In questa pagina trovate una grammatica del leuto semplice e pragmatica. Questa grammatica è pensata primariamente per i lettori italofoni: non cerca quindi di descrivere il leuto «in sé e per sé», ma per somiglianze e differenze coll'italiano.
Vediamo qui i meccanismi generali del leuto, per facilitare la comprensione di quanto verrà spiegato in seguito nei dettagli.
Il leuto è caratterizzato da una serie di desinenze regolari (-a, -o, -um, -as, -in…). La gran parte delle parole termina con una di queste. La desinenza indica in modo preciso i caratteri grammaticali della parola: se è un sostantivo, aggettivo, verbo, avverbio, se è singolare o plurale, il tempo verbale, eccetera; se una parola non termina con una desinenza riconoscibile vuol dire che è un’interiezione, congiunzione, preposizione o simile “particella” linguistica. Le eccezioni sono pochissime.
Queste desinenze si uniscono a elementi lessicali invariabili, chiamati «radici», per formare le parole complete. A parte le particelle suddette (preposizioni, congiunzioni, ecc.), e certi casi specifici, le radici non possono essere usate come entità indipendenti, ma devono essere parte di una parola che termina con una desinenza. Ogni radice ha in sé almeno una vocale e può essere legata liberamente a qualsiasi desinenza, che ne definisce il significato. Per esempio, dalla radice hum/, che indica qualcosa di ‘umano’, possiamo avere:
humo hum/o umano (aggettivo)
huma hum/a essere umano (sostantivo)
hume hum/e umanamente
humu hum/u nell’uomo, presso l’uomo
eccetera. In una stessa parola possono essere unite più radici, per formare una parola composta, un processo frequente in leuto:
humego hum/eg/o umanissimo
humitha hum/ith/a umanità (qualità di ciò che è umano)
humaya hum/ay/a umanità (collettività degli uomini)
nohumo no/hum/o non umano
humesci hum/esc/i diventare umano
humaylo hum/ayl/o tendente all'uomo, all'umano
humescaylo hum/esc/ayl/o tendente a diventare umano
eccetera. Le possibilità compositive sono teoricamente infinite, e nella stessa parola non c’è un limite formale al numero di elementi che possono essere composti insieme. Nella pratica, tuttavia, naturalmente parole arbitrariamente lunghe sono ingestibili, e quindi ci si mantiene entro una dimensione ragionevole.
Le desinenze grammaticali stesse possono funzionare come radici, se necessario, ed essere usate come elementi compositivi all’interno di una parola. Grazie a questo, al gran numero di elementi e alla libertà compositiva, il leuto è una lingua che consente di esprimere in modo facile e sintetico sfumature precise.
Il leuto si scrive con 26 lettere, le stesse dell'alfabeto italiano più le «lettere straniere» principali a noi note (j, k, w, x, y); eccole tutte in forma minuscola e in ordine alfabetico:
a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z
Alcune delle lettere possono essere usate in combinazioni che rappresentano suoni specifici (le vediamo poco sotto). Fuori da queste combinazioni, le lettere a, b, d, f, l, m, n, p, q, r, t, v si pronunciano come in italiano, mentre le altre si pronunciano nel modo seguente.
c come z in marzo.
e sempre con un timbro mediano, a metà strada fra la é chiusa di céna e la è aperta di mèzzo.
g come g in gallo.
h debolmente aspirata come h nella parola tedesca haben o nella parola inglese house.
i sempre “vocalica”, cioè ben distinta dalla vocale seguente, se è seguita da una vocale accentata; come la i in rione (ri-ó-ne) e Riace (Ri-à-ce).
j come j in francese, portoghese e rumeno, cioè pressappoco sg(i).
k come c in caldo.
o sempre con un timbro mediano, a metà strada fra la ó chiusa di pózza e la ò aperta di còlla.
s come s in orso.
u a parte nella sequenza qu (vedi sotto), si pronuncia sempre “vocalica”, cioè ben distinta dalla vocale seguente, se è seguita da una vocale accentata; come la u in manuale (ma-nu-à-le) e duello (du-èl-lo).
w è il suo equivalente "consonantico" o "semivocalico": se precede una vocale, si pronuncia insieme alla vocale seguente, come la u di quale (quà-le) e tuono (tuò-no); se precede una consonante si pronuncia insieme alla vocale precedente, come la u di causa (càu-sa) e feudo (fèu-do).
x si pronuncia sempre ks; vedi sotto per più informazioni.
y è l'equivalente "consonantico" o "semivocalico" di i: se precede una vocale, si pronuncia insieme alla vocale seguente, come la i di chiaro (chià-ro) e fiero (fiè-ro); se precede una consonante si pronuncia insieme alla vocale precedente, come la i di zaino (zài-no) e stoico (stòi-co).
z come la s “dolce” di risma.
In leuto la q, come in italiano, si pronuncia come una c dura (come k in leuto) ed è sempre seguita da una u, che ha sempre valore consonantico, anche davanti a un'altra u; quindi, per esempio, aquu si pronuncia come se fosse akwu.
Con qu si scrive la sequenza di suoni kw quando si presenta all'interno di radice. Quando invece, in composizione, s'incontrano una k alla fine d'una radice e una w all'inizio d'un'altra, la sequenza risultante si scrive kw e non si "trasforma" in qu.
sequoya sequoy/a sequoia
unkwandu unk/wand/u in qualsiasi momento
Il gruppo grafico kw, di conseguenza, è un marcatore di composizione: se c'è una parola con -kw-, sappiamo che lì si spezzerà in -k/w-.
Se in una radice si vuole rappresentare doppio il suono della prima consonante di qu, si scriverà kqu (simile ad acqua in italiano). La sequenza *qqu non esiste in leuto.
La x si pronuncia ks. Similmente al gruppo qu appena visto, con x si scrive la sequenza di suoni ks quando si presenta all'interno di radice. Quando invece, in composizione, s'incontrano una k alla fine d'una radice e una s all'inizio d'un'altra, la sequenza risultante si scrive ks e non si "trasforma" in x.
existi exist/i esistere
deksepo dek/sep/o diciassette
Come kw, anche il gruppo grafico ks è un marcatore di composizione: se in una parola c'è -ks-, sappiamo che lì si spezzerà in -k/s-.
Il leuto usa alcune combinazione di lettere per rappresentare suoni che non sono rappresentati da lettere singole. Le combinazioni, con relativa pronuncia, sono le seguenti.
ch un’aspirazione forte, come ch nel tedesco Bach.
cx come c in celeste.
gx come g in gelo.
sc come sc in scendere.
th simile a una t, ma con la lingua spostata più giù e avanti, con la punta appoggiata ai denti incisivi o quasi; come th nell’inglese think, o la z nella pronuncia dello spagnolo di Spagna.
Se i suoni di ch e th risultano difficili, il principiante italofono li può approssimare con k e t; e quindi pronunciare, per esempio, chora 'coro' come fosse kora, mitha 'mito' come fosse mita. Si veda il paragrafo sulle pronunce succedanee.
Se bisogna rappresentare questi suoni raddoppiati, si scrive doppia la prima lettera del gruppo se la sequenza si trova all'interno d'una radice (es.: per ch, quindi, cch); si scrive doppia invece l'intera combinazione se i suoni sono l'ultimo e il primo di radici che s'incontrano in composizione (per ch, quindi, chch).
scacchas | scacch/as | scacchi
monachchora | monach/chor/a | coro di monaci
Per rappresentare i suoni delle singole lettere isolate anziché la combinazione risultante (sia in composizione, sia all'interno d'una radice), si scrive una dieresi (due puntini) sulla lettera dopo la quale bisogna "staccare". Per esempio, si scrive c̈h per rappresentare c-h (AFI: /ʦh/); si scrive c̈ch per rappresentare c-ch (AFI: /ʦx/).
Nella scrittura a macchina, se ci fossero difficoltà nell'uso della dieresi, nell'uso non formale si può sostituire con i due punti (c:h).
In caso di sovrapposizione di combinazioni quella che ha la precedenza è l'ultima. Per esempio, in schisma 'scisma' abbiamo che la -c- appartiene sia a sc- sia a -ch-: la seconda ha la precedenza, e quindi schisma si leggerà s-chisma (AFI: /sxi̍sma/), e non *sc-hisma (AFI: /ʃhi̍sma/). Se ci fosse un'ipotetica parola che si pronuncia sc-hisma, la scriveremmo sc̈hisma (informalmente sc:hisma).
A parte le combinazioni appena viste, in leuto non ne esistono altre da leggersi in modo particolare. Altri gruppi di lettere, che ricordino le combinazioni che si trovano in italiano, latino o altre lingue (gn, gli, ph, sh, ecc.), sono sempre da leggersi lettera per lettera.
In leuto (come in italiano) alcune consonanti sono «affricate», cioè in un certo senso (senza approfondire tecnicamente) possono essere scomposte in subelementi, che sono consonanti a loro volta. Nella pronuncia normale, questi subelementi non si distinguono, sono tanto compenetrati da formare di fatto una consonante unica.
Le consonanti che costituiscono i «subelementi» delle affricate possono però presentarsi in sequenza indipendentemente, perlopiù all'incontro fra radici in composizione. In tal caso, i suoni potranno un po' confondersi nel parlato veloce; ma in un parlato chiaro e curato restano ben distinti, non si fondono in un'affricata. Usando il simbolismo dell'AFI:
c (/ʦ/) ≠ ts (/t/ + /s/ in sequenza);
cx (/ʧ/) ≠ tsc (/t/ + /ʃ/ in sequenza);
gx (/ʤ/) ≠ dj (/d/ + /ʒ/ in sequenza).
Si faccia per esempio un confronto con l'italiano, provando a pronunciare bàcio contro un'ipotetica parola bàt-scio. Dovrebbe sentirsi bene la differenza; anche nel fatto che la prima parola al centro ha una sola consonante, /CV̍CV/, mentre la seconda ne ha due: /CV̍CCV/.
Similmente, quando si presenta (di nuovo, perlopiù in composizione) un'affricata preceduta dalla consonante che costituisce il suo primo subelemento, o seguita da quella che costituice il secondo subelemento, i suoni si distinguono e non equivalgono all'affricata pronunciata doppia:
tc (/tʦ/) ≠ cc (/ʦʦ/) ≠ cs (/ʦs/);
tcx (/tʧ/) ≠ ccx o cxcx (/ʧʧ/) ≠ cxsc (/ʧʃ/);
dgx (/dʤ/) ≠ ggx o gxgx (/ʤʤ/) ≠ gxj (/ʤʒ/).
Si tratta, comunque, di sequenze infrequenti.
In leuto si usa talvolta l'apostrofo in fine di parola, in casi particolari. L'apostrofo è muto, non rappresenta nessun suono. Lo vediamo più avanti, nella sezione dei sostantivi.
In leuto, se in una parola ci sono due o più vocali, l'accento cade sempre sulla penultima vocale.
Per individuare la posizione dell'accento, le lettere y e w e la u di qu non si considerano mai "vocali".
fayra fuoco
theissa dea
loqui parlare
ulter oltre
kitaw noi (inclusivo) qq
awdi udire
Se la parola termina con un apostrofo, per individuare l'accento l'apostrofo si conta come se fosse una vocale (anche se in realtà non rappresenta nessun suono):
drakon' drago (con troncamento)
skribeyr'qq scrittore (con troncamento)
theiss' dea (con troncamento)
Molte parole leute sono esteriormente simili ai termini corrispondenti italiani e latini, ma si noti che spesso l'accentazione è diversa:
spontaneo spontaneo
asteroida asteroide
muskula muscolo
sceycha sceicco
sekun secondo (l'opinione di)
aera aria (lat. aër aëris)
In una frase completa, pronunciata con tono normale, in leuto l'accento complessivo cade sempre sull'ultimo elemento. Ciò è uguale a come avviene in italiano.
Bisogna tuttavia fare attenzione a un possibile errore, nel caso delle frasi che terminano con un pronome. In italiano, un pronome in posizione finale è spesso un clitico, ovvero una particella "debole", senz'accento proprio, che viene "inglobata" nel verbo precedente: Vado a prenderlo; Guardala; Ti prego, ascoltami. L'accento finale in questi casi è quello del verbo: prènderlo come prèndere (non *prenderlò), guàrdala come guàrda (non *guardalà), eccetera. In leuto ciò non succede, e i pronomi in posizione finale sono sempre "forti", cioè pienamente accentati: l'accento di frase non si ritrae sulla forma verbale che li precede. Un italofono dunque dovrà stare attento a non ritrarre l'accento imitando troppo da vicino il ritmo dell'italiano.
Vediamo per esempio la frase seguente, dove to è il pronome complemento oggetto che traduciamo con -lo:
Skribes to.
Scrivilo.
La frase si pronuncia complessivamente pressappoco skribestò, e non skrìbesto, come potrebbe venire spontaneo a un italofono imitando l'accentazione di scrìvilo. Altri due esempi:
Me volet keni le. [pron. ...kenilè]
Vorrei conoscerla.
Seques me. [pron. sequesmè]
Seguimi.
Per renderselo più naturale, un italiano può pensare ad accentare queste frasi in modo simile a come sarebbero in italiano con pronomi marcati:
Me volet keni le.
Vorrei conoscere lei.
Seques me.
Segui me.
...Anche se, traducendo dal leuto all'italiano, non è detto che il pronome debba essere reso così marcato, e anzi solitamente non lo sarà.
Se, parlando in leuto, si vuole mettere l'accento sul verbo anziché sul pronome complemento oggetto, in modo simile alle costruzioni italiane con clitico, questo si può fare, spostando il complemento oggetto prima del soggetto. Se il soggetto era implicito (come per un imperativo rivolto alla seconda persona) andrà reso esplicito.
Skribes to. ≈ To tu skribes.
Scrivilo. [Letteralmente «Esso tu scrivi».]
Me volet keni le. ≈ Le me volet keni.
Vorrei conoscerla. [Lett. «Lei io vorrei conoscere.]
Seques me. ≈ Me tu seques.
Seguimi. [Lett. «Me tu segui».]
Ne parleremo nella sezione sulla sintassi della frase.
Due vocali uguali in sequenza (aa, ee, ii...) sono possibili e perfettamente regolari, in qualsiasi posizione. Si pronunciano pressappoco come in italiano, con due suoni distinti. Pensiamo a capii, lineetta, portaaghi, microonde, sciistico...
Prima dell'accento, o se l'accento cade sulla prima delle due, le due vocali saranno pronunciate normalmente come un dittongo:
taa ciò
heroo eroico
koordinata coordinata
Quando invece l'accento cade sulla seconda delle due vocali, si ha un iato, uno stacco sillabico ben marcato:
kuuya [pron. ku-ùya]
chi...? (nelle domande)
koreesa [pron. kore-èsa]
coreano (lingua)
Isaaka [pron. isa-àka]
Isacco
Come abbiamo detto sopra, fa eccezione la u che segue una q, per cui quu si pronuncia kwu, non kuu.
In generale, in leuto la composizione non si segnala graficamente. Per esempio, la parola humaya 'umanità' si compone di tre elementi, hum/ay/a, ma normalmente si scrive tutt'attaccata, appunto humaya.
Il trattino («-») può essere usato facoltativamente per segnalare l'incontro fra radici; in alcuni casi è obbligatorio.
[qq valutare invece un diacritico?]
Il trattino si scrive sempre quando si verificano insieme queste due condizioni:
la parola non termina con una desinenza;
la radice terminale della parola ha una sola vocale.
In questo caso, il trattino si scrive prima dell'ultima radice.
Si tratta di una circostanza poco comune qq
Per esempio:
Be loa newmexikanas li qq new-mexikanas awt nexmexik-anas?
Be loa newmexikanas me qq newmexik-anas, noe new-mexikanas. | Con neomessicani intendevo gli abitanti del Nuovo Messico, non i nuovi abitanti del Messico.
qq | eroico
All’effetto esteriore, in leuto l’uso delle maiuscole è generalmente simile a quello italiano.
La maiuscola non è un elemento intrinseco della radice. Ogni radice leuta, a seconda del contesto, può prendere la maiuscola o la minuscola.
La maiuscola si usa per i nomi propri quando siano sostantivi (in qualunque caso grammaticale):
Perua, Bolivya, Gwatemala | Perù, Bolivia, Guatemala
Eventuali elementi a carico (per esempio un aggettivo) possono prendere la maiuscola, ma sempre quando il nome proprio nel complesso è un sostantivo (una locuzione sostantivale, più propriamente):
Ewropo Unyona | l'Unione europea
Katholiko Ekklesya | la Chiesa cattolica
Romo Imperya | l'Impero romano
Se la radice che noi italofoni identifichiamo come «nome proprio» è invece usata in una parola che non è un sostantivo, o fa parte d’un altro sostantivo che non è a sua volta un nome proprio, si usa la minuscola.
parisy/a | Parisya | Parigi
parisy/o | parisyo | parigino (agg.)
parisy/an/as | parisyanas | i parigini
aristotel/a | Aristotela | Aristotele
aristotel/e | aristotele | aristotelicamente
aristotel/ism/a | aristotelisma | l'aristotelismo
E lo stesso avviene, componendo, quando il nome proprio è formato da più parole:
rom/o impery/a | Romo Imperya | l'Impero romano
rom/impery/o | romimperyo | dell'Impero romano, romano-imperiale
[qq Qua quella roba difficile]
Sono possibili maiuscole reverenziali, o per enfasi, in più rispetto all'uso normale. Andrebbero tuttavia usate con moderazione e riservate a contesti particolari.
Nel registro normale, si scrivono colla minuscola:
i nomi di popoli (es.: italas, grekas, peruanas);
i nomi di lingue (cxinesa, sanskrita, lewtha);
i giorni della settimana (lunda, marda, merkurda);
i nomi dei mesi, del calendario europeo o altri (aprila, septembra, ramadana);
cariche e titoli, sia isolati (saya ‘signore, signora’, regxa ‘re, regina’, papa ‘papa’, doktora ‘dottore, dottoressa’, sama ‘santo, santa’) sia premessi a un nome (saya Rossi, regxa Elisabetha, papa Benedikta, doktora Zamenhofa, sama Franciska);
i nomi d’elementi e materiali (plumba, ferra, marmora);
i nomi di scienze e arti (kosmologeya, architekteya, obsideyka);
i nomi d’ideologie, teorie, religioni, dottrine (marxisma, islama, christenisma).
