Gli estratti

Cecilia

Nel ginepraio normativo e regolamentare del nostro Paese, nessuno, anche l’ente più preparato e preciso, si può ritenere esente da possibili errori, perlomeno di carattere interpretativo.

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Malgrado il lavoro mi abbia molto appassionato e lo abbia sempre svolto con il massimo impegno, con il passare degli anni è via via cresciuto in me il dubbio che il mio compito e quello dei colleghi sia alla fine inutile e, in qualche caso persino dannoso

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Non ho mai fatto carriera, forse perché non ci ho mai tenuto molto o forse a causa delle critiche che ho espresso, ma non me ne rammarico. Sono soddisfatto di quanto ho compiuto a servizio della Repubblica: nella mia idea di “civil servant” è ben radicato il principio di lealtà ed obbedienza.

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Sono certo che Cecilia, grazie alle sue conoscenze di base e per il fatto di avere brillantemente vinto un concorso pubblico, abbia tutte le competenze tecniche e amministrative per fare bene. So però altrettanto bene che con le sole competenze teoriche non si combina molto.

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Trattenersi per mesi in una città è l’aspetto che più mi piace del mio lavoro. Guardando le carte del Comune si intuiscono tantissime dinamiche e realtà che raccontano l’anima delle città.

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Con l’andare del tempo volevo sempre più bene alle amministrazioni dinamiche e innovative e sopportavo sempre meno quelle conservatrici e immobili. Così finivo per essere più severo con queste ultime e più tollerante con le prime.

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Quando leggo i documenti, dietro ad ogni atto amministrativo, proprio per aver vissuto in tante città, riesco a vedere gli scopi e gli effetti di quei procedimenti. Un’autorizzazione edilizia ha portato alla rinascita di un quartiere, un’opera pubblica è diventata la nuova biblioteca, l’assunzione di agenti di polizia locale si è tradotta in sicurezza e vicinanza per cittadini, il taglio dell’erba ha permesso ai ragazzi di frequentare il parco…

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Il nostro sistema tende a controllare e a punire chi sperimenta ed esplora nuovi percorsi, mentre chi è conservatore non rischia mai nulla ed anzi può vantarsi di non essere mai incorso in indagini e verifiche particolari.

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Ho deciso di parlarle di ciò che davvero conta, nella pubblica amministrazione come nella vita di tutti, in ogni contesto. Le parlerò delle persone. Voglio farle conoscere alcune delle tante, tantissime che ho visto impegnarsi per migliorare la vita dei cittadini e che hanno vissuto il loro lavoro come un servizio per il bene comune. Forse sono state persone “fuori dal comune” che non si sono accontentate di adempiere, ma che hanno voluto davvero essere utili agli altri. Donne e uomini che hanno provato a migliorare il loro Comune, la loro città. Persone che hanno cercato di innovare realmente la pubblica amministrazione, e in qualche caso ci sono pure riuscite.


Lorenzo

Gli piaceva girare a tarda notte in bicicletta per le strade deserte, specie d’inverno, nella nebbia, per osservare gli angoli e le piazze vuote e immaginarle affollate, attraversate, vive. Credeva alla città come un luogo di relazioni, prossimità e fiducia che permetteva alla comunità di esistere, di riconoscersi e di crescere.

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Il segretario ritenne esaustiva la spiegazione e informò il responsabile dell’economato che tutto era regolare e che il rimborso poteva procedere. Antonio masticò amaro e disse convintamente al segretario: “Il Comune non è più quello di una volta.” “Infatti, non lo è …e meno male che è così!” rispose il segretario.

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Vedere fianco a fianco i “buoni” e i “cattivi”, entrambi premiati dalla massima autorità locale era uno spettacolo unico e imperdibile. Su quel palco anche i duri delle case popolari erano emozionati e timidi, ed i loro genitori, presenti in massa, erano finalmente orgogliosi dei loro figli.

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Nel Comune quel giovane era diventato un’eccezione permanente o, per essere più precisi, una gran rottura di scatole. In realtà per gli uffici centrali di staff, Lorenzo era solo un nome, non lo avevano mai visto in faccia né avevano mai saputo che lavoro svolgesse.

