prezzo le conseguenze?
R0gue_0 è il nome in codice di un attacco informatico – operato più volte – rivolto alla piattaforma Rousseau, testimoniato da alcuni tweet condivisi dall’autore stesso nelle ore precedenti al voto, con link che portano alla piattaforma PrivateBin dove è stato caricato l’elenco delle tabelle sottratte dal database, con riferimenti diretti a “candidati_2018”, “consultazioni_vote” e “donazioni_anagraphic” solo per fare alcuni esempi.
La giornata di Rousseau è stata un giorno nel quale tutti si sono specchiati provando a guardarsi al proprio interno: siamo sul ciglio di una democrazia svuotata, di una democrazia apocrifa o semplicemente di una democrazia che sta evolvendo verso nuove forme – con tutte le fragilità del caso?
Una cosa è certa: non è questa l’idea di democrazia che avevano in mente i padri costituenti. Al tempo stesso i padri costituenti non potevano avere idea del fatto che un giorno sarebbe nato il web, avrebbe spazzato via l’ordine precostituito e avrebbe iniziato a riscrivere uno a uno i pezzi fondamentali della società, dell’economia e della politica.
Rousseau è la punta di un iceberg contro cui la nostra storia sta andando a sbattere: un testo pensato per arginare il rischio di un nuovo dittatore si trova a veder imbrigliate le proprie maglie da qualcosa di molto più sottile: la percezione stessa della rappresentatività. La parola ultima di un Presidente della Repubblica o di un Presidente del Consiglio incaricato viene sostituita dalla parola ultima di un social network da poche migliaia di iscritti; la logica della rappresentatività di un popolo tramite i suoi eletti viene scardinata dall'”uno vale uno”.
Non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità.
Giovanni Maria Flick
Il Movimento che voleva scardinare le logiche dei partiti è arrivato alla sua battaglia estrema senza avere però una proposta forte da contrapporre alla nobile arte espressa dai testi costituzionali: oggi è solo il giorno in cui il grimaldello ha forzato i meccanismi, ma andare oltre significa costruire un nuovo ordine a partire dal caos. Oggi assisteremo inermi allo spettacolo dei click.
“Il partito dei no” contro il “partito dei sì”, a questo si è ridotto il dibattito degli ultimi mesi. Una contrapposizione ideologica svuotata di qualsiasi contenuto, è diventata soltanto puro e asettico bipolarismo che su qualsiasi tema contrappone il proponente contro il suo contrario, cercando di colonizzare in fretta le poltrone del “Sì” prima che inizino a scottare a causa della pressione dei “No”. La demonizzazione del “nemico” è parte integrante del gioco, poiché quando il dialogo si interrompe e le sfumature sono ignorate, la controparte non è mai un elemento di confronto, ma solo e soltanto una sponda di lite.
La contrapposizione tra i Sì e i No è la conclusione di un processo politico che va svuotandosi di ideali e di visione: il dibattito è oggi improntato sulla pragmatica, asettica e limitata visione caso-per-caso. Senza visioni non servono spiegazioni, senza lungo periodo non servono argomentazioni, senza ideologie non servono idee: è tutto applicazione e immediatezza, all’Essere si contrappone il “partito del fare”, non c’è spazio per riflessione e compromesso. Sì o No, purché immediato, purché allineato, purché emotivo e funzionale alla prossima tornata elettorale.
In questo contesto, e nella esasperata visione ideologica della tecnocrazia, la democrazia diretta non può che portare a quella che è la strana giornata di Rousseau dove con un Sì o con un No si tenta semplicisticamente di dipanare uno dei più importanti dilemmi che questa legislatura dovrà affrontare. Sì o No, nessun “ma”, perché nell’epoca dell’istantaneità e dei social non c’è spazio per le argomentazioni se non funzionali allo share per i ricchi salotti della tv-dibattito. Il mea culpa sia generalizzato, perché non c’è Partito che non abbia contribuito a modo proprio alla degenerazione (o all’elevazione) verso questo percorso sulla strada del voto online odierno.
In prospettiva si potrebbe pensare però che questa strana giornata di Rousseau possa rappresentare un passaggio di consegne tra un passato e un futuro, un Movimento che non sa più di esserlo e un Partito che non sa ancora di esserlo. Può essere la fine di un inizio o l’inizio di una fine, così come può identificare il momento nel quale si butta un’ultima occhiata sul capitolo precedente mentre in mano si ha già la pagina che si intende sfogliare.
Lo strano voto su Rousseau non cambierà la storia, ma di questa storia è un elemento fondamentale. Il “Sistema operativo del MoVimento 5 Stelle” conterà i click fino alle ore 18 e il diritto al voto è concesso ai 115.372 iscritti. La domanda è semplice:
Sei d’accordo che il Movimento 5 stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?
La politica ha ceduto i “Sì” e i “No”, tenendo per sé soltanto i “ma”. Codice binario che nasce da uno strano sistema operativo.