Nel registro normale, si scrivono colla maiuscola:
i nomi propri di persona (Awgusta, Antonya), gli pseudonimi (Voltera, Palladya), i titoli ed epiteti che nell’uso normale non sono più istintivamente riconosciuti come tali e quindi diventano di fatto nomi propri (Christa, Budda);
i toponimi (Lisbona, Ewropa, Arabiya, Balearas);
i nomi di dinastie e famiglie (Burbonas, Medicas, Habsburgas);
i nomi propri d'istituzioni (Ewropo Centro Banka, Katholiko Ekklesya);
i nomi di libri sacri, quando siano intesi in astratto, il testo in generale (Biblya, Kurana), ma non quando si parla di singoli esemplari fisici (o biblyas, o kurana);
le festività (qq, Pascha).
Ci sono inevitabilmente casi dubbi o di confine, sui quali è difficile (e a volte controproducente) cercare di dare regole troppo rigide. Per quelli, lasciamo che sia lo scrivente a valutare che cos’è meglio secondo le circostanze del caso: cercando di seguire lo stile generale della lingua, che è piuttosto “minuscolista” ed evita quindi di usare maiuscole troppo abbondanti.
Per i titoli di opere d’arte, scritti normalmente in corsivo o fra virgolette, si mette maiuscola la lettera iniziale e poi, all’interno del titolo, si applicano le normali regole del resto della lingua:
Me qq loa Gwerra de dunyas.
Ho appena finito di leggere La guerra dei mondi.
Me mue sukin loa Ayma tempus de cholera.
Mi è piaciuto molto L'amore ai tempi del colera.
(Per il trattamento grammaticale dei titoli di libri ed espressioni simili, vedi [qq]).
I nomi delle lettere sono regolarmente variabili e declinabili, come le altre parole della lingua, secondo le regole che vedremo successivamente.
qq | qq
qq | mettere i puntini sulle i
EUa [pron. eùa] | E/U/a | l'UE
EUu [pron. eùu] | E/U/u | nell'UE
noAIdao | no/A/I/da/o | non fatto da IA
qq metti esempi anche con lettere consonanti
radara, lasera, kovida
qq rimanda alla sezione apposita nella pagina delle radici nuove
La punteggiatura del leuto è generalmente simile a quella italiana.
Come virgolette per riportare discorsi diretti e citazioni, sono preferibili le virgolette basse doppie («_»); e le virgolette basse singole (‹_›) per citazioni entro citazioni, discorsi diretti entro discorsi diretti. Le virgolette alte doppie ("_") si possono usare per indicare parole pronunciate con riserva, o in modo allusivo, o con tono o significato altrimenti particolari; ma anche per quest'uso possono andar bene le virgolette basse, se non c'è particolare bisogno di distinguere dalle citazioni vere e proprie.
Naturalmente si possono codificare usi specifici delle virgolette per àmbiti particolari, che richiedano elementi o valori specifici oltre l'uso generale della lingua. Per esempio, in un testo di linguistica sarebbe del tutto acconcio l'uso delle virgolette alte singole ('_') per indicare i significati e delle parentesi angolate (⟨_⟩) per indicare i grafemi.
Viste le sue ramificazioni piuttosto ampie, che escono dall'àmbito stretto dell'ortografia, trattiamo questo tema più avanti.
Qui ci limitiamo ad anticipare che i termini stranieri in generale si scrivono in corsivo (o, in mancanza del corsivo, fra virgolette), mentre i nomi propri stranieri in tondo; ma in un registro sostenuto, in uno scritto formale, anche i nomi propri stranieri si possono scrivere in corsivo.
Questo paragrafo e il seguente usano simboli dell'AFI, l'alfabeto fonetico internazionale, per il quale rimandiamo alla nostra legenda.
Dato che le lingue del mondo hanno tutte inventari fonetici e fonematici diversi, è naturalmente possibile che alcuni suoni del leuto (come di qualsiasi lingua straniera) risultino all’inizio difficili da pronunciare, essendo estranei alla propria lingua materna e alle altre lingue che si parlano. In queste situazioni, una persona tende naturalmente ad approssimare il suono estraneo con il suono noto che all’orecchio le sembra più vicino. Istintivamente sono possibili più soluzioni, se ci sono più suoni noti che appaiono vicini al suono estraneo: per esempio, a un italiano potrebbe venire spontaneo approssimare il suono /θ/ (rappresentato da th in leuto) con /t/ ma anche con /f/; /x/ (scritto ch in leuto) con /k/ ma anche con /h/; eccetera. Per evitare che ci sia una dispersione di varianti che renderebbe più difficile la comprensione, conviene che tutti quelli che hanno una certa difficoltà facciano la stessa approssimazione, in modo da avere una coerenza prevedibile che permetta d’identificare più facilmente il suono originario che s'intenderebbe pronunciare.
Naturalmente queste semplificazioni sono da intendersi come soluzioni provvisorie, o per chi parla solo occasionalmente: dato che introducono confusioni e ambiguità, da chi parla il leuto con una certa frequenza ci si aspetta un po' d'impegno per apprendere la pronuncia corretta.
Diamo di seguito le approssimazioni da preferire, in ordine di preferenza. Per gl'italofoni, solo pochi suoni sono problematici.
c : il suo suono si può approssimare con quello di s; meno bene con quello di cx; ancora meno bene con quello di z.
ch : il suo suono si può approssimare con quello di k; meno bene con quello di h.
cx : il suo suono si può approssimare con quello di c; meno bene con quello di gx.
e : il suo suono si può approssimare con un'è aperta o con un'é chiusa (i due suoni di e in italiano).
gx : il suo suono si può approssimare con quello di j; meno bene con quello di cx.
h : il suo suono si può approssimare con quello di kx; meno bene con "nulla" (il suono di h sparisce del tutto).
j : il suo suono si può approssimare con quello di gx; meno bene con quello di sc.
o : il suo suono si può approssimare con un'ò aperta o con un'ó chiusa (i due suoni di o in italiano).
s : il suo suono si può approssimare con quello di sc.
sc : il suo suono si può approssimare con quello di s; meno bene con quello di j.
th : il suo suono si può approssimare con quello di t; meno bene con quello di f.
v : il suo suono si può approssimare con quello di w.
w : il suo suono si può approssimare con quello di u (senza spostare l'accento: per es., statwa come stàtu-a, non statùa); meno bene con quello di v.
y : il suo suono si può approssimare con quello di i (senza spostare l'accento: per es., Asya come Àsi-a, non Asìa).
Le consonanti doppie si possono approssimare con consonanti scempie: per esempio suppa si può pronunciare come se fosse supa, tallo come se fosse talo.
Consulta la sottopagina dedicata.
Vedi il paragrafo più avanti. qq
qq simboli diversi per l'andare a capo e il trattino normale (o fare come il webster? non malaccio) o lasciare libertà al tipografo, purché univoco
https://en.wikipedia.org/wiki/Double_hyphen
O trattino a fine riga e inizio
Se possibile, dividere al confine di radice; ma se finisce con una desinenza lasciarla unita all'elemento precedente
noexistento
no᐀ existento
noexist᐀ ento
ma non noexistent᐀ o
come dividere radici lunghe
Nell'andare a capo, i digrammi e trigrammi non vanno spezzati
In leuto l’articolo indeterminativo è o. È invariabile: corrisponde da solo agli articoli italiani un, uno, una, dei, degli, delle.
o mulya una donna
o libras dei libri
o kanas dei cani
o urba una città
In leuto non esiste l’articolo determinativo. Se un sostantivo non è preceduto dall’articolo indeterminativo o, si considera determinato.
mulya la donna
libras i libri
kanas i cani
urba la città
Coerentemente, i nomi propri non hanno l’articolo e sono determinati:
Cxina la Cina
Ewropa l’Europa
Luka Luca
Roma Roma
In leuto, quando si cita un concetto "in generale", si considera "determinato", e quindi non si usa l'articolo:
Chrisa es o metalla.
L'oro è un metallo.
Meylitha salvon munda.
La bellezza salverà il mondo.
O gruppa ek rakittas.
Un gruppo di ragazzini. [Come se «i ragazzini» (concetto generale) fossero un materiale, di cui è composto il gruppo.]
Mentre in leuto abbiamo solo due possibilità per quanto riguarda l'articolo (indeterminazione con l'articolo, determinazione senza), in italiano ne abbiamo tre: l’articolo determinativo (l’opera, le persone), l’articolo indeterminativo (un’opera, delle persone) o nessun articolo (è ∅ opera del nemico; sono ∅ brave persone).
Quando in italiano abbiamo l’articolo determinativo o indeterminativo, la traduzione in leuto è spesso diretta: si mantiene la determinazione o indeterminazione. Invece, quando in italiano non usiamo l’articolo, dobbiamo capire se il concetto che intendiamo ricade meglio nella categoria dell’indeterminazione o della determinazione.
Una buona strategia è fare un confronto pratico fra le due possibilità. Per esempio, prendiamo la frase L’acqua è ∅ vita. Traducendo in modo letterale, in leuto abbiamo due possibilità:
Aqua es viva.
L’acqua è la vita.
Aqua es o viva.
L’acqua è una vita.
Vogliamo dire che l’acqua è una vita, una certa vita, una qualche vita, una vita indeterminata fra tante? No: vogliamo dire che l’acqua è (cioè dà, crea, nutre, serve, determina) la vita in generale: ovvero un concetto che in leuto ricade nella categoria del “determinato” (come dopotutto l’acqua stessa in questa frase). Quindi L’acqua è vita ≈ Aqua es viva.
Prendiamo invece la frase Sono successe ∅ cose strane. Di nuovo, confrontiamo le due possibilità:
Evenin stranyo sceyas.
Sono successe le cose strane.
Evenin o stranyo sceyas.
Sono successe delle cose strane.
Qui è semplice: non intendiamo qualcosa di precisamente determinato, né il concetto delle «cose strane» in generale, ma alcune cose fra le tante strane: quindi Sono successe cose strane ≈ Evenin o stranyo sceyas.
In qualche caso è possibile che entrambe le possibilità traduttive abbiano senso, e decideremo in base al contesto o alle sfumature che vogliamo trasmettere.
Di séguito alcuni esempi, che si possono analizzare in modo simile:
Varas e mulyas differen.
∅ Uomini e ∅ donne sono diversi.
Me es el urba.
Sono in ∅ città.
Me habin o multo amikas.
Ho avuto ∅ molti amici.
Nos vidin o trio mulyas.
Vedevamo ∅ tre donne.
Quando un sostantivo (o una locuzione sostantivale) è usato con funzione vocativa, il vocativo si tratta come determinato, e quindi non prende l'articolo:
Civas, kia noe es o yasano wanda.
Cittadini, questo non è un momento facile.
Meo amika, es meylo ka tu es hiku.
Amico mio, è bello che tu sia qui.
qq assieme a un altro elemento, es. noi italiani qq
ma con la virgola noi, italiani, siamo
Per l'uso dell'articolo con:
i termini che corrispondono ai nostri qualche, tutti, nessuno e simili, clicca qui;
i numeri, clicca qui. qq
Gli aggettivi in leuto sono caratterizzati dalla desinenza -o unita alla radice della parola. Come l’articolo, e diversamente dai sostantivi, gli aggettivi in leuto sono del tutto invariabili: non distinguono né casi né numeri.
o meylo doma una bella casa
o meylo domas delle belle case
Nel passaggio da sostantivo ad aggettivo (e anche verbo, avverbio) e viceversa, le radici in leuto con cambiano mai. Non si hanno, quindi, fenomeni come pianeta ~ planetario o lato ~ laterale, molto comuni in italiano.
kana cane
kano canino
huma uomo
humo umano
L’aggettivo può sia seguire sia precedere il sostantivo a cui si riferisce. La posizione più consueta è immediatamente davanti:
Kana sequen rubo katta.
Il cane segue il gatto rosso.
Rubo kana sequen katta.
Il cane rosso segue il gatto.
Se però l'aggettivo regge un'espressione più ampia, si mette normalmente dopo:
o nigro petras
pietre nere
o petras nigro eb incendya
pietre nere per l'incendio
o bluo mara
un mare blu
o mara bluo kee sapfira
un mare blu come lo zaffiro
Trattiamo la posizione delle parole più ampiamente nella sezione apposita. [qq inserire collegamento]
Per il caso particolare di aggettivi legati a termini come qualcosa, alcunché, nulla, vedi il paragrafo dedicato. qq
Per le differenze strutturali fra le due lingue, il leuto tende a usare più frequentemente gli aggettivi, mentre l'italiano esprime gli stessi concetti più normalmente con dei complementi:
o studa pri savano plantas
uno studio sulle piante della savana
ewro inflacyona e dollaro uya
l'inflazione dell'euro e quella del dollaro
o vino aroma
un aroma di vino
Nel tradurre tra le due lingue bisogna tenere conto di questa differenza d'uso, senza cercare di forzare una lingua sul modello dell'altra.
Vedi il paragrafo sulla radice uy/.
Nel linguaggio colloquiale, si può rafforzare il significato d'un aggettivo semplicemente ripetendolo. Connotativamente, è un uso volutamente informale e linguisticamente elementare, quindi spesso apertamente un'imitazione del linguaggio infantile:
qq | Il gigante viveva in un castello grande grande.
qq | qq veloce veloce
o kanitta qq | un cagnolino piccolo piccolo
particolarmente quello infantile),
Lo stesso può avvenire per gli avverbi. [qq inserire collegamento]
Nella sua forma più "basilare", il sostantivo leuto è caratterizzato dalla desinenza -a che si unisce alla radice:
patra padre
luma luce
fayra fuoco
unda onda
viva vita
katta gatto
In leuto i sostantivi sono caratterizzati da 3 casi e 2 numeri. Le desinenze si costruiscono in modo regolare:
Nominativo
Singolare: -a; plurale: -as
Situativo
Singolare: -u; plurale: -us
Lativo
Singolare: -um; plurale: -ur
In leuto non esistono i generi grammaticali. Per la maggior parte le parole che indicano persone o animali non hanno un genere intrinseco, e nel concreto potrebbero indicare ugualmente un maschio o una femmina.
huma essere umano
raka ragazzo, ragazza
regxa regnante, re, regina
amika amico, amica
filya qq figlio, figlia
katta gatto, gatta
thea divinità, dio, dea
Se si vuole precisare il genere, dopo la radice s'inserisce ask/ per i maschi e iss/ per le femmine.
rakaska rak/ask/a ragazzo
rakissa rak/iss/a ragazza
regxaska regx/ask/a re
regxissa regx/iss/a regina
Di solito il genere si precisa con ask/ o iss/ solo se è rilevante per il discorso, e non è già chiaro dal contesto o da un’indicazione precedente. Per esempio, se sto presentando un amico di cui è già noto o evidente il genere maschile, dirò semplicemente che è un amika, non un amikaska, perché la precisazione è ridonante:
Li es o meo amika.
Lui è un mio amico.
Li es o meo amikaska.
Lui è un mio amico maschio.
Se invece parlo di un amico di cui non è già noto il genere, posso precisarlo, se voglio:
Hodyu venon o meo amika.
Oggi verrà un mio amico [di genere imprecisato].
Hodyu venon o meo amikaska.
Oggi verrà un mio amico [maschio].
Hodyu venon o meo amikissa.
Oggi verrà una mia amica [femmina].
Allo stesso modo, se bisogna parlare dei signori Rossi (sayas Rossi) —che potrebbero essere una coppia di coniugi nei paesi dove si usa prendere lo stesso cognome— o rivolgersi a uno dei due mentre sono presenti entrambi, si distingueranno come sayaska Rossi 'il signor Rossi' e sayissa Rossi 'la signora Rossi'; mentre per rivolgersi a ognuno dei due quando è da solo si dirà soltanto saya Rossi 'signor/signora Rossi'. Se invece i signori Rossi fossero, anziché un uomo e una donna, per esempio un gruppo di fratelli con più maschi o più femmine, l'uso di sayaska e sayissa potrebbe non bastare a capire a chi ci si rivolge, e si useranno soluzioni alternative, come l'uso di saya + nome e cognome.
Ci sono, naturalmente, anche parole che hanno già il concetto di mascolinità o femminilità incluso nel proprio significato. Per esempio:
matra madre
baba papà, babbo (informale)
mulya donna (femmina adulta)
sonna qq figlio maschio
Queste, chiaramente, normalmente si useranno senza ask/ o iss/. Dal punto di vista sintattico l'aggiunta è comunque del tutto lecita: può diventare sensata in contesti umoristici, o per esprimere significati strani.
Mettendo un sostantivo nel caso situativo si indica che tale sostantivo è:
il luogo spaziale,
o il momento temporale,
o una circostanza non strettamente spaziotemporale ma immaginata in modo analogo,
in cui o presso cui ci si trova o avviene l'azione.
Le terminazioni del situativo sono -u al singolare e -us al plurale.
Me vivin Venecyu.
Ho vissuto a Venezia.
Mayru tu kenon meo amikas.
Domani conoscerai i miei amici.
Theas loquen onirus.
Gli dèi parlano nei sogni.
Mettendo un sostantivo al lativo si indica invece che tale sostantivo è:
una destinazione spaziale,
o una destinazione temporale,
o una destinazione non strettamente spaziotemporale ma immaginata in modo analogo,
o anche il destinatario di un'azione, il complemento di termine (funzione dativa).
Le terminazioni del lativo sono -um al singolare e -ur al plurale.
Le vadin Pragum.
Andò a Praga.
Me davon to policyastur.
Lo darò ai poliziotti.
Me dirin to Markum. qq
L'ho detto a Marco. qq
Si confrontino, dopo, le costruzioni con la preposizione la.
Un sostantivo al situativo o al lativo può essere accompagnato da un articolo o da un aggettivo proprio come un sostantivo al nominativo:
Me es urbu.
Sono nella città.
Me es o urbu.
Sono in una città.
Me davin to o amikum.
L'ho dato ad un amico.
Me davin to o meo amikum.