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Anche se era faticoso trovare le varie soluzioni amministrative, gestire queste attività aveva avuto l’effetto di creare o rafforzare una rete di territorio che prefigurava un nuovo ruolo per il Comune. L’ente locale smetteva definitivamente di essere solo un produttore di regole e andava oltre anche il fatto di essere un erogatore di servizi standardizzati: il Comune si accingeva a svolgere una funzione di stimolatore delle iniziative da parte di enti e cittadini, di garante delle proficue interazioni tra istituzioni, di leader delle trasformazioni sociali.

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per lui tutto quel mondo era un luogo di impiegati tristi e demotivati che producevano complicazioni per i cittadini, regolamenti e imposte, o servizi scadenti e poco professionali.

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Capì che il suo desiderio di «una città come luogo di relazioni, prossimità e fiducia che permettesse alla comunità di crescere» ora poteva diventare per lui un impegno a tempo pieno e un vero percorso professionale.

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Si trattava di imparare a fare cose nuove: costruire collaborazioni stabili anche in fase di ideazione e poi progettazione di nuovi servizi, far partecipare le realtà dei quartieri, dalla biblioteca, all’oratorio alla società sportiva, rispettare i tempi e le diversità di ogni zona e contemporaneamente garantire il rispetto dei criteri di trasparenza e imparzialità che era richiesto al Comune in quanto pubblica amministrazione.

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Ogni città, piccola o grande che sia, è qualcosa di vivo e di vitale, non sono solo muri e strade. Ogni posto, con la sua storia, le sue dinamiche, le sue persone esprime sentimenti e pensieri. Il primo simbolo di identificazione collettiva per le comunità è il luogo dove si abita e per questo che i Comuni sono l’organizzazione pubblica più antica e più radicata.

Era una giovane consigliera comunale di nome Silvia, timida, alla sua prima esperienza, ma di nobili intenti e orientata al bene comune.

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Era un esperto in materia giuridico amministrativa. Questa era la sua preparazione di base, questa era la competenza per la quale era stato selezionato, questo era l’argomento di tutti i corsi di formazione cui aveva partecipato, questa era la pratica che più aveva esercitato nei quasi quarant’anni di carriera che aveva svolto in quel Comune.

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Il dirigente era invece soddisfatto del suo lavoro e pienamente gratificato dall’aver applicato ancora una volta la sua competenza per risolvere un grave problema. L’approvazione del regolamento infatti, come era stato abituato, rappresentava esattamente l’obiettivo raggiunto.

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Anche il dirigente venne chiamato in causa, ma lui se la cavò trasferendo il giovane funzionario all’ufficio tributi dove avrebbe imparato finalmente come si scrive un regolamento!

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Quando poi si rivolgono all’apparato tecnico perché traducano questo in fatti concreti, si trovano esperti di diritto e che di mestiere scrivono leggi, decreti e regolamenti. Questo è ciò che sanno fare e questo fanno.


Franco

Appena laureato partecipò ad un concorso indetto dal Comune e, in pochi anni, fu nominato responsabile dell’ufficio tecnico: era un sogno che si avverava. Progettare, costruire scuole, strade, palazzi ora era diventato un vero lavoro. Poterlo fare per migliorare la sua città gli dava ancora più soddisfazione.

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Gli aveva sentiti dire frasi come queste: “Ma voi siete ancora qui? Io ora guadagno molto di più, faccio le cose che mi piacciono e sono molto più considerato di prima. Ma lo sapete cosa pensano i professionisti privati di voi che lavorate in Comune? Non ve le dico perché vi voglio ancora un po’ di bene…”.

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I ricorsi e le cause legate all’applicazione della norma spostavano sempre più l’attenzione dal risparmio per il Comune ai soli aspetti formali e alle possibili spiegazioni, anche le più illogiche.

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Erano gli anni che la polemica verso i dipendenti pubblici, definiti genericamente fannulloni o furbetti del cartellino, generava un tale pregiudizio per cui non si riusciva più a distinguere il comportamento corretto della maggioranza da quello dei pochi disonesti: quando il pregiudizio colpisce un'intera categoria a rimanere danneggiato è sempre il più irreprensibile.


Giulia

“Neanche la polizia ha il coraggio di metterci piede!” Ne raccontavano di tutti i colori. Erano esagerazioni, favole metropolitane. I palazzi di quel quartiere: sorgevano in una zona periferica isolata, senza servizi né scuole, senza negozi e senza una linea di trasporto pubblico.

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Il clima di sfiducia e di distanza era tale per cui chi pagava l’affitto era ritenuto dalla stragrande maggioranza uno stupido servo del potere. La rassegnazione sembrava prevalente. “Non crediamo che questa proposta possa risolvere quello che per più di venti anni non è stato risolto, questo quartiere è nato male e nulla può modificarne la situazione”.

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“Da noi non siamo neanche arrivati alla completa attuazione degli interventi per le innumerevoli difficoltà operative e gestionali: pareri e veti incrociati delle istituzioni, spostamenti di nuclei familiari impossibili da portare in fondo per la resistenza degli inquilini, l’insorgenza di comitati di protesta delle altre zone, ditte poco serie che hanno fatto un pessimo lavoro…”.

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All’interno del Comune i diversi settori come i Lavori pubblici, la Polizia locale e i Servizi sociali andavano ciascuno per la propria strada.

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“Bene! -affermò la sindaca nel suo incrollabile ottimismo- Ora abbiamo individuato tutti i possibili ostacoli e i rischi da evitare e quindi siamo nelle migliori condizioni per intraprendere l’impresa con grandi probabilità di successo!”. Il suo entusiasmo non era arginabile e, insieme alla Giunta, si diede un piano di lavoro preciso e ben strutturato.

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Andava individuato un leader doveva avere competenze tecniche ma anche una forte sensibilità riferita ai temi da affrontare.

Giulia era veneta, faceva l’architetto nelle campagne padovane e amava costruire il bello. Era apparentemente minuta, con gli occhi piccoli e scuri. Sul naso sottile portava dei grandi occhiali neri, un poco a punta negli angoli esterni. Questo le dava un’aria orientaleggiante che contrastava con la scelta di tenere i capelli tinti di biondo miele. Non aveva bisogno né di padri, né di padrini, né di padroni, ma era gentile e affabile con tutti.

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Si stimavano proprio per la loro diversità. Li accomunava la passione per quella città e il desiderio di riscattarne il destino e ciascuno svolgeva il proprio ruolo costantemente guidato da questi criteri.

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Per gli altri colleghi quella collocazione era proprio un tabù da sfatare: non avevano mai pensato che quello spazio potesse diventare sede di un ufficio e per giunta utilizzato solamente da una donna.

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Alla responsabile non rimase che accogliere l’idea, tanto sapeva che la determinazione di Giulia e Marcello insieme sarebbe stata invincibile e poi in fondo intuiva quanto efficace sarebbe stata la loro combinazione.

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Aveva inteso pienamente qual era la posta in gioco: cambiare la storia di quel quartiere malfamato. La ricerca della bellezza restava il criterio fondamentale mantenuto per tutta la durata del progetto: in quegli anni un principio rivoluzionario per una periferia.

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Lo scontro tra chi intendeva la sicurezza solo come esito di un intervento repressivo e chi sosteneva che la sicurezza è unicamente il frutto di azioni di promozione sociale, si sciolse come neve al sole.

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Aveva sempre visto la bellezza di quegli androni e di quell’ampio spazio tra le case anche quando oggettivamente non era visibile agli altri. Era casa sua, era bella da sempre, si trattava solo di rendere palese a tutti questa semplice verità.

Andrea

Andrea era un dirigente che voleva costantemente migliorare il Comune in cui lavorava. Era una bella persona ed un ottimo professionista, preparato e ottimista.

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Tra il 2011 e il 2016, i nodi vennero tutti al pettine, le difficoltà economiche erano evidenti e le risorse finanziarie dei Comuni furono pesantemente e progressivamente tagliate proprio mentre i cittadini diventavano portatori di bisogni sempre più diffusi e gravi.

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Il ruolo del Comune in questa nuova situazione andava completamente ripensato.

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Primo obiettivo quello di inserire dei giovani tra i collaboratori che potessero portare nuove energie e nuove visioni.

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Andrea era un professionista serio, preparato e risoluto e non si fermava certo al primo ostacolo. Durante la sua esperienza aveva ben compreso che essere responsabile voleva dire cercare sempre delle soluzioni; il suo motto era: «Non solo evidenziare i problemi, ma risolverli!»

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Era più forte in loro la voglia di sperimentare lo sconosciuto piuttosto che la tentazione di mantenere la routine. E poi conoscevano il loro dirigente: quando si metteva in testa un’idea avrebbe insistito fino a convincerli, sull’onda dell’entusiasmo che sapeva diffondere.