L'ho dato ad un mio amico.
Li taen omno deyu.
Lo fa ogni giorno.
E può normalmente reggere altri elementi:
Me qqes kefurbu de Indonesya.
Sono nella capitale dell'Indonesia.
Obeliska skulpetin yannus de Kleopatra.
L'obelisco fu scolpito negli anni di Cleopatra. (qq qualcosa di più banale, tipo nella primavera dell'anno successivo...)
Me legxin taa o poemu da Danta. qq
L'ho letto in una poesia di Dante.
Sia il situativo sia il lativo indicano la circostanza in modo relativamente vago, impreciso. Aquu potrebbe significare 'dentro l'acqua', o 'sulla superficie dell'acqua'; o, più raramente secondo i casi, anche 'presso l'acqua', 'nella zona dell'acqua', non direttamente a contatto col liquido; dato che il situativo può avere anche valore temporale, potrebbe significare anche 'nel momento dell'acqua'. Il significato naturalmente potrà essere chiarito dal contesto.
Il leuto ha comunque modi semplici di esprimere queste indicazioni in modo preciso e diretto, se ce n'è bisogno: tramite preposizioni, similmente all'italiano.
Per dare indicazioni spaziali, temporali e simili, le preposizioni reggono normalmente il nominativo.
Me es sur aqua.
Sono sull'acqua. [Sulla superficie, a contatto]
Me es el aqua.
Sono in acqua.
Me es niar aqua.
Sono vicino all'acqua.
Per altre informazioni sulle preposizioni, vedi la sezione dedicata.
La terminazione -a del nominativo singolare (solo quella; non -as, -u, -um, ecc.) può essere fatta cadere completamente, non pronunciarsi. Ciò si rappresenta scrivendo un apostrofo alla fine della parola: per esempio, amik', che corrisponde ad amika. L'accento non si sposta, continua a cadere sulla stessa vocale: si pronuncia amìk come amìka.
Questo troncamento è tipico della poesia (di stile tradizionale, classico, oppure popolare) e delle canzoni, mentre in prosa un uso simile apparirebbe fortemente connotato, appunto come poetico, o più genericamente come letterario, anticheggiante o da proverbio.
Omnuya por se, por omnuyas The’.
Ognuno per sé e Dio per tutti.
qq Kulp' noe es meo / si planu lio / Thea krein dyabola tae plue qqforto kam o hum'!
Colpa non ho / se nel suo pian / Dio ha fatto il diavol tanto forte più d'un uom! [Traduzione d'una canzone per seguire la metrica dell'originale.]
Per potersi fare, la parola prodotta dal troncamento deve rispettare la fonotassi leuta.
Il troncamento andrebbe usato con parsimonia, perché, mentre nello scritto non cambia sostanzialmente nulla per la comprensione, nel parlato annacqua la precisione sintattica data dalle desinenze, che è una qualità preziosa del leuto.
In italiano e in altre lingue si possono avere «aggettivi sostantivati», ovvero parole che sono originariamente aggettivi ma che vengono usate a tutti gli effetti come sostantivi. Per esempio: Dio fa piovere ugualmente sui giusti e sugl'ingiusti; gli uomini preferiscono le bionde; gli ultimi saranno i primi.
In leuto, in certi casi un significato analogo è espresso semplicemente unendo la radice alle terminazioni dei sostantivi. In altri casi questo procedimento non funziona, perché la radice da sola indica un altro concetto, spesso in un senso più astratto, generale. Per esempio, abbiamo gli aggettivi
bono bon/o buono
malo mal/o cattivo
meylo meyl/o bello
ma come sostantivi abbiamo
bona bon/a il bene
mala mal/a il male
meyla meyl/a il bello (ciò che è bello)
In questi casi, se vogliamo indicare invece i 'buoni', i 'malvagi' e i 'belli', dobbiamo inserire la radice uy/.
bonuya bon/uy/a buono (persona buona)
maluya mal/uy/a malvagio (persona malvagia)
meyluya meyl/uy/a bello (persona bella)
Uy/ è un elemento d'uso frequente, e di significato vago. È una sorta di "segnaposto", che sta per una persona, un animale o in generale una "cosa" di qualsiasi tipo, che è individuata da una sua caratterizzazione, da un suo aspetto, dalla sua relazione con qualcos'altro: così un buono (bonuya) è una persona caratterizzata dal bene (bona), dall'essere buona (bono); un malvagio (maluya) è caratterizzato dal male (mala), dall'essere cattivo (malo); eccetera.
Sunaqq besen meyluyas. qq
Il sole bacia i belli.
qq Henrika VIII persekutin katholikas.
Enrico VIII perseguitò i cattolici. [qq katholikas forse meglio, come quakeras, katharas e altri. cambia esempio]
Per la sua vaghezza, il significato di uy/ nel concreto può oscillare, e naturalmente dipende molto dal contesto. Può formare regolarmente anche parole indipendenti (uya, uyas) e in tale forma ha un buon equivalente nell'italiano quello usato in funzione pronominale:
yalno floras e rubo uyas
i fiori gialli e quelli rossi [= i fiori gialli e i fiori rossi]
massa de protona e uya de newtrona
la massa del protone e quella del neutrone [= ...e la massa del neutrone]
O uya corrisponde spesso a uno:
Li es o uya astqq meo gruppa.
È uno del mio gruppo.
Me volet o yalno flora e o rubo uya.
Vorrei un fiore giallo e uno rosso.
Naturalmente, uy/ si può usare anche in parole che non sono sostantivi:
o tallo doma
una casa alta
o talluyo doma
una casa di [o da] persona alta
Uy/ si usa inoltre per le parole che corrispondono alle nostre nessuno, qualcuno, e simili: vedi sotto.
In una costruzione particolare, le desinenze sostantivali possono essere usate da sole, non legate a una radice. Ciò avviene solo per le desinenze dei sostantivi, e solo in quella situazione specifica. Ne parliamo più sotto. qq
Gli avverbi leuti sono caratterizzati dalla desinenza -e unita alla radice della parola. Gli avverbi rappresentano il 'modo', la 'maniera' in cui qualcosa avviene; sono simili agli avverbi italiani in -mente.
klare chiaramente
utile utilmente
cxine in modo cinese, "cinesemente"
kane caninamente
koyote alla maniera del coiote, dei coioti
Come sempre, però, anche dove ci sia un’alta simmetria generale fra le lingue la traduzione non dev’essere basata solo sulla forma della parola, bensì sul concetto che si esprime. In alcuni casi, i concetti che in italiano esprimiamo con parole in -mente rappresentano più una circostanza (spaziale, temporale, e simili) che un modo, e in leuto si esprimono allora meglio come sostantivi al situativo. Per esempio, raramente («Lo vedo solo raramente»; «Ci parliamo raramente») di solito non significa tanto ‘in [una] maniera [che è] rara’ (= in modo inconsueto, poco frequente, strano), bensì ‘in circostanze rare’: più che con rare (rar/e) si esprimerà allora meglio con [o] raru[s] (rar/u, rar/us). Simili recentemente, precedentemente, successivamente, eccetera.
Gli avverbi possono sia precedere sia seguire l'elemento a cui si riferiscono; rispetto agli aggettivi hanno più libertà, perché parecchi possono essere intesi come riferentisi a un'intera frase, e allora possono trovarsi in vari punti della frase senza grandi cambiamenti di significato. Per l'ordine delle parole, vedi la sezione dedicata. [qq inserire collegamento]
Come gli aggettivi, nel linguaggio informale anche gli avverbi possono essere raddoppiati, per aumentarne l'intensità:
qq mue mue qq
La situazione è molto molto interessante.
Ti sei comportato davvero davvero male.
Si può anche mettere una virgola in mezzo per rallentare, per avere un tono più sostenuto, meno informale, o creare un senso d'attesa e marcare ancora di più sul concetto:
qq mue, mue qq
La situazione è molto, molto grave.
In leuto ci sono vari modi per esprimere la negazione. Uno è l'uso di parole che significano ‘nessuno’, ‘nulla’, ‘in nessun modo’, e simili, che si creano dalla radice null/:
Nulla nascen is nulla.
Nulla nasce dal nulla.
Si nulluya venon kum me, me vadon sole.
Se nessuno verrà con me, andrò da solo.
Torneremo su null/ più avanti.
Un altro modo di esprimere la negazione è usare le radici no/ e des/.
Il leuto distingue due gradazioni principali per la negazione. La prima, indicata da no/, è la semplice assenza, “azzeramento” del concetto indicato; la seconda, indicata da des/, è l’opposizione e contrarietà, come se il concetto venisse non semplicemente azzerato bensì ribaltato in direzione contraria. Si pensi, in italiano, a:
‘fare’, ‘non fare’, ‘disfare’;
‘salire’, ‘non salire’, ‘scendere’;
‘attivare’, ‘non attivare’, ‘disattivare’;
e simili. Des/ si usa perlopiù in composizione con altre radici, mentre no/ è frequente anche da solo con la desinenza, nella forma noe (no/e), che corrisponde solitamente all’italiano ‘non’.
Me noe loquen anglesa.
Non parlo inglese.
Kio arboras vintru noe haben fillas.
Questi alberi d'inverno non hanno foglie.
Finu le noe venin.
Alla fine non è venuta.
Nulla impedisce che si possa usare similmente, come parola autonoma, anche dese (des/e): qq
qq. | qq
qq. | qq
qq. | qq
Dato che la negazione può cambiare cospicuamente il significato d'una frase a seconda dell'elemento che viene negato, noe ha meno libertà posizionale rispetto ad altri avverbi; di solito si mette sùbito prima dell'elemento che nega.
Me noe suken koqui.
Non mi piace cucinare. [Alla lettera, pressappoco «Io non gradisco cucinare»; suki = 'gradire'.]
Me suken noe koqui.
Mi piace non cucinare.
Noe me suken koqui.
Non a me piace cucinare. [S'intende magari che a qualcun altro piace.]
[qq il no nelle risposte, metti collegamento da qualche parte]
Con l'imperativo la negazione ha caratteri particolari: vedi le spiegazioni ivi. [qq inserire coll.]
In italiano sono parte normale della lingua le doppie negazioni in frasi come Non c'è nessuno, o Non so niente. Diversamente dall'italiano, in leuto ogni negazione ha valore effettivo, quindi usandone due la seconda ribalterebbe il concetto che stiamo esprimendo; queste frasi dunque vanno costruire con una sola negazione (no/ o null/). Se nella frase usiamo no/, solitamente l'altro elemento che in italiano sarebbe negativo è costruito con la radice unk/, che significa più o meno 'alcuno'; sulla quale torneremo più avanti.
Me vidin nulluya.
Non ho visto nessuno. [Letteralmente, «Ho visto nessuno».]
Me noe vidin unkuya.
Non ho visto nessuno. [Letteralmente, «Non ho visto alcuno».]
Me kenen nulla.
Non so niente. [Letteralmente, «So niente».]
Me noe kenen unka.
Non so niente. [Letteralmente, «Non so alcunché».]
In leuto le voci verbali hanno 3 tempi e 3 modi. Le desinenze si costruiscono in modo regolare:
Indicativo
Presente: -en; passato: -in; futuro: -on
Condizionale
Presente: -et; passato: -it; futuro: -ot
Imperativo
Presente: -es; passato: -is; futuro: -os
A questi si aggiunge l'infinito (-i), che ha caratteri particolari; lo trattiamo poco più avanti.
In leuto esiste una sola forma verbale irregolare (es, presente indicativo di essi 'essere'); ne parliamo più sotto in un paragrafo dedicato.
La desinenza verbale vale in leuto per tutte le persone e tutti i numeri, e per questo il verbo dev'essere quasi sempre accompagnato dal soggetto esplicito (spesso un pronome, come me ‘io’ o tu ‘tu’), che in italiano invece spesso si omette.
me loquen (io) parlo
tu loquen (tu) parli
te loquen (essi) parlano
Si può, tuttavia, evitare di ripetere il soggetto quando resta lo stesso per una serie di verbi in sequenza e il contesto è abbastanza chiaro:
Li venen, ∅ qq e ∅ qqforvaden ecye sen qq.
[Lui] Viene, [lui] mangia e [lui] se ne va senza neanche ringraziare.
Cesara «venin, ∅ vidin e ∅ vincin».
Cesare «venne, vide e vinse».
Huma studen misteryas de kosma ma ∅ noe kenen a kea qq mayru.
L'uomo studia i misteri del cosmo ma non sa che cosa accadrà domani.
Il presente dell'indicativo è indicato dalla terminazione -en:
me viden io vedo
matras viden le madri vedono
Pawla pensen Paolo pensa
tu pensen tu pensi
Come il presente italiano, il presente leuto serve per indicare sia cose che stanno effettivamente avvenendo nel presente, sia cose che sono “generali” nel tempo, leggi, ricorrenze, abitudini, anche se non stanno avvenendo nell’istante presente:
Me vaden marum.
Vado al mare. [...E ci sto andando proprio ora.]
Yunyu me sempru vaden marum.
In giugno vado sempre al mare. [Non ci sto necessariamente andando proprio ora; magari non è nemmeno giugno.]
Il passato è indicato dalla terminazione -in:
me vidin io vidi / ho visto / vedevo
matras vidin le madri videro / hanno visto / vedevano
Pawla kredin Paolo credette / ha creduto / credeva
tu pensin tu pensasti / hai pensato / pensavi
La terminazione -in traduce tutti i tempi italiani che indicano che qualcosa è avvenuto in un passato "assoluto": l’imperfetto (pensavo), il passato remoto (pensai), il passato prossimo (ho pensato).
Il futuro è indicato dalla terminazione -on:
me vidon io vedrò
matras vidon le madri vedranno
Pawla loquon Paolo parlerà
tu esson tu sarai
[QQ tutta 'sta roba che segue contrasta coll'uso che si fa dell'imperativo. Correggere] In italiano spesso si usa il presente anche per esprimere un tempo futuro. In leuto, se si parla del futuro (anche imminente, ma non già in atto) si usa il tempo verbale futuro:
Domani vado [ = andrò] in città. | Mayru me vadon urbum.
Arrivo [ = arriverò] fra tre minuti. | qq
Ciò può sembrare "rigido", ma in realtà è semplice e banalmente "logico". Possiamo vederlo facendo un confronto simmetrico con l'uso italiano per quanto riguarda il passato: se una cosa è avvenuta nel passato, anche solo un minuto fa, non usiamo il tempo presente per esprimerla:
Ieri vado in città. > Ieri sono andato in città. | Heru me vadin urbum.
Arrivo tre minuti fa. > Sono arrivato tre minuti fa. | qq
Il leuto, quindi, applica più simmetricamente la distinzione fra tempi verbali passati e futuri.
Gli altri tempi verbali italiani, che esprimono tempi "relativi" a un tempo "assoluto" —trapassato prossimo (avevo avuto), trapassato remoto (ebbi avuto) e futuro anteriore (avrò avuto)— si possono “simulare” in leuto usando i participi (che vedremo poco sotto); i quali consentono d’esprimere agilmente anche tempi che per l’italiano sarebbero difficoltosi, come il futuro nel futuro.
Il condizionale del leuto traduce sia il condizionale sia il congiuntivo dell’italiano, rappresentando un'«irrealtà» generale.
To esset meylo.
Sarebbe bello.
Si te potit, te venit.
Se avessero potuto, sarebbero venuti.
Il condizionale si coniuga regolarmente nei tre tempi; le sue desinenze sono come quelle dell'indicativo, ma con -t al posto di -n: quindi -et (presente), -it (passato), -ot (futuro).
[QQ mmm] Usando si ‘se’, in leuto un’ipotesi può essere sempre espressa in modo grammaticalmente corretto anche coll’indicativo (mentre in italiano non sempre); l’indicativo è più diretto e concreto, mentre col condizionale si esprime una sfumatura ipotetica più marcata, di maggior irrealtà.
Si me volen loqui, me loquen.
Se voglio parlare, parlo.
Si me volet loqui, me loquet.
Se volessi parlare, parlerei.
C’è una maggior duttilità e precisione, rispetto all’italiano, nel fatto che si può coniugare facilmente il condizionale anche al passato e al futuro. Per esprimere un’irrealtà nel futuro, coi verbi l’italiano deve limitarsi all’indicativo (o a esprimere il futuro coi verbi al presente); il leuto invece può scegliere senza impedimenti, a seconda delle sfumature richieste.
Si me volon loqui, me loquon.
Se vorrò parlare, parlerò. [In modo netto.]
Si me volot loqui, me loquot.
Se vorrò parlare, parlerò. [In modo più sfumato, ipotetico.]
Senza si, il condizionale si può usare per esprimere un’affermazione come l’indicativo, ma in modo più sfumato, vago, meno diretto, per esprimere possibilità, gentilezza, incertezza:
Li siten, li deben bibi.
Ha sete, deve bere.
Li siten, li debet bibi.
Ha sete, dovrebbe bere.
prey ka te venon
prima che vengano [= la venuta è considerata certa: verranno]
prey ka te venot
prima che vengano [= c'è incertezza sulla venuta: «nel caso che vengano, se dovessero venire, prima...»]
Nu tu qqyedot alka kum me?
Mangeresti qualcosa con me?
Nu sekun vosqq me esset meylo?
Secondo voi io sarei bello?
[qq cond e ind., vedi migl.]
L'imperativo esprime comandi, ordini, esortazioni.
Può essere usato senza esplicitare il soggetto, e in tal caso s'intende che è un 'tu' o un 'voi':
Dires alka!
Di' qualcosa! / Dite qualcosa!
Esses qq!
Sii forte! / Siate forti!
Se si vuole distinguere tra 'tu' e 'voi', si usa il pronome normalmente:
Tu esses qq!
Sii forte!
Vos esses qq!
Siate forti!
Negli altri casi (oltre la seconda persona spesso implicita) il soggetto s'indica esplicitamente:
Nos vades!
Andiamo!
Soldatas attakkes nunegu!
I soldati attacchino immediatamente!
QQ L'imperativo in leuto si può usare con la prima persona. Possiamo tradurlo più o meno usando il verbo dovere:
Me esses qq!
Devo essere coraggioso!
Me vincos qq!
Dovrò vincere la battaglia!
L’imperativo si usa per esprimere non solo ordini, ma anche esortazioni gentili, inviti, auspìci, augùri:
Venes kum kay, tu amuseton!
Vieni con noi, ti divertirai!
Potes trovi a kea tu sercxen!
Che tu possa trovare ciò che cerchi!
qq esses kum vos.
La pace sia con voi.
La coniugazione è regolare nei tre tempi; le desinenze dell'imperativo sono come quelle dell'indicativo e del condizionaleqq, ma con -s come consonante: quindi -es (presente), -is (passato), -os (futuro).
qq i tre tempi
qq imperativo nelle domande
[indic. e cond. e imp., cerca in migl.]
qq ah, ma c'è anche null/]
Quando si tratta d'indicare condizioni meteorologiche, o di descrivere la «situazione» in modo generale, impersonale, il verbo si usa senza soggetto:
Pluven e niven kume.
Piove e nevica insieme.
Yurnescin.
Si fece giorno.
vedi tem/ qui: https://lernu.net/gramatiko/verboj_kaj_frazroloj
L’infinito (in italiano -are, -ere, -ire, più le forme contratte, trarre, porre, ecc.) è indicato dalla terminazione -i:
essi essere
vidi vedere
ludi giocare
flewki volare
L’infinito in leuto è particolare perché funziona allo stesso tempo come verbo e come sostantivo. Come verbo può reggere un complemento oggetto (come in italiano in fare la spesa, bere un bicchiere); come sostantivo può essere soggetto d’una frase (come in leggere è bello) o complemento oggetto (come in lei ama leggere).
Ridi es meylo.
Ridere è bello.
Me volet forvadi. qq
Vorrei andarmene.
Le volin keni vera.
Voleva conoscere la verità.
Gli infiniti possono reggere altri infiniti:
Me volet poti flewki.
Vorrei poter volare.
In italiano, perché un verbo transitivo regga un infinito c’è spesso —non sempre— bisogno d’una particella. In leuto invece di norma no, la costruzione è diretta. Indicando con «∅» il “nulla”:
Sokrata kenin ∅ noe keni.
Socrate sapeva di non sapere.
Me provin ∅ skribi o quenta. qq
Ho provato a scrivere un racconto.
Te decidin ∅ redwi qqtunkmayru.
Decisero di tornare l’indomani.
Se ce n'è bisogno, si possono esprimere infiniti passivi e con tempo verbale mediante l'inserimento delle radici dei participi, che vediamo ora.
In leuto non esistono tempi composti come i nostri, solo costruzioni esteriormente simili che usano dei «participi». In tali costruzioni, questi «participi» non sono elementi verbali, bensì aggettivi, che funzionano a tutti gli effetti come gli altri aggettivi della lingua che abbiamo visto sopra. Ci sono quindi delle differenze rispetto all’italiano, perché i participi italiani non sono del tutto riducibili ad aggettivi. Ne parliamo qui perché tali costruzioni si collegano ai verbi, e ciò aiuta per l’approccio di questa grammatica, che descrive il leuto secondo le somiglianze con l’italiano.
Mentre le desinenze verbali finora viste esprimono un tempo "assoluto" (passato, presente, futuro), esistono in leuto anche radici compositive che esprimono un tempo "relativo": precedente alla narrazione, contemporaneo alla narrazione (o generale nel tempo della narrazione), successivo alla narrazione. Queste radici sono inoltre di due tipi, attive e passive. La costruzione è regolare e molto semplice. Le vocali della radice sono le stesse dei corrispondenti tempi assoluti (-i-, -e-, -o-), mentre l'elemento attivo è rappresentato da -nt- e quello passivo da -t-. Per esteso:
Anteriorità
Attiva: -int-; passiva: -it-
Contemporaneità o generalità
Attiva: -ent-; passiva: -et-
Posteriorità
Attiva: -ont-; passiva: -ot-
Il loro uso è alquanto intuitivo per gl'italofoni:
venento | ven/ent/o | veniente (che viene nel momento della narrazione, o "in generale")
veninto | ven/int/o | venuto (che è venuto prima del momento della narrazione)
venonto | ven/ont/o | venturo (che verrà dopo il momento della narrazione)
Sono aggettivi. Usandoli assieme al verbo essi ‘essere’, si possono costruire quelli che esteriormente assomigliano ai nostri «tempi composti», e che servono primariamente per esprimere anteriorità e posteriorità (relative) rispetto al passato e al futuro (assoluti):
li venin venne (passato, assoluto)
li essin veninto era venuto (passato nel passato)
li essin venonto sarebbe venuto (futuro nel passato)
li venon verrà (futuro, assoluto)
li esson veninto sarà venuto (passato nel futuro)
li esson venonto sarà "venturo" (futuro nel futuro)
La stessa costruzione si usa per i verbi che in italiano vogliono l'ausiliare avere:
li bibin bevve
li essin bibinto aveva bevuto
li esson bibonto avrebbe bevuto (successivamente)
Attenzione, però: come già detto, queste costruzioni con essi sintatticamente non sono verbi nel complesso, ma una semplice giustapposizione d’un verbo e un aggettivo. Pertanto, se vogliamo che questa costruzione abbia un complemento oggetto, bisogna usare una sorta di "complemento oggetto indiretto" (espresso da na, che vediamo più sotto). Diversamente dall'italiano, infatti, questi "participi" leuti sono semplici aggettivi, e in leuto un aggettivo non può reggere un complemento oggetto (diretto).
li bibin aqua bevve l'acqua
li essin bibinto na aqua aveva bevuto l'acqua
li esson bibonto na aqua avrebbe bevuto l'acqua
Per rendere queste costruzioni con na più intuitive, un italofono può pensare ad altri aggettivi o sostantivi italiani di significato simile, che non reggono direttamente altri elementi. Come in italiano si dice vorace di cibo, desideroso d'affetto, lettore di libri, e non *vorace ∅ cibo, *desideroso ∅ affetto, *lettore ∅ libri, così in leuto le costruzioni coi participi si strutturano similmente in forme del tipo «[mangiante] na [cibo]», «[desiderante] na [affetto]», «[leggente] na [libri]».
Le costruzioni con «essi + participio» possono apparire ripetitive e lunghe se devono essere usate più volte, anche per il fatto di richiedere l’eventuale na; una soluzione frequente, allora, è di costruire direttamente la voce verbale inserendoci l’elemento di temporalità relativa del participio, in modo più sintetico:
li essin vidinto ≈ li vidintin | vid/int/in | aveva visto
li essin vidonto ≈ li vidontin | vid/ont/in | avrebbe visto
Così, la forma composta è a tutti gli effetti un verbo e può reggere il complemento oggetto (diretto), senza na:
li essin bibinto na aqua ≈ li bibintin aqua | aveva bevuto l'acqua
li essin bibonto na aqua ≈ li bibontin aqua| avrebbe bevuto l'acqua
qq e come si fa con quei verbi che reggono il nominativo? essere, sembrare, diventare? argh sempre con na? (ah ma no, che scemo, ora non ci sono più nom.-acc. Quindi sì, na senza problemi) (ah, ma na + aggetivo? Beh, perché no?
Rispetto all'italiano, i participi leuti consentono un'espressione più completa, sintetica e lineare degli aspetti temporali, in particolare dando un modo diretto per esprimere il futuro nel futuro, che in italiano invece dev'essere spiegato con delle perifrasi o lasciato all'intuizione.
Le radici dei participi possono essere integrate negl'infiniti; si usano soprattutto per creare forme passive per i verbi transitivi.
vidi | vid/i | vedere
videti | vid/et/i | essere visto
toleri | toler/i | tollerare
tolereti | toler/et/i | essere tollerato
Naturalmente, si possono inserire anche i participi per l'anteriorità e la posteriorità:
vidinti | vid/int/i | avere visto
viditi | vid/it/i | essere stato visto
vidoti | vid/ot/i | essere visto successivamente
In molti casi il tempo dell'azione indicata dall'infinito è intuibile dal contesto, e quindi (se non dobbiamo volgere al passivo un verbo transitivo) non è necessario l'inserimento della radice del participio.
Sostantivati, i participi possono indicare già concretamente persone o cose, senza la necessità di uy/ o altri elementi "d'appoggio":
skienta | ski/ent/a | sciatore, persona che scia
venintas | ven/int/as | i venuti
mworonta | mwor/ont/a | il morituro
qq usabili sostantivati per indicare persone, dove non ci sia ambiguità; se si sente ambiguità, aggiungere normalmente uy/: repubblica presidenziale ecc.
Come dicevamo sopra, in leuto esiste un'unica forma verbale irregolare, l'indicativo presente del verbo essi (ess/i) 'essere'. A regola, il suo indicativo presente è essen (ess/en); a questa forma regolare corrisponde la forma eccezionale sintetica es.
Es e essen hanno lo stesso significato:
Li es o meo amika.
È un mio amico.
Li essen o meo amika.
È un mio amico.
La forma sintetica eccezionale è comoda per la sua brevità, rappresentando una parola frequente, soprattutto nel parlato, e quindi è prevalente nell'uso. La forma estesa regolare si può comunque usare sempre: per variazione, per ottenere un ritmo diverso per una frase, per fare una rima, perché ci “suona meglio”, perché la parola seguente si lega meglio a -n che a -s, o anche banalmente se la troviamo più facile o la preferiamo perché ci piace la regolarità.
La somiglianza fra questo es, la desinenza /es dell'imperativo presente e la radice es/ (che vedremo più avanti) è una semplice coincidenza: sono elementi indipendenti che non vanno confusi fra loro.
[QQ] Quando è l'ultimo elemento d'una parola composta, es va separato dal resto della parola con un trattino, secondo le regole viste sopra. Si confrontino le due frasi seguenti:
Essa essen e noessa noessen.
L'essere è e il non essere non è.
Essa es e noessa no-es.
L'essere è e il non essere non è.
In queste composizioni, oltre a essere necessario per la pronuncia, il trattino evita un'ambiguità, con la terminazione /es dell'imperativo:
cirkun-es [pron. tsirkunès] | circonda, circondate, circondiamo... (indicativo)
cirkunes [pron. tsirkùnes] | circonda, circondate, circondiamo... (imperativo)
qq [ho copincollato, sistema]
Sempre come in italiano, il presente può usarsi per indicare eventi del passato («presente storico») o del futuro, quando si fanno ricostruzioni o si organizzano o prevedono cose che devono avvenire. S'immagina, in pratica, di spostarsi nel tempo e percepire, osservare o vivere quegli avvenimenti come se fossero in diretta, l'uno dopo l'altro. Questo può servire a creare un maggior coinvolgimento.
qq | Il giovane Dante incontra Beatrice qq. È un evento che lo segnerà per tutta la vita.
qq. | Ricapitoliamo: l'auto del presidente arriva alle 17:55, alle 18:00 ci sono i saluti ufficiali con la stampa, mentre il colloquio a porte chiuse inizia alle 18:15. [Si parla d'un evento futuro, che si sta organizzando.]
I pronomi leuti sono simili a quelli italiani, con solo qualche differenza. Vediamo prima il significato di ognuno, poi osserviamo i caratteri generali del gruppo.
me | io
tu | tu
li, le, to | egli, esso (m.); ella, essa (f.); esso, essa, egli, ella (genere neutro)
kitaw, qqkay, nos | noi (inclusivo, esclusivo, generico)
vu | voi
te | essi, esse
so | un soggetto generale imprecisato
se | sé
Me, tu, vu e te hanno una corrispondenza generalmente buona cogli equivalenti italiani suscritti; non c'è molto da aggiungere. Vediamo invece gli altri pronomi con le loro particolarità.
Le e li rappresentano una (terza) persona, un animale o altra entità sessuata, rispettivamente di genere femminile (le) e maschile (li). To si usa invece per entità senza genere, o persone o animali di genere ignoto o indeterminato. Oggi si può usare per le persone «non binarie», se lo desiderano. Se si parla d'una persona di genere noto, si usa sempre il pronome del genere corrispondente:
Me kenen Marka, li es o bono amika. | Conosco Marco, [lui] è un buon amico.
Me loquin kum tuo amika, le es vere intelligxo. | Ho parlato con la tua amica, [lei] è davvero intelligente.
Casi di genere ignoto o indeterminato:
Civa es basa de nacyona. To haben o raytas e o debas. | Il cittadino è la base della nazione. Egli ha diritti e doveri. [Si parla della figura del «cittadino» in astratto: nel concreto il cittadino come individuo avrà un genere, ma in astratto può essere sia dell'uno sia dell'altro. In italiano in una situazione del genere si usa il maschile inclusivo.]
Alkuya essin hiku. To bibin meo vina. | Qualcuno è stato qui. Ha bevuto il mio vino. [Immaginiamo che sia stato un uomo o una donna, ma non ne conosciamo il genere.]
Dato che in leuto non esiste il genere grammaticale, bisogna ricordare che il genere da indicare con il pronome è il genere reale dell'oggetto; per esempio, l'Italia, la luna o una nave, che per un italofono possono essere istintivamente "femminili", non s'indicheranno con le ma con to; il Colosseo, o il pianeta Marte, che per un italofono possono essere istintivamente "maschili", analogamente s'indicheranno con to e non con li.
Queste cose potrebbero essere indicate con li o le in un contesto poetico in cui si vogliano personificare; nel linguaggio comune invece una cosa del genere sarebbe anomala.
qq Per dire 'noi', in leuto ci sono tre pronomi:
hwiqqkitaw esprime un 'noi' inclusivo, che contiene la persona che parla e include l’interlocutore, più eventuali altre persone;
kayqq esprime un 'noi' esclusivo, che contiene la persona che parla (e almeno un’altra persona), ma non include l’interlocutore;
nos esprime un 'noi' generico e imprecisato, che copre entrambi i significati; come noi in italiano.
Questa triplice possibilità consente al leuto di esprimersi in modo sintetico e preciso. Tuttavia, non è sempre necessario esprimersi con la massima precisione. Se il contesto non richiede una particolare esattezza formale, e il messaggio è comunque intendibile con facilità, si può usare nos anche quando ciò che s'intende potrebbe essere espresso in modo univoco con hwi o kay.
Così, per esempio, il parlante italiano, al quale verrà più spontaneo un 'noi' generico, appunto nos, può usare generalmente questo, limitandosi a usare gli altri due quando senta la necessità di essere preciso.
Viceversa, i parlanti nativi di lingue che usano normalmente la distinzione inclusivo-esclusivo (vietnamita, tagalo, checiua, ecc.) potranno usare generalmente hwi e kay, limitandosi a nos nei casi in cui sentano la necessità di essere vaghi.
Hodyu hwi vaden marum. | Oggi andiamo al mare. [Parlo di me e te, più eventuali altre persone.]
Hodyu kay vaden marum. | Oggi andiamo al mare. [Parlo di me e almeno un'altra persona, non sto parlando di te.]
Hodyu nos vaden marum. | Oggi andiamo al mare. [Io e qualcun altro oltre a me, non si sa se sto parlando di te o no.]
Si confronti la simile tripartizione delle congiunzioni disgiuntive. [qq metti collegamento]
So indica una terza persona (qq grammaticalmente singolare) indefinita, generale o collettiva. Il corrispondente (semantico, non sintattico) più esatto in italiano è nelle costruzioni con si con soggetto indeterminato:
Ibu so potin nati maru.
In quel luogo si poteva nuotare in mare.
So quenten ka heroa...
Si racconta che l'eroe...
In italiano, a seconda dei contesti, possiamo esprimere questo significato in vari modi. Con la seconda persona singolare:
Sekun me, si so qqkriminen so deben pagi.
Secondo me, se compi un crimine devi pagare. [Il «tu» è generico: s'intende che la cosa vale per chiunque in generale, non solo specificamente per il nostro interlocutore.]
Con la terza persona plurale:
So diren ka tu rikkescin!
Dicono che tu sia diventato ricco! [Non intendiamo un «loro» specifico, un preciso gruppo di persone che dicono questa cosa, ma una diceria generale.]
Con uno come pronome indefinito:
Wandu keu so bone farten, viva es meylego.
Quando uno sta bene, la vita è meravigliosa. [Non intendiamo un «uno» specifico, cioè una persona singola, ma quasi un «chiunque» generale.]
Con la prima persona singolare:
In questi casi, il leuto usa prevalentemente so.
[QQ Per l'accento, rivedi in caso di pronomi plurisillabici]
I pronomi funzionano o possono essere interpretati come sostantivi eccezionali, la cui forma troncata non ha bisogno di essere marcata dall'apostrofo (mentre ciò è richiesto per tutti i «sostantivi regolari»). Le loro forme isolate, dunque, dal punto di vista funzionale corrispondono a sostantivi singolari al nominativo (il troncamento [qq coll.] si fa solo per -a, appunto il nominativo singolare):
me [≈ *me'] ≈ mea | me/a
tu [≈ *tu'] ≈ tua | tu/a
kit [≈ *kit'] ≈ kita | kit/a qq
Nell'uso normale e più frequente della lingua, i pronomi al nominativo si usano senza questa -a; in modo «inverso» rispetto al troncamento, sintatticamente l'-a si può comunque introdurre sempre, per effetti particolari, per far quadrare la metrica d'una canzone, per fare una rima, perché in una certa frase ci piace di più, eccetera.
Un caso più frequente e concreto può essere quello dell'eufonia. Per esempio, in un'espressione come nos scwazen '(noi) scegliamo', la sequenza -s scw- (AFI: /-s ʃw-/) potrebbe risultare difficile: si può allora dire nosa scwazen, che vuol dire la stessa cosa ma inserisce una comoda vocale per evitare il difficile gruppo consonantico (AFI: /-sa ʃw-/).
Si noti che, funzionalmente, tutti i pronomi sono «singolari», anche quelli che semanticamente indicano più soggetti (qq, qq, te). Nel momento di «palesare» la desinenza sostantivale, dunque, essa è -a per tutti, non -as (che non si potrebbe troncare).
Dal punto di vista sintattico, è comunque possibile creare questi plurali, ma con significato diverso: per rappresentare in qualche modo una strana ulteriore pluralizzazione, che potrebbe comparire nel parlato di personaggi strani, o in costruzioni poetiche. Non è tuttavia una cosa del registro normale. Similmente, si potrebbero creare dei plurali per i pronomi semanticamente singolari (meas, tuas, lias...), ma anche qui per esprimersi in modo vistosamente strano, diverso dalla norma.