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Questa idea aveva riscontrato una risposta positiva inaspettata anche nei brillanti cinquantenni che li affiancavano, si intravedeva nei loro occhi lo stesso entusiasmo della gita di classe o dello stage dei tempi dell'università: una botta di gioventù che avrebbe fatto solo bene!

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La combinazione era perfetta: c’era un dirigente che, partendo dal servizio da dare ai cittadini e dal benessere dei propri collaboratori, aveva disegnato un futuro positivo e visionario, dall’altro lato c’era un esperto informatico che finalmente aveva un chiaro obiettivo condiviso da raggiungere. Un mix straordinario di potenza e precisione!

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Cecilia, giustamente, è solo parzialmente soddisfatta, e non ha torto: vuole dare il suo contributo a risolvere i problemi non a rinviarli o complicarli. Diventare degli azzeccagarbugli permanenti non può essere una prospettiva interessante. Lei merita di vedere le cose come stanno e magari, un domani, di migliorarle davvero.

Matteo

Era un vigile urbano o, meglio, un agente della Polizia Locale, come si dice oggi. Era un uomo burbero, antipatico, solo

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Negli anni i compiti a lui affidati erano rimasti sempre i medesimi. Il comando di Polizia Locale non brillava per l’attenzione alle persone che lavoravano e alla loro crescita o motivazione e, chi non si distingueva con comportamenti straordinari, finiva un tantino dimenticato e lasciato per decenni a svolgere le identiche mansioni

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L’agente di Polizia Locale è un po’ un ibrido: da un lato svolge un ruolo di tipo repressivo, dall’altro è visto come segno di sicurezza e protezione per i cittadini. Matteo conosceva entrambe le dimensioni e le viveva con analogo impegno.

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Era diventato, all’interno del corpo di Polizia Locale, una specie di complemento di arredo un po’ datato e di scarso valore che poteva rimanere al suo posto senza che nessuno se ne accorgesse più di tanto.

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“In fondo fare una multa in più non è poi così grave. Sarebbe molto peggio non fare una multa quando questa è dovuta”.

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Il procuratore allora guardò l’avvocato come dire “non perdiamo altro tempo e chiudiamo questa faccenda”. L’avvocato, che altrettanto si era già stancato di stare lì, colse al volo il messaggio non verbale e propose subito al proprio assistito un patteggiamento immediato.

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Gli era già capitato di presiedere numerose commissioni disciplinari e di dover intervenire con sanzioni pesanti, arrivando fino al licenziamento di alcuni dipendenti.

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In caso di pronunciamento definitivo della giustizia, non dava alcuna possibilità di scelta alla commissione disciplinare, anzi non c’era proprio alcuna scelta da fare: era obbligatorio procedere unicamente con il licenziamento in tronco.

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Il dirigente cercò di riflettere a lungo poiché gli appariva chiaro quale poteva essere il bene in quella situazione sia per il Comune che per Matteo, ma il quadro normativo era implacabile.

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Erano gli anni durante i quali mass media e politica trovavano grande soddisfazione a infierire sull’immagine dei dipendenti pubblici, dei sindacati e dei dirigenti. Chi provava a difenderli, o perlomeno ad evitare giudizi generalizzati, finiva immediatamente nella categoria dei lavativi e dei privilegiati.

Edoardo

Ci sono persone che ritengono che mostrare il proprio carattere o le proprie emozioni sia del tutto sconsigliabile in ambito lavorativo. Più si sale di livello e più questa sciocchezza prende piede. Sbagliano: non è la distanza che crea prestigio o autorevolezza.

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Non bisogna mai smettere di pensare che le persone possano cambiare, anche nei casi dove si ha la sensazione che alcuni comportamenti siano ormai immodificabili.

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Se poi, invece che al cambiamento negli altri, pensiamo al cambiamento di noi stessi, il discorso si fa ancora più difficile: ottenere un vero mutamento del proprio modo di porsi è sempre molto, molto complicato. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a volerlo fare e qualche volta bisogna crederci al di là di ogni ragionevole dubbio e saper guardare noi stessi con un po’ di autoironia.

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Era un dirigente molto preparato del settore Segreteria Generale di un Comune importante. Ottima conoscenza delle leggi e dei regolamenti, capacità di decidere e di assumere le responsabilità, preciso e puntuale nella maggior parte delle situazioni: queste erano le sue caratteristiche. Forse era meno pregevole nelle relazioni con gli altri, ma nessuno è perfetto.

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Gli amministratori, sindaco, assessori e consiglieri, all’inizio di ciascun mandato non potevano che affidarsi ai funzionari esperti e presenti da molti anni che li guidavano negli angusti e complicati anfratti della pubblica amministrazione locale e delle sue mille regole.

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Lui era ormai un’istituzione: era il più esperto, ed era l’unico, tra i dirigenti, che era rimasto sempre nello stesso settore.

Laddove scovava uno sbaglio o un difetto nei provvedimenti proposti ne godeva moltissimo.

Vigevano regole ferree: per chi lavorava in quel settore era vietato avere rapporti con altri uffici se non esplicitamente autorizzati dal dirigente, era proibito dare spiegazioni sui motivi della restituzione delle bozze degli atti, era interdetto condividere dati con altri settori, era impedito, anche tra i vari uffici interni al settore, scambiarsi informazioni o renderle conoscibili ai sottoposti. Questi precetti vigevano in maniera sistematica, automatica e completa e, per chi provava a sgarrare, le conseguenze erano valutazioni molto basse e assegnazione di compiti sempre più residuali e ripetitivi.

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Invece, questi metodi mettevano tutti sullo stesso piano, rendevano palesi informazioni e responsabilità sugli obiettivi, mettevano in comune dati e strumenti informatici. C’era poi quella formazione anomala con strane idee come cucinare insieme o stare insieme per due giorni con tanto di canzoni, chitarra e balli serali.

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La prima cittadina era riuscita a far sentire ai dipendenti che la conferma della maggioranza uscente non era stata solo un apprezzamento delle idee di cui lei era portatrice, ma rappresentava il riconoscimento della qualità del lavoro svolto dalle persone che operavano alle dipendenze del Comune.

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Entrò nel nuovo ente in punta di piedi, sapendo di essere l’ultimo arrivato e che doveva guadagnarsi la stima e il credito professionale e personale. Questa fu un’esperienza nuova, difficile e, per certi aspetti dolorosa. Si trattava di misurarsi con situazioni ignote, persone sconosciute e differenti, insomma una bella sfida degna di lui.

Letizia e le altre

Lavorava in Comune ed era assegnata ai Servizi sociali e, dal quel punto di vista, vedeva passare le persone più povere e fragili, tutti i giorni.

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Si trovava spesso a dover giustificare errori e ritardi o, più frequentemente, a rimediare agli stessi, tenendo sempre in mente che il risultato da raggiungere era quello di far avere alla famiglia il contributo economico il più presto possibile. Una cosa caratterizzava sempre il suo modo di porsi: il sorriso.

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Avrebbe avuto tante idee per migliorare i passaggi, per rendere più spedito e semplice il lavoro suo e degli altri, per far arrivare più velocemente le pratiche alla loro conclusione.

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La ringraziò con un abbraccio forte forte. Anche questo, nel posto di lavoro, era una novità assoluta: in certi ambienti sembra che il corpo non esista e rappresenti solo un antipatico ingombro inutile e in qualche caso dannoso.

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Lo stupore di Adele fu il massimo quando il dirigente chiese di poter avere un incontro con lei. La sorpresa si tramutò in gratificazione quando scoprì che lo scopo del colloquio era chiederle quali erano le sue idee per migliorare il lavoro, quali proposte aveva e come intendeva realizzarle.

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Eva: un’ottima assistente sociale che da molti anni era un punto di riferimento certo e stabile dell’intero settore

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Aveva sempre visto le persone, con la loro unicità, con le loro relazioni, con i loro sentimenti ed emozioni, con la loro storia, con i loro desideri. Aveva combattuto tutte le battaglie perché l’attenzione ai soggetti più fragili non diventasse mai discriminazione e perché i servizi forniti, anche involontariamente, non favorissero la segregazione.

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Visse la proposta del dirigente come un affronto, come una punizione, come un castigo immeritato. La sua reazione fu veemente e dura.

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Nei Servizi sociali era rimasta una sola assistente domiciliare, Chiara, poiché negli ultimi anni, per i numerosi pensionamenti e i giudizi di inidoneità fisica alla mansione, non c’erano altre operatrici disponibili.

Si poneva quindi il problema di assegnarle un compito in quanto era comunque in forza agli uffici.

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Sul tavolo, un po’ impolverato, c’era un personal computer di ultima generazione che veniva fornito a tutti i dipendenti amministrativi. Chiara però non lo sapeva usare molto bene.