A parte l'eccezione della forma di base, senza -a e senza -', abbiamo detto che i pronomi funzionano come sostantivi; a parte il nominativo singolare, quindi, si declinano allo stesso modo che abbiamo già visto:
nominativo: me[a] | me/a | io, me
situativo: meu | me/u | in me, presso di me
lativo: meum | me/um | a me
Il significato del situativo e del lativo è identicamente lo stesso. Qualche esempio:
Leu haen alka kea me noe fahamen.
In lei c'è qualcosa che non capisco.
Me volet loqui tuum.
Vorrei parlarti. [= parlare a te.]
Nu tu venon meum mayru?
Verrai da me domani? [da me = moto a luogo, la destinazione è il me che parla.]
Qualche esempio per pronomi semanticamente plurali:
qq.
Vosu sceyas es differo.
Da voi le cose sono diverse. [= presso di voi]
Tu debet vadi teum.
Dovresti andare da loro.
Per esprimere gli aggettivi possessivi, il leuto unisce semplicemente la radice pronominale alla desinenza aggettivale:
me/o meo mio, mia, miei, mie
tu/o tuo tuo, tua, tuoi, tue
li/o lio suo, sua, suoi, sue (di lui)
Questi aggettivi esprimono una generica "relazione" col pronome indicato; se non è sufficiente, e si vuole calcare particolarmente sull’elemento del possesso, della proprietà, si può includere de ‘di’ nella composizione: medeo (me/de/o), tudeo (tu/de/o), eccetera (cfr. kedeo, ke/de/o più avanti qq); oppure dire pianamente de me ‘di me’, de tu ‘di te’, eccetera.
In alcune lingue (fra quelle a noi più note, francese e inglese) l’aggettivo possessivo va usato esplicitamente molto spesso. In leuto, come in italiano, solitamente si omette se il possessore è sufficientemente chiaro dal contesto:
Aperes okulas!
Apri gli occhi! [I tuoi occhi.]
Daves meum manwa.
Dammi la mano. [La tua mano.]
Quando in italiano l'aggettivo possessivo assume a sua volta valore pronominale, in leuto si usa solitamente uy/.
Listu pos meo noma haen tuuya.
Nella lista dopo il mio nome c'è il tuo.
Me trovinqq qqnure tuo gafas. Nu tu vidin meuyas?
Ho trovato solo i tuoi occhiali. Hai visto i miei?
Per esprimere le forme di cortesia l’italiano usa lei (raramente ella) e talvolta voi; raramente, oggi, forme come i signori, lorsignori, loro al plurale. Le concordanze dei verbi cambiano di conseguenza: ci rivolgiamo a un ‘tu’, ma per dire ‘tu sei’ diciamo lei è o voi siete; ci rivolgiamo a un ‘voi’, ma per dire ‘voi siete’ diciamo i signori sono. Si trovano situazioni più o meno simili anche in altre lingue (per esempio lo spagnolo, con tu o usted o vos, e vosotros o ustedes al plurale).
Il leuto usa invece un sistema più lineare: non cambia le concordanze [qq che non cambierebbero comunque] ma si limita a modificare i pronomi, mettendoci davanti la particella vos-, che marca le forme di cortesia.
Quando il pronome è isolato, la particella VOS/ si scrive legata al pronome con un trattino: vos-tu, vos-vu. Quando invece il pronome è un elemento all'interno di una parola con desinenza, il trattino non si scrive: vostuo, vosvuo, vostuum, eccetera.
Il motivo di questa particolarità grafica è che bisogna rappresentare la composizione e la corretta pronuncia, coll'accento sul pronome (vos-tù, vos-vù). Se scrivessimo VOS/ attaccato al pronome senza trattino, avremmo *vostu e *vosvu, che per le regole del leuto si pronuncerebbero vòstu e vòsvu, e non sarebbero i nostri pronomi bensì sostantivi al situativo, *VOST/U e *VOSV/U. Questo problema non c'è invece nei composti con desinenza, per cui il trattino non è necessario.
Kea vos-tu desiren? | Che cosa desidera? [Lei di cortesia = 'tu']
Nu sauya es vostuo kana? | Quello è il suo cane? [Suo di cortesia = 'tuo']
Vos-vu seques me, qq. | Seguitemi, per favore. / Lorsignori mi seguano, per favore.
Vosvuo vola es o qq. | La vostra volontà è un ordine. / Il volere di lorsignori è un ordine.
Dove si voglia esprimere una cortesia particolarmente marcata e formale —per esempio, un cameriere che parli ai clienti in un ristorante di lusso; un funzionario che accolga un importante—, VOS/ si può aggiungere anche alla terza persona. In questo caso, si usa VOS/ per tutte le persone (presenti o assenti in quel momento) nei cui confronti si userebbe rivolgendosi loro direttamente.
L’uso delle forme di cortesia varia tra paesi, culture e lingue. In leuto l’uso normale corrisponde pressappoco a quello italiano odierno, in cui le forme di cortesia esprimono principalmente deferenza e distanza sociale.
Si usa VOS/ per parlare a sconosciuti, soprattutto se più anziani, a rappresentanti dell’autorità, a persone più in alto in una gerarchia, o in generale a persone con cui non si ha familiarità.
Non si usa VOS/ per parlare ad amici, parenti, bambini e ragazzi. Per i parigrado in contesti professionali, l’uso può oscillare. Se il bambino appartiene a un rango sociale più elevato (es.: il principino di una famiglia reale), o comunque ci si trova in situazioni caratterizzate da una certa formalità (es.: un maggiordomo che parli ai bambini della famiglia per cui lavora), VOS/ può essere usato (o addirittura richiesto dal contesto) anche per i bambini.
Sayitta, me preparin vostuum alka qq ind yediqq. | Signorino, le ho preparato qualcosa da mangiare.
In certi contesti in cui una persona d'autorità parli a qualcuno di rango inferiore (es.: un re medievale che si rivolge a un suddito), o a qualcuno con cui si trova in una situazione di vicinanza emotiva o spirituale, la persona d'autorità potrebbe non usare VOS/ anche se sta parlando con qualcuno con cui non ha una normale "familiarità". Ci sono naturalmente delle gradazioni: un prete che parla a un fedele in un contesto generico (situazione di relativa vicinanza) potrebbe usare o non usare VOS/, mentre un prete che amministra un sacramento (situazione di grande vicinanza) quasi sicuramente non lo userà.
«qq». «Loques, me awskulten tu». | «Maestà, grazie per avermi concesso udienza». «Parla, ti ascolto».
Luka, qq | [Un prete nella celebrazione d'un matrimonio] Luca, vuoi accogliere Sara come tua sposa nel Signore, promettendo di esserle fedele sempre...
Ci sono inevitabilmente delle aree grigie più o meno ampie, e in queste saranno la formalità del contesto, le preferenze personali e i vari dettagli del caso a decidere.
Per rivolgersi a Dio nell’uso normale non si usa mai VOS/, perché s’intende che il rapporto con Dio è diretto, personale, intimo (anche in contesti pubblici), e Dio si trova oltre le formalità umane. Ciò è simile all’uso italiano, dove si dà del lei o del voi ai rappresentanti della gerarchia ecclesiastica (o dell'autorità civile, militare, e simili), ma a Dio si dà sempre del tu (Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome…; Signore, ti invochiamo...).
Domina, qq. | Signore, la tua creazione mi riempie d'inesauribile meraviglia.
Le forme di cortesia esprimono appunto cortesia, e riguardo, gentilezza; ma, dato che non si usano con amici e familiari, possono esprimere anche distacco e freddezza. Così, per esempio, un ateo molto avverso al concetto di Dio potrebbe rivolgerglisi ironicamente usando VOS/ per esprimere ostilità, "abbassandolo" al livello delle formalità umane.
Karo Thea, is o omnapotenta keeqq vos-tu me expektin qq | Caro Dio, da un onnipotente come lei mi aspettavo di più.
'Usare VOS/ (nei riguardi di)' si dice vosi (VOS/I). Il verbo è transitivo e può tradurre l'italiano 'dare del lei/voi (a)'. Dall'altro lato, 'non usare VOS/ (nei riguardi di)' si dice novosi (NO/VOS/I), che può tradurre l'italiano 'dare del tu (a)'.
Professora qq, publiku qq vui li. | Il professore è un po' all'antica, in pubblico è meglio dargli del lei.
Meo qq noe qq, le novosen omnuyas. | Mia sorella non ama le formalità, dà del tu a tutti.
Similmente si possono fare vosa 'particella VOS/, uso di VOS/', vose 'usando VOS/', novosa, novose, novoso o vosseno (VOS/SEN/O, 'privo di VOS/'), e tutti gli altri termini di cui ci sia bisogno.
[qq spiega la differenza colle congiunzioni]
Vediamo prima l'elenco delle preposizioni coi loro significati; dopo ne trattiamo i caratteri generali.
qq no, cambia: usiamo ast/ come radice per membro, ci vuole altro
qq | qq
qq | qq
qq | qq
Avan significa 'davanti a', in senso spaziale:
avan qq | qq
qq | Il municipio è davanti alla stazione ferroviaria.
Avan me hain vara kea me vidintin fotu. | Davanti a me c'era l'uomo che avevo visto nella foto.
Confronta koram, il cui significato in italiano è spesso reso anch'esso con davanti a.
Ayl significa 'con tendenza a, tendendo a':
qq | qq
qq | qq
qq | qq
Ayn significa 'a contatto con, contro':
qq kapa ayn qq | Ho sbattuto la testa contro il muro.
qq | Spingiamo l'armadio contro la parete.
qq sur, law
Questo «contro» non va confuso con «contro» nel senso di 'in opposizione a, in contrarietà a', espresso da konter.
Be indica lo strumento, il mezzo, il tramite per cui qualcosa è realizzato o avviene.
Me farin to be meo manwas.
L'ho fatto con le mie mani.
nutrirsi di pesce e legumi
obteni alka be qq
ottenere qualcosa con l'astuzia
Me qq be o meo qq.
Ho avuto l'informazione che cercavo tramite un mio conoscente.
In italiano questo significato è spesso espresso con con. Be non va confuso con os (dotazione, possesso) e kum (compagnia), che spesso in italiano sono parimenti resi con con.
Può esserci una certa sovrapposizione con trans: vedi il paragrafo per la differenza fra i due. qq
Cirkun significa 'intorno a', in senso spaziale, temporale:
Cirkun doma hain o parvo gardina.
Intorno alla casa c'era un piccolo giardino.
Cirkum me me viden nure o inimikas.
Intorno a me vedo solo nemici.
Il complemento d'argomento è invece espresso da pri, mentre 'circa' nel senso di 'approssimativamente' si dice qq.
Cis significa 'di qua da', per indicare la parte dove si trova chi parla rispetto a un qualche oggetto di riferimento:
cis mara
di qua dal mare
cis Alpas
di qua dalle Alpi
Urba essen cis fluma.
La città è di qua dal fiume.
Confronta trans e ulter.
Cxe indica il fatto presso qualcuno, in un certo contesto, a un certo livello d'una gradazione, a un certo orarioqq. In italiano i modi di rendere questo concetto sono vari, a seconda dei casi.
Cxe antiquo populas sklavitha konsideretin normalo.
Presso i popoli antichi la schiavitù era considerata normale.
Mayru me esson cxe Kamilla.
Domani sarò da Camilla. [= A casa di Camilla, o nel «luogo di Camilla», qualunque sia.]
Cxe kuo temperatura sakchara liquescen?
A che temperatura si liquefà lo zucchero?
Abbiamo fallito per la terza volta, a questo punto forse è meglio tentare un'altra strategia.
Cxe kio qq
A quest'ora ho sempre sonno.
Cxe deketho qq.
Al decimo livello puoi potenziare il tuo personaggio.
ayma cxe unetho vida
amore a prima vista
qq (un esempio con l'orario)
Dando indicazioni di distanze spaziali o temporali il concetto di cxe si esprime in italiano anche senza preposizione:
qq cxe o duheko kilmeteras qq.
La diga è ∅ duecento chilometri a monte dell'estuario.
Te scegin cxe o trio horas prey tu.
Sono arrivati ∅ tre ore prima di te.
Da significa 'compiuto da, fatto da', per indicare il complemento d'agente o di causa efficiente come in italiano, o più ampiamente l’autore, il responsabile attivo d’un’azione:
Li essin vundito da qqseo inimika.
Era stato ferito dal suo nemico.
o skulpuyra da Kanova
una scultura di Canova [= realizzata da Canova]
Da è in un certo senso il contrario di na.
Il 'da' in senso di provenienza spaziale o temporale s'indica con is.
qq diff con de, eb
Dawr esprime la durata temporale d'un avvenimento, o l'estensione spaziale lungo cui si sviluppa un movimento. In italiano questo significato s'indica con per, o anche senz'alcuna preposizione:
Me qqverkin cxeqq kio proyekta dawr o quaro yannas.
Ho lavorato a questo progetto per quattro anni.
qq [un esempio senza prep.]
Te qq dawr o kilmetqqra.
Camminarono per un chilometro.
Cfr. dum. (qq metti collegamento)
qq | qq
qq | qq
qq | qq
Dum significa 'durante'.
qq | qq
qq | qq
Dum ka le legxin, li qqkoquin. | Mentre lei leggeva, lui si mise a cucinare. [Letteralmente, «durante che lei leggeva».]
qq differenza con dawr
Eb significa 'a causa di', 'per' (con valore causale):
Me kawpin to eb too meylitha.
L'ho comprato per la sua bellezza.
eb taa
perciò
Eb li nos debon rifari omna.
Per causa sua dovremo rifare tutto. [Letteralmente, «a causa di lui»]
Eb non indica il complemento d'agente, che è invece espresso da da.
Ek significa '[fatto, composto] di', per indicare il materiale o le componenti, gli elementi di cui qualcosa è costituito:
o dyadema ek argxenta e sapfiras
un diadema d'argento e zaffiri
Sur Titana haen o maras ek liquo metana.
Su Titano ci sono mari di metano liquido.
o qq ek soldatas
una squadra di soldati.
Si noti: dato che di solito il materiale o i componenti sono considerati “in generale”, non richiedono l’articolo (ek soldatas), che però si può usare, se la costruzione ha senso (ek o soldatas).
Confronta astqq.
Esk significa 'nello stile, alla maniera di':
qq esk anglas | un cappellino all'inglese [letteralmente «alla maniera degl'inglesi»]
o epiko qq esk qq | un romanzone epico alla Tolkien
o sonetta esk Petrarka | un sonetto nello stile di Petrarca
El significa 'in', per indicare uno stato in luogo, o in un momento temporale.
qq | qq
qq | qq
qq | qq
Eth, seguito da un numero (sostantivo al nominativo), indica, in una sequenza, la posizione data da quel numero.
eth dekquara
al quattordicesimo posto, in quattordicesima posizione
qq, ma unke qq eth dua.
Abbiamo fatto del nostro meglio, ma comunque siamo arrivati per secondi.
Si usa perlopiù in composizione: si veda la sezione dei numerali ordinali.
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq questo rivederlo? ma sì
I è una preposizione semanticamente vaga, che mette in relazione due elementi ma non esplicita la natura di questa relazione. Semanticamente è simile alla composizione delle radici (come vedremo più avanti qq), ma si costruisce nell'ordine inverso:
qq [qq/qq] ≈ qq i qq
qq [qq/qq] ≈ qq i qq
qq [qq/qq] ≈ qq i qq
Nella pratica, se si esprime per esteso una composizione è più frequente usare una preposizione più precisa (se ne esiste una che esprima il significato appropriato) qq
i si usa in casi in cui xx
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq i ka è tipo il che polivalente, ma con minor connotazione bassa [ah, ma non è quello che intendo io...?]
alcune funzioni specifiche: il contenuto d'un contenitore [ma «giumella, bicchierata, badilata di» invece vorranno ek...]; piatto "a" un ingrediente
Vara i nigra fugxin qq deserta, e pistoluya sequin li.
L'uomo in nero fuggì nel deserto, e il pistolero lo seguì.
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq scindere ind e end come in ido?
qq | qq
qq | qq
qq | qq
Is significa 'da', per indicare la provenienza spaziale o temporale:
Me venen is Grekiya.
Vengo dalla Grecia.
Is hodya qq.
Da oggi è in vigore la nuova legge.
Non va confuso con da, che traduce anch'esso il da italiano ma col significato del complemento d'agente.
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq controcorrente e anticorrente, controluce e antiluce, diversi
qq e scindere konter e kontray? o casino inutile?
c'è anche red/...
vedi globasa
Koram significa 'in presenza di, al cospetto di, di fronte a [una persona, o entità più o meno personificata]':
Koram regxa so qq
Ci s'inchina di fronte al re.
Non puoi comportarti così davanti alle sue zie!
Koram piramidas li qq o nullaja.
Di fronte alle piramidi si sentì una nullità.
Mentre avan indica una posizione, una direzione spaziale piuttosto precisa, koram indica in modo più vago un contesto, una circostanza fisica ma anche con aspetti di ordine psicologico.
avan regxa, reyr regxa
davanti al re, dietro al re [posizioni nello spazio rispetto alla posizione fisica del re]
koram regxa
al cospetto del re [il contesto della sua presenza, della sua attenzione]
Kum significa 'con, insieme a', per indicare la compagnia, il fatto di essere assieme a qualcuno o qualcosa.
Nu me poten veni kum vuqq?
Posso venire con voi?
Me es maru kum meo familya.
Sono al mare con la mia famiglia.
Kum ha un significato più ristretto del con italiano: il ‘con’ strumentale (l'ho fatto con le mie mani) si esprime in leuto con be, mentre il ‘con’ per esprimere un carattere o una dotazione (parlare con saggezza) si esprime con os: vedi le rispettive voci. [qq ud?]
La significa 'a'; come in italiano, ha il doppio valore di indicare il destinatario, il ricevente di qualcosa (complemento di termine), e il moto a luogo:
Li dirin to la omnuyas.
Lo disse a tutti.