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Cercava era una assistente di direzione e non una segretaria. Non si trattava solo di una variazione semantica o di una concessione al politicamente corretto. Il dirigente richiedeva all’assistente competenze molto elevate e le assegnava compiti complessi e delicati. Esigeva che conoscesse il sistema organizzativo e tutti i processi amministrativi in auge nel settore.

Sebastiano

Apparteneva ad una generazione di mezzo: era troppo anziano per sentirsi pienamente appartenente ai nativi digitali, ma non era così vecchio da vivere con disagio l’avvento della digitalizzazione.

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Non aveva mai ritenuto interessante l’idea di diventare un dipendente della pubblica amministrazione. Tra i propri parenti e conoscenti era ritenuta una soluzione di serie B, destinata a quelli che non volevano lavorare molto, che non ci tenevano a fare carriera e che erano attirati solo dal posto fisso per poterne sfruttare tutte le garanzie a proprio esclusivo vantaggio.

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“Tu devi stare al tuo posto! Ricorda che sei un operaio elettricista e che sei pagato per fare, non per pensare. Il tuo ruolo è andare a riparare gli impianti quando te lo chiedono, niente di più. E comunque tieni sempre presente che tanto, con il tuo titolo di studio, non potrai mai avere un avanzamento di carriera.”

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Anche se ora guadagnava meno si sentiva molto più utile alla comunità. Prestare la propria opera per tenere in efficienza le strutture pubbliche, le scuole in particolare, lo faceva stare bene e, anche se lo stipendio non aumentava, lui era soddisfatto così.

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La prima reazione fu di spavento: immaginava che la comunicazione contenesse un trasferimento d’ufficio, o un provvedimento disciplinare

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Come diceva sua nonna, che: «Solo chi non fa, non sbaglia», ma sapeva che nella pubblica amministrazione era invece premiato l’atteggiamento opposto: «Non fare niente che non sbagli mai».

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Ogni persona può avanzare proposte per il raggiungimento di effettivi e significativi miglioramenti sui livelli di efficienza e di efficacia dei servizi, con risultati a favore del Comune che siano misurabili ed economicamente tangibili.

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Ottenere tempestivamente un riscontro era un’enorme novità: purtroppo la prassi era che non venissero fornite reazioni puntuali e veloci alle istanze e gli stessi dipendenti si erano abituati a questo andazzo e, inconsapevolmente, rischiavano di agire allo stesso modo con i cittadini.

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La realtà non la cambiano i top manager o i grandi politici, la realtà la cambiano coloro che lavorano quotidianamente, con il loro sforzo e la loro creatività. Ai dirigenti e ai sindaci spetta solo il compito di creare le condizioni per favorire questo impegno diretto, niente di più e niente di meno.

Matilde

Era reduce da una notevolissima e ricca carriera professionale nel privato, era stato dirigente e poi imprenditore di successo. Non era invece per nulla abituato né alle regole complesse, e a volte arcaiche, della pubblica amministrazione né ai suoi tempi lunghi.

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Voleva restituire alla sua città quanto aveva ricevuto dalla comunità in termini di opportunità e successi.

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Molti lo avevano scoraggiato dall’intraprendere l’avventura di diventare amministratore pubblico, altri invece lo avevano spronato prefigurando per lui una fase della vita che sarebbe stato molto dura e impegnativa, ma altrettanto affascinante.

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Nel suo immaginario, il lavoratore dell’ente locale doveva essere un tipo spento, privo di entusiasmo e anche un po’ musone. Quando scoprì che invece era un’operatrice pubblica e che aveva una professionalità qualificata e una responsabilità importante, fu una felice sorpresa.

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“Fai un po’ quello che vuoi, tanto andrai a sbattere contro il muro. Sappi che se lasci il mio settore, tu qui non ci tornerai, e, ricordati: i politici passano, ma i dirigenti restano. Se decidi emotivamente, da tipica donna, te ne pentirai. Ma sarà tardi.”

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A volte la mediocrità diffusa tende a raffigurarsi l’intera compagine circostante come altrettanto mediocre, in modo da non sentirsi fuori posto e a non sforzarsi di migliorare. Con questa profezia che si autoavvera sia la pubblica amministrazione che l’intera comunità assumono un atteggiamento sempre più cinico e rassegnato.

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“Se non ti chiedono continuo riscontro del lavoro che devi fare -le dicevano alcuni colleghi- puoi rallentare il ritmo”.

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Le attitudini desiderate erano legate alla capacità di tessere relazioni, alla conoscenza e alla pratica delle lingue straniere, alla disponibilità a viaggiare e alla flessibilità per poter concentrare l’impegno nei momenti vicini alle scadenze dei bandi. Era necessaria infine qualche competenza economica per gestire molto bene la fase di rendicontazione dei progetti cui l’Europa presta particolare attenzione. Non c’era la solita richiesta di conoscenza del diritto amministrativo che scoraggiava tanti giovani dal partecipare ai concorsi pubblici.

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Queste ragazze hanno fatto un lavoro fantastico, ma non avrebbero potuto farlo se non fossero state capaci di acquisire la collaborazione dei loro colleghi.

Riccardo

“La pubblica amministrazione sembra molto migliore da come me la ero prefigurata. Sa che all’università, quando accennavo all’idea di lavorare per lo Stato, i commenti erano solo negativi?”

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Non era chiaro di cosa si sarebbe occupata la nuova struttura, rischiava di diventare il catalizzatore di lamentele e di critiche ma portava con sé anche aspettative di grandi cambiamenti nel ruolo della pubblica amministrazione.

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Nella pubblica amministrazione quando un'idea buona diventa obbligatoria, e quindi deve per forza tradursi in una struttura definita minuziosamente fin nel più piccolo Comune, è molto facile che finisca col tramutarsi in un mero adempimento formale.

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Non era importante se il rapporto con i cittadini era migliorato, se l’accesso agli atti era diventato più semplice, se la partecipazione era aumentata, ciò che contava era l’esistenza dell’ufficio

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Il rapporto diretto con i cittadini è sia la croce che la delizia del lavoro comunale. Da un lato è ciò che dà più direttamente il senso e il valore dell’attività che svolgi, dall’altro sei esposto direttamente a qualunque richiesta e critica.

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Purtroppo aveva chiaro come sarebbe finita: da parte di chi lavorava nell’ente pubblico ci sarebbe stato un dignitoso silenzio, o, proprio se inevitabile, il soggetto avrebbe ammesso di essere un dipendente dell’ente locale

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Tutte queste cose erano necessarie ma non erano sufficienti per raggiungere l’obiettivo vero: migliorare le relazioni dei cittadini con il Comune. Si trattava di organizzare qualcosa per generare relazioni, prossimità e fiducia tra soggetti, pubblica amministrazione e popolazione, che in realtà non si conoscevano nella loro essenza e che diffidavano l’una dell’altra.

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Sapeva che dietro ogni servizio c’erano le persone del Comune, bisognava renderle riconoscibili e orgogliose del loro lavoro

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Pensava di avere un’idea di quante fossero le attività nel suo Comune ma, quando mise in fila tutte le idee progettate e portate in piazza in quei giorni, si rese conto che persino lui non aveva la consapevolezza dell’esatta dimensione.

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Dichiarò con fierezza di operare in quella pubblica amministrazione, ma non precisò di lavorare nel settore Edilizia. Prima di congedarsi aggiunse solamente: “Io lavoro per il Comune, per il bene comune”.

Rossana

Se l’orientamento al risultato, l’abitudine alla collaborazione tra diversi, l’assunzione di responsabilità, la valorizzazione della capacità di iniziativa, il ruolo di leadership del Comune nel territorio, sono dimensioni già coltivate e condivise, la capacità di risposta è molto migliore.

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Era la direttrice dei servizi cimiteriali del Comune: un ruolo di responsabilità esercitato in un settore ritenuto ordinario, routinario, poco visibile e scarsamente attrattivo. Eppure lei lo svolgeva con scrupolo e attenzione

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Negli ultimi anni era stata particolarmente impegnata nella concessione per la costruzione e gestione del forno crematorio. La scelta di incenerire le salme, invece che seppellirle, era andata diffondendosi ed era importante dotarsi di questa struttura per permettere ai cittadini di non dover andare lontano dal loro luogo di residenza per ottenere quanto richiedevano. Aveva cercato con impegno le soluzioni più all’avanguardia in Italia e all’estero.

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Tutto proseguì così fino a quando arrivò in città la nuova malattia enormemente contagiosa e grave: un virus sconosciuto e incurabile. Giunse all’improvviso mentre stava per finire l’inverno e in quella città colpì duramente, più che in ogni altro territorio del Paese.