Kio ornithas vintru migren la Sudafrika.
Questi uccelli d'inverno migrano in Sudafrica.
Fra la costruzione «sostantivo al lativo» e la costruzione «la + sostantivo al nominativo» c'è un generale rapporto di sinonimia:
Le davin to meum.
L'ha dato a me.
Le davin to la me.
L'ha dato a me.
Te vadon Pekinum.
Andranno a Pechino.
Te vadon la Pekina.
Andranno a Pechino.
La scelta di quale costruzione usare è generalmente libera, a seconda di come si vogliono mettere in evidenza i diversi elementi e di come la frase ci suona meglio.
qq usare law/ per vecchio e questo cambiarlo in lu?
Law significa 'lungo, conformemente a, secondo (qualcosa che fornisce un percorso, una direzione, un'indicazione, una regola, un modello)':
o sampa law fluma | una passeggiata lungo il fiume
qq | qq
qq | qq
qq differenza con ayn e sekun
qq un po' troppo simile a la? mah, non troppo
Mentre ayn indica un contatto fisico, law indica più che altro un fatto di 'seguire le forme': così, si può andare law qq 'lungo la recinzione' senza essere necessariamente ayn qq, 'contro la recinzione, a contatto con la recinzione'. Inoltre, law implica perlopiù una direzione qq vedi dizio
Per la differenza con sekun, vedi questo secondo termine.
Na indica il «complemento oggetto» d'un'azione implicata, non espressa direttamente da un verbo; un «complemento oggetto indiretto», potremmo dire. In italiano questo significato è espresso perlopiù da di, ma non solo.
Thea es kreinta na dunya. | Dio è il creatore del mondo. [Dio creò (azione implicata, krei = 'creare') il mondo (c. o.)]
o kleptqq na jawharas | un ladro di gioielli [≈ il ladro ruba (azione implicata, klepti = 'rubare') i gioielli (c. o.)]
ayma da huma na meylitha | l'amore dell'uomo per la bellezza [≈ l'uomo ama (azione implicata, aymi = 'amare') la bellezza (c. o.)]
invada na Poloniya da Russiya | l'invasione della Polonia da parte della Russia
qq | qq qualcos'altro con un "agente"
Vediamo un esempio pratico in cui questa preposizione è utile. In Italia, quasi tutti conoscono la solennità dell'«Immacolata Concezione di Maria». Tuttavia, le persone poco pratiche dell'àmbito cattolico spesso fraintendono il significato, invertendolo: intendono che 'Maria concepisce senza macchia' anziché 'Maria è concepita senza macchia': Maria è l'oggetto, non il soggetto, della concezione. In leuto una confusione del genere è evitata dall'uso di parole diverse: la concezione da parte di Maria sarà da Maria, mentre la concezione in cui Maria è concepita sarà na Maria.
Niar significa 'vicino a':
qq hain niar o turra. | qq
qq | Siamo vicini alla meta.
Normalmente niar il fatto di essere vicino ma non direttamente a contatto, che è espresso piuttosto da ayn o sur.
qq differenza con cxe, ayn; naybar? vicin? qq nar, nyar, ner, near? niar
Os indica un elemento che appartiene al soggetto, all'azione o alla situazione, che li caratterizza.
In italiano questo significato è espresso solitamente con di, da, con:
o vara os virdo okulas | un uomo cogli occhi verdi
o artista os talenta | un'artista di talento
o rakissa os o multo amikas | una ragazza dai molti amici
qq | agire con disinvoltura
Come per ek, l'elemento caratterizzante o posseduto spesso è considerato “in generale” e quindi non richiede l’articolo; che comunque si può usare se la frase ha ugualmente senso.
In qualche caso può esserci una certa sovrapposizione fra os e kum. La differenza fra i due è che kum indica un rapporto più o meno "paritario" fra gli elementi che mette in relazione ('X è insieme a Y, X fa qualcosa insieme a Y'); mentre os indica piuttosto un rapporto di "subordinazione" logica o pratica ('X possiede Y, X è dotato di Y, X ha il carattere Y').
[qq Ma "si mise a confronto con Napoleone" non funziona qq ma però si se è al passivo, Napoleone fu messo... Cesare si confrontò con Alessandro Magno.] Un modo pratico per vedere la differenza fra i significati del con italiano è provare a rifare la frase con i vari elementi scambiati e vedere se ha ugualmente senso. Per esempio:
Discuto con Andrea. ↔ Andrea discute con me.
C'è un rapporto paritario: traduciamo con kum:
Me diskuten kum Andrea. ↔ Andrea diskuten kum me.
Invece:
Una donna coi capelli biondi entrò nel negozio. ↔ I capelli biondi con una donna entrarono nel negozio.
C'è un rapporto di subordinazione: traduciamo con os:
O mulya os qq dukkana.
Se un concetto è esprimibile sia con kum sia con os, si tratterà di scegliere la sfumatura che ci sembra più appropriata.
qq [un solo esempio, e rimandare alla sezione della matematica?]
qq cambiarlo questo? in iv? troppo tecnico?
qq | qq
qq | qq
qq | qq
Pos significa 'dopo (di)':
pos kawpi o ceresyas
dopo aver comprato delle ciliegie
pos tu
dopo di te
pos taa
dopodiché
Come prey (qq coll.), pos può assumere un valore spaziale, se si parla di elementi spaziali implicando un movimento:
Pos silva haen o urba.
Dopo la foresta c'è una città. [= Andando nella direzione implicata, s'incontra prima la foresta e poi la città.]
Preter si usa parlando di un movimento; indica il fatto di passare oltre qualcosa (che prima si ha davanti, e dopo è dietro) ma senza attraversarlo, quindi passandoci di fianco, passando all'esterno.
qq preter doma | qq oltre la casa
qq flewki preter nubas | volare oltre le nubi
qq | qq
Preter è simile a trans (qq vedi sotto), nell'indicare il moto da un parte all'altra rispetto a qualcosa nel mezzo; ma mentre trans va "dritto" e attraversa il qualcosa, preter lo schiva, ci gira intorno.
Prey significa 'prima di', in senso temporale:
prey tao nokta
prima di quella notte
prey ka tu forvadon
prima che tu vada via
Come pos, può assumere un valore spaziale, se si parla di elementi spaziali implicando un movimento:
Prey urba haen o silva.
Prima della città c'è una foresta. [ = Andando nella direzione implicata, s'incontra prima la foresta e poi la città.]
prey qq
Pri significa 'riguardo a', per indicare un argomento:
o libra pri ewropo arboras
un libro sugli alberi d'Europa
Kay qq loquin pri tu.
Parlavamo di te.
qq rel?
Sekun significa 'secondo l'opinione di':
Nu sekun leo patra tu qq.
Secondo suo padre qq.
Sekun me tu farin yusto sceya.
Per me hai fatto la cosa giusta.
In parecchi casi c'è una certa sovrapponibilità fra sekun e law. La differenza fra i due è che law indica una conformità perlopiù di carattere fisico, o a regole, indicazioni; mentre sekun indica semplicemente che qualcosa è così secondo l'opinione di qualcuno. Vediamo la differenza con un caso pratico:
Me qq law voso lega.
Ho agito male secondo la vostra legge.
[La mia azione malvagia è conforme alla vostra legge, non la vìola, la vostra legge accetta o addirittura prescrive che io mi comporti male.]
Me qq sekun voso lega.
Ho agito male secondo la vostra legge.
[La vostra legge considera la mia azione un male (ma magari, sottintendo, altri non la considerano così).]
Un caso in cui usiamo sia sekun sia law nella stessa frase:
Sekun christenas, Thea krein huma law seo imagxa.
Secondo i cristiani, Dio ha creato l'uomo a propria immagine.
Sen significa 'senza (di)'.
sen o ideas
senza idee
sen unko spera
senz'alcuna speranza
Me noe poten vivi sen tu!
Non posso vivere senza di te!
Simil significa 'simile a, similmente a'.
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq due 'sotto' diversi?
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq | qq
[qq vedi se cambiarlo]
Trans significa 'attraverso', per indicare un movimento da una parte all'altra di qualcosa, che attraversa il qualcosa posto nel mezzo (cioè che non ci gira intorno).
trans qq | attraverso il fiume
trans qq | attraverso la strada
Hannibala kum qq venin Italiyum trans Alpas. | Annibale col suo esercito venne in Italia attraverso le Alpi.
Trans non implica una direzione specifica, ma solo il fatto dell'attraversamento. Può quindi indicare indifferentemente un movimento 'da di qua a di là', 'dall'alto al basso', 'da destra a sinistra', eccetera.
qq be
Ulter significa 'oltre, di là da'.
qq | qq
u | qq
Kolumba qq o newo dunya ulter Atlantika. | Colombo scoprì un nuovo mondo oltre l'Atlantico.
Il suo contrario è cis.
qq | qq
qq | qq
qq | qq
qq Altre
istel [qualcosa con -or? pochi or], law, malgraw, pray (non mi suona bene), proxim, rel, sev??. reyr, ors, preter, dawr [ma anche spaziale?] la per 'a'? intray per 'dentro' (-ay suona meglio che -aw)? ultray, kontray, extray; ial per 'contenente'?
dentro a, di fianco a,
infra/ dall'esp., o usare cis?
qq in leuto è anche normale comporre (evitando le preposizione)
qq come in italiano, precedono sempre l'elemento che reggono
qq due in fila
is inter frattas venne di tra le fratte
Le preposizioni si legano spesso con le desinenze per formare parole composte, tra cui varie che hanno corrispondenti alquanto precisi e frequenti in italiano; per esempio:
posu | pos/u | dopo, successivamente
kume | kum/e | insieme
extero | exter/o | esterno
seno | sen/o | privo
similo | simil/o | simile
È frequente anche le combinazioni con altre radici:
ligneko | lign/ek/o | ligneo, fatto di legno
senitha | sen/ith/a | mancanza
talentoso | talent/os/o | talentoso
kosmatesko | kosmat/esk/o | cosmatesco
amikbee | amik/be/e | tramite amici
alpulteru | alp/ulter/u | oltralpe
[qq questo va bene per le cose statiche, ma per quelli di movimento, tipo trans o preter?]
Naturalmente, le preposizioni si possono legare anche alle desinenze verbali. Il significato dei verbi cosiffatti è ricavabile da una relazione di significato regolare (mentre ciò non è sempre vero per le radici della lingua in generale). Indicando con X e Y due radici qualsiasi che creano due sostantivi, e con PREP una preposizione qualsiasi, abbiamo che una frase del tipo
{X}a {PREP}en {Y}a.
esprime generalmente il significato di
{X}a essen {PREP} {Y}a.
Per esempio, dire
Silva cirkunen urba. | ... cirkun/en ...
corrisponde a
Silva essen cirkun urba.
La foresta è intorno alla città.
e quindi possiamo tradurre:
Silva cirkunen urba.
La foresta circonda la città.
I verbi cosiffatti sono naturalmente transitivi, ma si possono usare anche senza complemento oggetto, se questo è sottinteso o si sta esprimendo un fatto "assoluto". Usando la preposizione non composta, invece, non si potrebbe lasciare la frase in sospeso, senza un elemento di riferimento a completare:
Silva cirkunen.
La foresta circonda.
Silva essen cirkun.
*La foresta è intorno a.
mentre è del tutto corretto dire:
Silva essen cirkunu.
La foresta è intorno.
Molti dei verbi così composti sono abbastanza intuitivi per gl'italofoni:
ayli essere tendente (a), tendere (a)
ayni essere a contatto (con), contro
prii essere al riguardo (di), riguardare
osi essere dotato (di), provvisto (di), caratterizzato (da)
simili essere simile (a), assomigliare (a)
Un paio d'esempi:
Diskuta prien qq. | La discussione riguarda qq
Lio qq similin o qq. | Le sue parole erano simili a uno scherzo.
Altri verbi simili, nel loro valore transitivo, per gl'italofoni possono essere meno immediati, sonare un po' "strani"; ma sono strutturati in maniera identica:
dai essere opera (di), essere fatto (da)
dei essere proprietà (di), appartenere (a)
ebi essere causato (da), essere dovuto (a), aver origine (da)
isi essere proveniente (da), provenire (da), risalire (a)
Qualche esempio:
Kio skulpuyra daen Michaelangxela.
Questa scultura è opera di Michelangelo.
Sekun professora, obyekta iset Varsavya.
Secondo il professore, l'oggetto verrebbe da Varsavia.
Te dein me.
Appartenevano a me.
qq invece imi, ecc.
qq e se il verbo è già transitivo? due c. o. ? No, il c. o. diventa solo quello della prep.?? boooh
In leuto i sostantivi hanno tre casi grammaticali: nominativo, situativo, lativo. Al singolare:
huma | hum/a
l'uomo
humu | hum/u
nell'uomo, o presso l'uomo
humum | hum/um
all'uomo (moto a luogo, o complemento di termine)
Inserendo una preposizione come penultimo elemento della composizione (ultimo prima della desinenza), è possibile modificare e specializzare il significato. In un certo senso, esteriormente è un po' come se si creassero delle desinenze per dei «sottocasi» che individuano una sfumatura precisa o aggiungono un concetto al caso normale, modificandolo. Per esempio:
humniara | hum/niar/a
la vicinanza dell'uomo (= ciò che è vicino all'uomo), i dintorni dell'uomo
humniaru | hum/niar/u
vicino all'uomo (stato in luogo)
humniarum | hum/um
vicino all'uomo (moto a luogo, o complemento di termine)
Se ne possono anche aggiungere più d'una:
Costruzioni del genere, che possono essere poco intuitive per un italofono, vengono utili quando si vogliono mettere insieme vari concetti in modo sintetico, senza spiegarli estesamente.
Venendo da altre lingue —anche prive di casi— la cosa potrebbe apparire più semplice; per esempio, un anglofono potrebbe collegare facilmente -um all'inglese to, el all'inglese in, e quindi capire intuitivamente -elum (-/el/um) come un corrispondente dell'inglese into: humelum (hum/el/um) ≈ into the man.
Il leuto, lingua duttile, consente queste costruzioni con libertà, realizzando quasi —come da titolo della sezione— dei «sottocasi» su misura. In realtà, però, questa è solo un'impressione esteriore: entro i meccanismi della lingua, mettere in quella posizione delle preposizioni non è sostanzialmente diverso dal metterci qualsiasi altra radice.
[mettere prima, dopo?...]
cong.: [e, awt, vel, or, ut, sed>ma, [qui], nam?, si]
https://www.treccani.it/enciclopedia/congiunzioni_(La-grammatica-italiana)/ vedi l'esempio con infatti nella tabella
(non) appena; come apenaux nell'acc. II del PIV. appen andrebbe bene, ma -en no. appenaw all'esperanta? vedi spazio d'appoggio
Ma corrisponde al ma italiano, esclusi i significati che in italiano possono essere resi da bensì o sibbene, che in leuto sono espressi da sed (q. v.). Detto altrimenti: se il ma italiano è sostituibile da bensì, si traduce con sed; altrimenti si traduce con ma.
Per esempio, nella frase
Non sono cinesi ma coreani.
il ma si può sostituire con bensì:
Non sono cinesi bensì coreani.
quindi lo renderemo con sed:
Te noe es cxino sed koreo.
Non sono cinesi ma coreani.
Invece, nella frase
Mi piacciono le mele, ma le pesche di più.
non si può fare la stessa sostituzione:
*Mi piacciono le mele, bensì le pesche di più.
che non ha senso. Useremo quindi ma:
Me suken appelas, ma plue persikas.
Le mele mi piacciono, ma le pesche di più.
Qualche altro esempio con ma:
Heru me noe logrin veni, ma qq me qq venon.
Ieri non sono riuscito a venire, ma domenica verrò volentieri.
Parku hain o fasyanas e o pavonas, ma nullo cignas.
Nel parco c'erano fagiani e pavoni, ma nessun cigno.
sed per 'bensì'? suona bene alla fine... sp. sino, ted. sondern, isl. heldur?
negazione precedente, ma non sempre se c'è una negazione precedente ci va sed
Le interiezioni non hanno desinenze specifiche a individuarle: come preposizioni e congiunzioni, sono qqparzialmente riconoscibili "in negativo", in quanto (qqper la maggior parte) sprovviste delle desinenze regolari.
Le preposizioni e congiunzioni si usano sempre legate ad altri elementi linguistici, mentre le interiezioni sono entità autonome.
Delle interiezioni fanno parte le onomatopee, che riproducono nella scrittura, in modo più o meno preciso, suoni diversi dai normali suoni della lingua, come versi di animali, rumori di oggetti o macchine.
Qualche esempio:
qq qq
cxaw ciao
nyam gnam
myaw miao
okey occhei, va bene qq
In italiano (e altre lingue) un'interiezione (perlopiù onomatopeica) può essere ripetuta due o più volte (bau bau, gnam gnam, bla bla bla, ecc.), o si possono unire più interiezioni per formare un'unica sequenza di significato (tic tac, din don dan, ecc.). La stessa cosa può avvenire in leuto, e come in italiano l’accento primario della sequenza cade sull’ultimo elemento. Ci sono due scritture possibili:
scrittura staccata: si riportano le singole parole indipendentemente: nyam nyam, tikk takk qq, ha ha ha;
scrittura con trattino: nyam-nyam, tikk-takk, ha-ha-ha.
La scelta fra le due è sostanzialmente libera. Sarebbe invece erroneo scrivere queste sequenze semplicemente univerbate (*nyamnyam, *tikktakk, *hahaha), perché per le regole accentuali del leuto queste sarebbero da leggersi con l'accento sulla penultima vocale (*nyàmnyam; *hahàha) anziché sull'ultima (nyam-nyàm; ha-ha-hà): si creerebbe così un'incoerenza fra grafia e pronuncia.
Nel momento in cui queste interiezioni si compongono assumendo una desinenza (vedi sotto) il trattino non è più necessario e di norma si omette (qq fare un paragrafo generale a cui rimandare da qui e altrove):
namastè alleluia
quelle che violano la fonotassi, vedi grammatica
ron ron
qq trattamento grammaticale
Le interiezioni sono radici e si possono comporre regolarmente con le desinenze e gli altri elementi della lingua. In generale se sostantivate indicano il suono che riproducono, o l'espressione linguistica a cui corrispondono:
qq qq
qq qq
qq qq
Se rese verbi generalmente indicano l'azione di pronunciare queste interiezioni o emettere i suoni rappresentati dall'onomatopea:
Vuo kattas myawen lawte.