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Nelle due settimane successive all’esplosione della pandemia il numero dei morti fu di 10 volte quello ordinario. Un valore mai raggiunto in precedenza, nemmeno durante la prima o la seconda guerra mondiale.

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Rossana doveva trovare delle soluzioni e agire velocemente. Il problema più immediato era recuperare degli spazi dove stipare le bare in attesa di cremazione che arrivavano dagli ospedali, dalle case di riposo e dalle abitazioni private.

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Tutti gli altri ipotizzavano rischi incredibili, ricorsi, paventavano mirabolanti danni erariali. Poi invece l’appalto andò bene, parteciparono diverse società qualificate, non ci furono ricorsi e ormai da anni la concessione era in vigore senza presentare problemi di gestione.

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In questo contesto intervenire d’autorità, contravvenendo la volontà del defunto di essere cremato, sarebbe stata una vera e propria violenza nei confronti del morto e dei loro cari.

Rossana era determinata a non usare quella che definiva «l’arma finale». Non le erano mai piaciute la guerra e il suo linguaggio che così spesso caratterizza il nostro modo di esprimerci quando siamo in emergenza.

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Ognuno diede il massimo: il Comune, i Carabinieri, la Prefettura, l’Esercito, l’Azienda sanitaria agirono in stretta connessione, senza stare troppo a chiedersi in quale ruolo stava agendo. Ciascuno avrebbe potuto esentarsi dal collaborare. Sarebbe bastato attenersi al criterio prudenziale per cui si deve fare solo ciò che la legge impone di fare. In ogni caso bisognava muoversi di concerto, con rapide intese e pronte risposte. In questo frangente Rossana finiva con l’affermare spontaneamente la propria leadership.

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Quando i primi feretri lasciarono la città con una colonna di camion militari, fu uno spettacolo terribile che nei giorni successivi fece il giro del mondo. Rossana, pur pienamente coinvolta in quel clima di sofferenza, sapeva di avere agito per il bene dei cittadini e per aiutarli ad attraversare quel momento tragico.

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Dopo altri 15 giorni finalmente il numero di decessi cominciava a calare. I decessi erano diventati «solo» 3 volte più dell’ordinario, non più 10 volte l’ordinario. Con fatica la città cominciava a sperare nel Rinascimento che sarebbe venuto.

Pietro

Non aveva però perso di vista il concetto che ogni azione della pubblica amministrazione ha sempre come obiettivo finale il cittadino: lo sviluppo del bene comune. Erano le regole che dovevano adattarsi alla realtà e alle esigenze delle persone e non viceversa.

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Desiderava favorire questo cambiamento e per farlo avrebbe dovuto assumere maggiori responsabilità.

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Dopo 5 anni di lavoro nel ruolo di responsabile dei servizi sociali, desiderava fare ancora qualcosa di più. Era come se in quel Comune avesse dato ciò che poteva dare. I servizi erano stati rinnovati, le persone a lui affidate erano cresciute, la sua responsabile dava segni di stanchezza di fronte alla continua proposta di cambiamenti e innovazioni.

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Cambiava il luogo, il contesto, le regole, ma lo stile era identico: cercare una situazione che avesse ampi margini di miglioramento, come oggi si usa dire, entrarci, assumerne la responsabilità, innovare, motivare, sbagliare, valorizzare, riprovare e poi, quando la situazione raggiungeva livelli qualitativi ottimi, lasciarla per cercare nuove avventure.

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La sindaca era determinata a far rinascere quel territorio. Ad occhi esterni quel luogo poteva apparire come un agglomerato di casermoni e centri commerciali senz’anima, ma lei ci vedeva molto di più.

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Alfredo e Tania erano ottimi consulenti e conoscevano il loro lavoro. Avevano capito che per cambiare davvero una organizzazione, non bastano regole, documenti, digitalizzazione. Per innovare realmente serve che le persone ci credano e ci provino!

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Quando lo incontrò gli disse: “La sindaca mi ha chiesto di diventare direttore generale, ho un gran desiderio di accettare, ma lo farò solamente se tu sei d’accordo.” Pietro che aveva venti anni più di lui e dieci anni in più di esperienza dirigenziale, lo guardò in silenzio per un breve tempo, che a Lorenzo parve non finire mai, poi si espresse così: “Questa è un'occasione straordinaria, non devi lasciarla scappare. Accettala.”