I suoi gatti miagolano rumorosamente.
qq e omnuyas qq.
Il prete recitò una preghiera e tutti dissero «amen».
Sono verbi transitivi il cui complemento oggetto è il ricevente dell'espressione, del suono emesso:
Me noe kenen li, ma li cxawen me omno deyus.
Non lo conosco, ma mi dice «ciao» tutti i giorni.
o della cosa che produce il suono: [qq??]
qq | qq
o del pensiero che si associa all'interiezione, anche senza che ci sia necessariamente un'espressione sonora:
Sao deyu me debin qq meo qq.
Quel giorno dovetti dire addio alla mia patria.
Estensivamente, qq okeyi
Di seguito diamo il riepilogo di tutte le desinenze grammaticali del leuto. Per esteso, in ordine quasi alfabetico:
/ ’ sostantivo, nominativo, singolare (con troncamento)
/a sostantivo, nominativo, singolare
/as sostantivo, nominativo, plurale
/e avverbio
/en verbo, indicativo, presente
/et verbo, condizionale, presente
/es verbo, imperativo, presente
/i verbo, infinito
/in verbo, indicativo, passato
/it verbo, condizionale, passato
/is verbo, imperativo, passato
/o aggettivo
/on verbo, indicativo, futuro
/ot verbo, condizionale, futuro
/os verbo, imperativo, futuro
/u sostantivo, situativo, singolare
/us sostantivo, situativo, plurale
/um sostantivo, lativo, singolare
/ur sostantivo, lativo, plurale
In leuto esistono tre radici con valore dimostrativo: ki/, sa/ e ta/.
Ki/ serve per indicare qualcosa di vicino a chi parla, come questo in italiano.
kia | ki/a | questa cosa, questo
kiuya | ki/uy/a | costui, questo (cosa specifica, persona)
kio | ki/o | questo (aggettivo)
kie | ki/e | in questo modo
kiu | ki/u | in questa circostanza
kiwandu | ki/wand/u | in questo momento, ora
kiyannu | ki/yann/u | quest'anno
La vicinanza al parlante può essere spaziale, temporale, o non strettamente spaziotemporale ma intesa similmente.
Sa/ serve per indicare qualcosa di lontano da chi parla, come quello in italiano.
saa | sa/a | quella cosa, quello
sauya | sa/uy/a | quella persona, quello (cosa specifica, persona)
sao | sa/o | quello (aggettivo)
sae | sa/e | in quel modo
saloku | sa/lok/u | in quel posto, laggiù
La lontananza dal parlante può essere spaziale, temporale, o non strettamente spaziotemporale ma intesa similmente.
Ta/ serve semplicemente per indicare, ma senza dare un'informazione di vicinanza o lontananza. In italiano tao sarà tradotto perlopiù con questo o quello a seconda dei casi.
taa | ta/a | ciò
tao | ta/o | questo, quello
tae | ta/e | così, in questo modo, in quel modo
tau qq , ci
Si usa spesso per richiamare qualcosa di già noto o già citato, di cui si sta parlando.
Taa es mue misteryo.
Ciò è assai misterioso.
Me haben o doma Tokyu, me vadon taum mayru.
Ho una casa a Tochio, andrò là domani.
Vista la somiglianza esteriore, tao non va confuso coll'italiano tale («Di questa o di quella sorta; che ha le qualità, le caratteristiche, la natura di cui si sta parlando o a cui si accenna in modo chiaro o sottinteso», Treccani), di significato prossimo ma che si dirà meglio con tagxenero (ta/gxener/o), taspecyo (ta/specy/o), tatipo (ta/tip/o), qq, o anche con ki- o sa- al posto di ta- secondo i casi. ecc. [qq ma mettere anche tal/ e qual/ come in ido?]
qq. qq | qq
qq | qq Il re di qq può contare sull'ingegno di qq. Un genio tale farebbe comodo anche alla nostra qq
qq | qq
qq non solo tai, perché non anche sai e kii?
Meno immediato per gl'italofoni, in leuto è del tutto regolare e comune anche il verbo tai 'fare questa/quella cosa' (intransitivo qq), che corrisponde abbastanza bene all'italiano farlo, esserlo.
«qq». «qq». | qq
qq | qq
«Kur tu noe diren leum klare a kea tu pensen?».
«Si me taot, le noe volot qq vidi me».
«Perché non le dici chiaramente quello che pensi?».
«Se lo facessi [= se le dicessi quello che penso], lei non vorrebbe più vedermi».
qq Su tai, vedi anche, più avanti, la sezione sulle risposte. qq
qq o mettere insieme con anche quelli relativi? mah
hiku
ibu
nunu
tunku per tawandu? (forse non serve, vedi altre lingue)
qq codesto
qq rinvio alle desinenze isolate
Per mettere in relazione elementi di proposizioni diverse (come si fa in italiano con il quale e simili), si usa la radice ke/.
kea la qual cosa, che
keo qq
kee qq nel qualqqcui modo come
keu in cui, presso cui, quando, dove (stato in luogo)
keum al quale, a cui, dove (moto a luogo)
Un paio d'esempi:
Me skribin lista de libras keas me volet legxi kiyannu.
Ho scritto la lista dei libri che vorrei leggere quest'anno.
Sao doma es uya keu me qqabitare dawr o yannas.
Quella lì è la casa dove ho abitato per anni. [Letteralmente: Quella casa è quella in cui...]
qq keo vs. kedeo per 'il cui'
Similmente all'italiano, normalmente l'elemento con ke/ si mette subito dopo l'elemento della proposizione principale a cui si riferisce (con in mezzo eventuali preposizioni, o elementi che costituiscono un inciso); può essere spostato se il senso complessivo della frase resta comunque chiaro. L'elemento con ke/ si mette all'inizio della proposizione subordinata (a parte, anche qui, eventuali elementi che devono precederlo necessariamente). La subordinata forma quindi una sorta d'innesto o di coda che si mette nella principale.
Musea kea me visitin essin mue grando.
Il museo che visitai era molto grande.
Urbu keu kay vivin(qqabitare) kay qq |
Nella città dove vivevamo qq
Vara pri kea me loquin es qq.
L'uomo di cui parlavo è laggiù.
Tao yurnu le rividin sayaskas keur le loquintin.
Quel giorno rivide i signori a cui aveva parlato.
qq significato diverso se con virgole o no
qq ma questo non è solo per la relazione, ma per la lingua in generale. trasferirlo in Sintassi della frase
In italiano a volte l'elemento della proposizione principale e quello della subordinata che stabilisce la relazione sono semanticamente sovrapposti in un'unica parola: Dimmi cosa preferisci = Dimmi ciò / che preferisci; Spiegò come aveva fatto = Spiegò il modo / in cui aveva fatto; Guàrdati da chi ti maltratta = Guàrdati da colui / che ti maltratta. Ciò succede in casi in cui l'identità "primaria" dell'elemento da solo è alquanto debole e indefinita («ciò», «colui», e simili), ed è in sostanza definita e concretizzata dalla subordinata.
checcaos, spiegò come = explikin loa kee li farin? o explikin moda kein li?
In leuto, la resa di queste espressioni ha lievi differenze a seconda dei casi.
Con gli elementi visti finora, in generale vengono spontanee costruzioni con ta- e ke-:
Dires meum taa kea tu preferes. | Dimmi cosa preferisci. [= ...ciò che...]
Come in altri casi,
con gli elementi visti finora la resa normale di questo caso una costruzione con ta- e ku-: qq il luogo/tempooo
Me eyron taum keu heru me vidin li. | Andrò dove l'ho visto ieri. [= ...nel luogo nel quale...] qq ma anche luogo!
Dires meum taa kea tu preferen. | Dimmi cosa preferisci. [= ...ciò che...]
Questa costruzione è del tutto regolare. A causa della frequenza di tali espressioni, però, esiste anche la possibilità d'una maggior densità, benché senza giungere a una "sovrapposizione" come in italiano.
Ciò che succede in leuto è che l'elemento reggente viene ridotto all'osso, cioè alla mera funzione grammaticale che ricopre nella frase principale: in pratica, alla sola desinenza. Uniche fra tutte le desinenze, le desinenze sostantivali possono essere usate isolatamente (a, as, u, us, um, ur) nella specifica situazione descritta, cioè quando l'identità della cosa è sostanzialmente definita da una subordinata legata con ke/.
Me eyron um keu heru me vidin li. | Andrò dove l'ho visto ieri. [= ...nel luogo nel quale...] qq ma anche tempo!
Dires meum a kea tu preferen. | Dimmi cosa preferisci. [= ...ciò che...]
Davi Cesarum as keas deen Cesara e Theum as keas deen Thea.
Come in altre cose, anche qui il leuto è spesso più preciso dell'italiano. Per esempio, la frase
Quest'incrocio è dove mi sono perso.
potrebbe significare sia
Quest'incrocio è il luogo nel quale mi sono perso. [= cioè, mi sono perso nell'incrocio, o a partire dall'incrocio]
sia
Quest'incrocio si trova nel luogo dove mi sono perso [= ma non è necessariamente in quel punto che mi sono perso; magari il 'luogo in cui mi sono perso' è un quartiere, nel quale si trova l'incrocio di cui parlo ora, ma quando mi sono perso l'incrocio non l'ho neanche visto]
In leuto i due significati saranno facilmente distinti:
Kio qq es a keu me qq. | Quest'incrocio è il luogo in cui mi sono perso.
Kio qq es u keu qq. | Quest'incrocio si trova nel luogo in cui mi sono perso.
Quando si tratta d'indicazioni spaziotemporali, bisogna fare attenzione. Una frase come
To evenin u keu heru me vidin li.
potrebbe indicare indifferentemente lo spazio o il tempo:
È successo dove l'ho visto ieri. [= ...nel luogo nel quale...]
È successo quando l'ho visto ieri. [= ...nel momento nel quale...]
o anche entrambe le cose contemporaneamente, o in generale la «circostanza» come altrimenti intesa. I significati possibili non si equivalgono e può esserci un'ambiguità comunicativa. Il contesto in molti casi sarà sufficiente a chiarire; se non lo fosse, basta precisare:
To evenin loku keu heru me vidin li.
È successo dove l'ho visto ieri.
[...nel luogo nel quale...]
To evenin wandu keu heru me vidin li.
È successo quando l'ho visto ieri.
[...nel momento nel quale...]
I quali, volendo, possono essere ulteriormente rafforzati:
...loku... > ...tao loku..., ...taloku...
...wandu... > ...tao wandu..., ...tawandu...
In italiano la sovrapposizione di funzioni grammaticali diverse entro una sola parola è frequente anche per le persone: Ama chi ti ama = Ama la persona / che ti ama; Chi estrarrà la spada dalla roccia sarà re d'Inghilterra = Colui / che estrarrà... sarà....
In leuto in questo caso non si ha la riduzione del primo elemento alla sola desinenza, perché ciò significherebbe parlare troppo in generale d'una 'cosa', mentre qui implichiamo che sia più specificamente una 'persona'. Lo facciamo intendere, allora, con uy/:
Aymes uya kea aymen tu. | Ama chi [la persona che] ti ama.
Uya kea qq qq is qq esson regxa de Angliya. | Chi [colui che] estrarrà la spada dalla roccia sarà re d'Inghilterra.
Naturalmente, di per sé anche uy/ è "ambiguo" e vago e si basa sul contesto; si può quindi anche essere espliciti, se ci fossero dubbi:
Aymes huma kea aymen tu. | Ama la persona che ti ama.
Vara kea qq qq is qq esson regxa de Angliya. | L'uomo che estrarrà la spada dalla roccia sarà re d'Inghilterra.
Vediamo qualche altro esempio qq
Kio loka es a keu me qq. | Questo posto è dove mi sono perso la settimana scorsa. [= Questo posto è ciò in cui mi sono perso...]
To es a kea me volin. | È ciò che volevo.
To evenin u pri kea qqhwi loquin. | È andato dovequando??qq
Ciò succede solo in questo caso: non
qq Invece Andrò con chi mi vuole non qq uya
invece aggettivi e avverbi
spiegò come era successo = explikin a kee to evenin?...
ho visto ciò che hanno fatto = me vidin taa kein te??? urca... ma perché no? come tai, kei
qq vediamo prima i significati di ciascuna radice, e poi alcuni caratteri generali
Con la radice alk/ s'indica qualcosa d'indeterminato, indefinito:
alka | alk/a | qualcosa
alko | alk/o | qualche
alke | alk/e | in qualche modo
alkuya | alk/uy/a | qualcuno
alkwandus | alk/wand/us | in qualche momento
In modo un po' eccezionale, con alk/ normalmente non si usa l'articolo indeterminativo, o, perché l'indeterminatezza è considerata implicita nella radice. Grammaticalmente, così, con alk/ le categorie di determinazione e indeterminazione date dalla presenza o assenza dell'articolo risultano sfumate, confuse:
Nu tu viden ∅ alka?
Vedi [una] qualche cosa?
Me loquin kum ∅ alkuya kea kenen tu.
Ho parlato con [un] qualcuno che ti conosce.
Se però —caso non frequente— qualcosa con alk/ vuole essere reso determinato in modo chiaro, marcato, si può simulare un «articolo determinativo» usando tao (che sarà tradotto solitamente con quello, questo, meno comunemente con il):
Alka qq domum tanoktu. Tao alka noe habin o humo forma.
Qualcosa [un qualcosa, indeterminato] entrò nella casa quella notte. Quel qualcosa [il qualcosa, determinato] non aveva forma umana.
«Alkuya essin hiku.»
«Tao alkuya essin meo qq.»
«Qualcuno [un qualcuno, indeterminato] è stato qui.»
«Quel qualcuno [il qualcuno, determinato] era mio marito.»
In italiano qualche si usa anche per indicare un numero indefinito, solitamente piccolo ma senza marcare l'elemento di pochezza (espresso appunto da poco, pochi). Questo significato in leuto non è espresso da alk/ (che di per sé non dà informazioni di tipo quantitativo o numerico) bensì da qq
qq il sign. di certen- in ido
Con omn/ si indica ogni occorrenza di qualcosa:
omna | omn/a | ogni cosa
omnas | omn/as | tutte le cose
omno | omn/o | ogni, tutti
omnuya | omn/uy/a | ognuno
omnwandu | omn/wand/u | in ogni momento
Omn/ non va confuso con hol/. Entrambi indicano il concetto di «tutto», ma in aspetti diversi. Mentre omn/ indica una totalità definita da tutti gli elementi di quel tipo, hol/ indica la totalità di quell'elemento in sé, in ogni sua parte; in italiano spesso si rende con «intero». La differenza è piuttosto intuitiva nella pratica; vediamo qualche esempio:
Le explorin omno urba.
Esplorò ogni città.
Le explorin holo urba.
Esplorò tutta la città. [...la città intera.]
Me legxin omno libra.
Ho letto ogni libro.
Me legxin holo libra.
Ho letto tutto il libro.
Al plurale:
omno urbas
tutte le città (= ogni città; nessuna città esclusa)
holo urbas
tutte le città (= le città intere; le città di cui parliamo, in ogni loro parte; nessuna parte delle città di cui parliamo è esclusa)
Un'altra radice di significato vicino è total/, che traduce 'totale', perlopiù in àmbiti tecnici (ma non solo):
totalo eklipsa
eclissi totale
totaltheatra
teatro totale
Si può notare un'equivalenza approssimativa:
totalo destrua na qq ≈ destrua na holo qq
distruzione totale della fortezza ≈ distruzione di tutta la fortezza
totalo fahama na textwa ≈ fahama na holo textwa
comprensione totale del testo ≈ comprensione di tutto il testo
Null/ indica una negazione, un'assenza universale:
nulla | null/a | niente, nulla, nessuna cosa
nullo | null/o | nessuno (agg.)
nulluya | null/uy/a | nessuno (sost.)
nullwandu | null/wand/u | in nessun momento, (non) mai
nulloloku | null/o/lok/u | in nessun posto
Come per alk/, anche per null/ normalmente non si usa l'articolo indeterminativo o, e le categorie di determinazione-indeterminazione date dall'articolo risultano quindi sfumate.
Come scritto più su, in leuto ogni negazione ha valore effettivo, quindi non esiste la «doppia negazione» come in italiano. Una frase come
Me noe fahamin nulla.
vale letteralmente «Io [me] non [noe] ho capito [fahamin] nulla [nulla]», ma significa in realtà 'Io ho capito qualcosa', perché le due negazioni (noe, nulla) non si rafforzano ma si annullano: se l'oggetto della mia comprensione non è «nessuna cosa», allora significa che è «qualche cosa». Proviamo a vedere un esempio:
«Tu fahamin nulla!»
«Me noe fahamin nulla.»
[tradotto letteralmente, parola per parola:]
«Hai capito niente!»
«Non ho capito niente.»
[tradotto più italianamente:]
«Non hai capito niente!»
«Non niente, qualcosa ho capito.»
Quindi pressappoco:
Me noe fahamin nulla. ≈ Me fahamin alka.
Per esprimere un'universalità nelle frasi con noe, non usandosi null/ che produrrebbe un'inversione e quindi un'affermazione positiva, il leuto usa una radice apposita, unk/, che vediamo di seguito.
Unk/ indica un'indeterminatezza marcata e universale:
unka | unk/a | qualunque cosa
unko | unk/o | qualunque, qualsiasi
unke | unk/e | comunque
unkuya | unk/uy/a | chiunque
unkloku | unk/lok/u | ovunque
Anche per unk/, come per alk/ e null/, normalmente non si usa l'articolo indeterminativo, sfumando determinazione e indeterminazione.
Un paio d'esempi:
Unke to vadon, kitaw provin maxime.
Comunque vada, ci abbiamo provato al massimo.
Me venon unklokum keu tu esson.
Verrò dovunque tu sarai.
Unk/ si usa particolarmente in coordinazione con noe per esprimere una negazione universale. Letteralmente, nelle frasi di questa forma significa 'alcuno', 'alcunché'; ma in italiano —fuori da un registro sostenuto-letterario— le tradurremo più idiomaticamente con la doppia negazione di cui parlavamo nel paragrafo precedente.
Me noe dirin unka.
[letteralmente] Non ho detto alcunché.
[più normalmente] Non ho detto niente.
Me noe vidin unko mulya.
[letteralmente] Non ho visto alcuna donna.
[più normalmente] Non ho visto nessuna donna.
Quindi pressappoco:
Me noe fahamin unka. ≈ Me ∅ fahamin nulla.
Non ho capito niente.
Vediamo la differenza con omn/ in una frase negativa:
Me noe volen omno tao sceyas.
Non voglio tutte quelle cose. [Non le voglio tutte, ma forse ne voglio qualcuna.]
Me noe volen unko tao sceyas.
Non voglio nessuna di quelle cose.
nulla bono / bono nulla
Per certe domande la risposta può essere un semplice sì o no: per esempio Secondo te verranno?; Hai visto le mie chiavi?; Andiamo al cinema oggi?. Si può rispondere anche in altri modi, a seconda dei casi (Forse; Non saprei; Ci devo pensare; ecc.), ma la risposta con sì o no resta grammaticalmente sensata. Queste domande si dicono «polari» (i «poli» essendo sì e no).
Il modo normale e neutro di porre una domanda polare in leuto è introdurla con la particella nu:
Nu tu suken arangxas?
Ti piacciono le arance?
Nu tu logrot veni qqmardu?
Riusciresti a venire martedì?
Nu Thoma es hiku?
Tommaso è qui?
Nu pluven?
Sta piovendo?
Ponendo una domanda senza particelle, il tono non è neutro come con nu, bensì assume una tinta d'esclamazione, sorpresa, incredulità. Confrontiamo i due casi seguenti:
Nu qq loquen italesa?
Parla italiano?
[Viaggiando all'estero, chiedendo a qualcuno se conosce l'italiano.]
Tu loquen koreesa?
Parli coreano?
[Con sorpresa, incredulità, sentendo un amico che di colpo si mette a parlare in coreano; non avevamo la minima idea che lo conoscesse.]
Quando l'intonazione è particolarmente esclamativa, la frase si può chiudere con ?! o !?, come in italiano:
Haen o leona gardinu?!
C'è un leone in giardino?!
Tuo qq o qq?!
Tuo nonno possiede un castello?!
La particella ne si mette alla fine d'una frase per trasformarla in una domanda, dalla quale ci si aspetta una risposta positiva. Solitamente ne è preceduto da una breve pausa, una virgola. Nella stessa posizione, in italiano si usano con funzione simile «no?», «giusto?», «vero?», «eh?».
Kitaw kenen li, ne?
Lo conosciamo, no?
Vos essin cxe laka taascamu, ne?
Eravate al lago quella sera, giusto?
Tu qq ambo piccas, ne?
Ti sei pappato entrambe le pizze, eh?
Tra la frase e ne si può anche inserire una pausa più marcata:
QQ Tu noe habon o problemas el qqpassi examina, qq eb ka tu studin tawante. Ne?
Non avrai problemi a passare l'esame, visto che hai studiato tanto. O sbaglio?
Una domanda con ne può essere espressa con tono marcato (per rabbia, fastidio, fretta, ecc.); anche qui si può marcare con ?! o !?:
Tu awdin a kea me dirin, ne?!
Hai sentito cos'ho detto, no?!
Altre domande non chiedono in risposta un sì o un no, bensì chiedono di descrivere o rivelare l'identità d'un elemento, che può essere un luogo, una persona, una qualità, eccetera: Chi è stato?; Che cosa ne pensi?; Dove ti trovi?. Queste domande sono diverse delle domande polari perché sì e no non sono (solitamente) risposte sensate.
In leuto le domande di questo tipo si pongono principalmente con la radice ku/. Ku/ significa 'quale...?' e si lega alle desinenze (o anche ad altre radici) per individuare l'elemento che vogliamo conoscere:
kua che cosa...?
kuuya chi...? / quale...? [come pronome]
kuo quale...? [come aggettivo]
kue come...?
kuu in che circostanza...?
kui che fare...?
Kuuya (ku/uy/a) si usa quando vogliamo conoscere l'identità d'una persona, o di qualcos'altro la cui natura è già nota (sottintesa in uy/); si usa invece kua quando la cosa da conoscere sia del tutto ignota, o comunque lo sia ai fini del nostro discorso:
Kuuya loquin?
Chi ha parlato? [≈ Quale persona...]
Haen o arangxa e o banana, kuuya tu volet?
Ci sono un'arancia e una banana, quale vorresti? [≈ Quale frutto...]
Kua evenin?
Che cos'è successo?
Solitamente, l'elemento con ku/ si mette all'inizio della frase, a meno che ci siano altri elementi che devono precederlo necessariamente, come le preposizioni o intere proposizioni precedenti:
Kua tu vidin?
Che cosa hai visto?
Kuo gxawharas te kleptin?
Quali gioielli hanno rubato?
Pri kuo libras vos loquin?
Di quali libri parlavate?
Kum kuuya li vadin?
Con chi è andato?
qq (ma anche bla bla)
Parleremo dell'ordine delle parole più ampiamente in qq.
Si noti che, in modo un po' strano per un italofono ma del tutto normale in leuto, ku/ può unirsi anche alle desinenze verbali. In tal caso, equivale più o meno all'italiano che fare?.
Kuen tu?
Che fai?
Kui tu suken?
Che cosa ti piace fare? [Letteralmente «Fare-che-cosa tu gradisci?»]
Kuit vos tao sitwacyonu?
Che cos'avreste fatto in quella situazione?
Ma kuon kay?
Ma noi che faremo?
Kues me?
Che devo fare?
Con alcuni elementi frequenti il leuto tende a univerbare, unendo ku/ con altre radici in una parola sola; come per kuuya, ku/uy/a, visto sopra.
Kuwanto (ku/want/o) significa 'quanto...?' in funzione aggettivale. In leuto gli aggettivi non distinguono singolare e plurale: quindi kuwanto traduce sia 'quanto' sia 'quanti':
Kuwanto es inimiko soldatas?
Quanti sono i soldati nemici?
Kuwanto tempa qq por qq?
Quanto tempo vi servirà per raggiungerci?
Want/ indica la 'quantità'. Quindi kuwanto qq
Kuwante (ku/want/e) significa invece 'quanto...?' in funzione avverbiale:
Kuwante tu aymen li?
Quanto lo ami?
Kuwante tallo es sao qq?
Quanto è alto quel grattacielo?
Kuwandu significa 'quando...?'. [Wanda è un 'momento' di tempo. qq l'avremo già detto prima]
Kuwandu qq? | Quando qq
Kuwandu qq? | Quando qq?
Si può usare il singolare, kuwandu (letteralmente «in che momento?»), o il plurale, kuwandus (letteralmente «in che momenti?») per mettere l'accento su un singolo momento oppure su una pluralità.
Kuloku significa 'dove...?'. Anche qui si usa singolare e plurale, e si distinguono situativo e lativo, a seconda che s'implichi uno stato in luogo o un moto a luogo:
Kuloku tu vidin te?
Dove li hai visti? [In che luogo...?]
Kulokus qq el dunya?
Dove sono gli alberghi più famosi del mondo? [In che luoghi...?]
Kulokum tu qqon?
Dove andrai? [A quale luogo...?]
Kulokur qq?
Dove qq? [A quali luoghi...?]
Con gli elementi che abbiamo visto si può porre più o meno qualsiasi domanda. Esistono tuttavia degli altri elementi, che hanno valore di sinonimo, e che permettono di porre certe domande frequenti in modo più veloce:
Un'altra particella frequente è kur, il perché interrogativo; mentre il perché per rispondere è qui. Come perché in italiano, kur e qui possono avere indifferentemente valore causale o finale.
Kur vos essen hiku?
Perché siete qui?
«Kur tu tain?»
«Qui me pensin ka to essin yusto sceya!»
«Perché l'hai fatto?»
«Perché pensavo che fosse la cosa giusta!»
Qui si può usare anche all'interno di frase, senza relazione con una precedente domanda:
Me decidin redwi qui me kenin ka so necessinqq me.
Ho deciso di tornare perché sapevo che c'era bisogno di me.
Me kawpin to qui to me sukin.
L'ho comprato perché mi piaceva.
l'imperativo nelle domande
casi notevoli: nu qui
«Nu tu kenen loa kur me essen hiku?» «Nu qui tu volin vidi me?»
Gli aggettivi numerali cardinali si esprimono a partire da una radice o più radici che indicano il numero, in unione con la terminazione degli aggettivi. Funzionano a tutti gli effetti come qualsiasi altro aggettivo. Sotto il milione, tutti i numeri naturali si costruiscono a partire dai seguenti:
zer/o zero zero
un/o uno uno
du/o duo due
tri/o trio tre
quar/o quaro quattro
quin/o quino cinque
ses/o seso sei
sep/o sepo sette
ok/o oko otto
non/o nono nove
dek/o deko dieci
hek/o heko cento
kil/o kilo mille
Gli altri numeri sotto il milione si formano componendo le radici (un/, du/, tri/, ecc.) in un'unica parola, usando dek/, hek/ e kil/ come fattori moltiplicativi, e poi unendo il tutto in una somma partendo dagli elementi più grandi: praticamente come funziona in italiano. Per esempio, se dobbiamo dire ‘35.461’, sarà una sorta di «tre-dieci-cinque-mille-quattro-cento-sei-dieci-uno», simile al nostro «trenta-cinque-mila-quattro-cento-sessant[a]-uno». Qualche esempio:
11 dek/un/o dekuno
12 dek/du/o dekduo
17 dek/sep/o deksepo
20 dek/du/o dudeko
21 du/dek/un/o dudekuno
107 hek/sep/o heksepo
700 sep/hek/o sepheko
3125 tri/kil/hek/du/dek/quin/o
trikilhekdudekquino
Se il fattore moltiplicativo è 1 si omette, come in italiano: per esempio, 2100 = dukilheko (2 × 1000 + [1 ×] 100), non *dukilunheko (2 × 1000 + 1 × 100).
L'italofono deve fare attenzione all’uso dell’articolo, ricordando che in leuto l’assenza dell’articolo o indica la determinatezza, mentre coi numeri in italiano l’assenza dell’articolo (determinativo) indica al contrario l’indeterminatezza. Si confrontino le frasi seguenti:
Hain o trio sayaskas.
C'erano ∅ tre signori.
Hain ∅ trio sayaskas.
C'erano i tre signori.
amikitha de o duo humas
l'amicizia tra ∅ due persone
paca inter ∅ duo Koreas
la pace fra le due Coree
L’articolo va usato anche davanti a uno. Tuttavia, se abbiamo un solo oggetto, in tal caso uno spesso si omette, e si usa solo o; si usa o uno con valore rafforzativo, se vogliamo mettere l’accento sul numero, ‘esattamente uno, né più né meno che uno’. Per un italofono, per ricordarsi di mettere l’articolo, può essere utile pensare al leuto uno non col significato di ‘uno’ (che in italiano non vuole l’articolo) ma di ‘unico, singolo, solo’ (che lo vogliono in italiano come in leuto).
Me vidin o kana.
Ho visto un cane.
[Numero non marcato.]
«QQ vu heru vidin o kanas.»
«O kana. O uno kana.»
«Quindi lei ieri ha visto dei cani».
«Un cane. Un solo cane».
[Si vuole mettere l'accento sul numero: «ho visto un cane... uno e non di più».]
Roma noe faretin o uno deyu.
Roma non fu fatta in un giorno.
Si veda poi il paragrafo su come rendere solo e simili in leuto.
[QQ si potrebbe rifare tutto il sistema usando direttamente kil/ come elemento che si eleva... quarokilo = 4000; quarkilo = 1000^4. Così si evita il "non uso" dei fattori dell'altro sistema e si fa qualcosa di più maneggevole di questo. Ma meno naturalistico.... idee: aggiungere o prima di im/; aggiungere il «per» sottinteso; mettere l'elemento per cui dividere prima: numero-im-numero-cosa]
Per fare i numeri da un milione in su, con un sistema funzionante fino a 10⁶.⁰⁰⁰.⁰⁰⁰ – 1, si aggiunge a quelle già viste la radice lyon/, che indica un milione e le sue potenze. Quando lyon/ è immediatamente preceduto da una o più altre radici numeriche, queste indicano la potenza a cui bisogna elevare un milione. Per esempio, da du/ a quar/:
du/lyon/o dulyono
1.000.000² = 1.000.000.000.000 = 10¹² = un bilione
tri/lyon/o trilyono
1.000.000³ = 1.000.000.000.000.000.000 = 10¹⁸ = un trilione
quar/lyon/o quarlyono
1.000.000⁴ = 1.000.000.000.000.000.000.000.000 = 10²⁴ = un quadrilione
Sinteticamente, n-lyono = 1.000.000n = 106 × n.
Quando il milione va elevato alla prima potenza, la radice un/ solitamente si sottintende; avremmo
un/lyon/o unlyono
1.000.000¹ = 1.000.000 = 10⁶ = un milione
ma normalmente si dirà solo lyono '(un) milione'.
Grammaticalmente, è del tutto lecito avere anche lo «zerilione», zerlyono (zer/lyon/o, 1.000.000⁰ = 1), ma s'userà solo in contesti umoristici o matematici.
Mettendo più radici numeriche contigue davanti a lyon/, esse definiscono insieme il numero a cui elevare a potenza, secondo le regole che abbiamo visto sopra. In questo caso naturalmente l'eventuale un/ sùbito davanti a lyon/ non si può sottintendere. Qualche esempio:
dek/sep/lyon/o dekseplyono
1.000.000¹⁷
du/dek/lyon/o dudeklyono
1.000.000²⁰
du/dek/un/lyon/o dudekunlyono
1.000.000²¹
quar/hek/kil/lyon/o quarhekkillyono
1.000.000⁴⁰⁰.⁰⁰⁰
Per moltiplicare questi numeri ottenuti con lyon/, l'altro fattore, da 2 a 999.999, si mette prima, e fra i due s'inserisce la terminazione aggettivale /o. Non inserendola, il numero prima di lyon/ è inteso come quello a cui elevare a potenza: non bisogna dimenticarla perché si otterrebbero numeri ovviamente (ed enormemente) diversi. Vediamo la differenza con un esempio:
tri/dek/du/lyon/o tridekdulyono
1.000.000³²
tri/dek/o/du/lyon/o tridekodulyono
30 × 1.000.000²
tri/o/dek/du/lyon/o triodekdulyono
3 × 1.000.000²⁰
Dei miliardi, biliardi, triliardi e altri -ardi italiani si parla come di «migliaia di milioni», «di bilioni» e così via (che è più o meno proprio come sono nati i termini in -ardo). Quindi, per esempio, il numero 2.200.000.000 è espresso come «duemiladuecento milioni» (dukilduhekolyono, 2200 × 1.000.000) e non «due miliardi e duecento milioni». Un miliardo è un kilolyono.
Per contare degli elementi, i numeri ottenuti con lyon/, diversamente dai corrispondenti in italiano, nell'uso normale si trattano come i numeri sotto il milione, quindi come semplici aggettivi:
Me viden o trio stellas.
Vedo tre stelle.
Me viden o lyono ∅ stellas.
Vedo un milione di stelle.
Me viden o sepkilolyono ∅ stellas.
Vedo sette miliardi di stelle.
I numeri con lyon/ si sommano ai numeri più piccoli più o meno con le stesse regole:
lyon/du/o lyonduo
1.000.002 = un milione e due
sep/dek/un/lyon/sep/hek/o sepdekkillyonsepheko
71.000.700 = settantun milioni e settecento
Se bisogna sommare più potenze di lyon/, dopo i lyon/ non si mette la o/ (salvo che il lyon/ sia l'ultima radice prima della desinenza, ovviamente): s'intende che il fattore moltiplicativo dei lyon/ successivi al primo parte dalla radice numerica dopo il lyon/ precedente:
hek/tri/o/du/lyon/quar/hek/du/kil/o/lyon/o
hektriodulyonquarhekdukilolyono
103 × 1.000.000² + 402.000 × 1.000.000 =
103.402.000.000.000
Quindi, la massima potenza di lyon/ definibile con gli elementi visti finora è:
non/hek/non/dek/non/kil/non/hek/non/dek/non/lyon/o
nonheknondeknonkilnonheknondeknonlyono
1.000.000⁹⁹⁹.⁹⁹⁹ = (10⁶)⁹⁹⁹.⁹⁹⁹ = 10⁶ × ⁹⁹⁹.⁹⁹⁹ = 10⁵.⁹⁹⁹.⁹⁹⁴
Per potenze più grandi, si userà il sistema definito più avanti. [qq inserire coll]
Il numero più grande scrivibile con questo sistema è 10⁶.⁰⁰⁰.⁰⁰⁰ – 1, cioè 999.999.999[...]999.999, una serie di sei milioni di «9».
qq trattini per la lettura?
qq numeri lunghi, lettura cifra per cifra
Gli aggettivi numerali ordinali si costruiscono come quelli cardinali, solo con l'aggiunta di -eth-, che corrisponde al nostro -esimo:
unetho | un/eth/o | primo
duetho | du/eth/o | secondo
deketho | dek/eth/o | decimo
deksepetho | dek/sep/eth/o | diciassettesimo
lyonetho | lyon/eth/o | milionesimo
lyonunetho | lyon/un/eth/o | milionesismoprimo
seskilolyonetho | ses/kil/o/lyon/eth/o | seimiliardesimo
Da solo, eth è una preposizione, come abbiamo visto sopra.
La radice numerica può essere scritta in cifre, soprattutto in contesti informali o tecnico-scientifici, o se il numero è grande e sarebbe ingombrante scriverlo per esteso in lettere:
17etho 17esimo
946ethuyas i 946esimi
qq sovrani, papi, patriarchi e figure analoghe / secoli: numeri romani? vedi filza
qq separatore decimale, virgola; per le migliaia, spazio, punto alto, punto
In matematica e altri usi particolari, -eth- può legarsi anche ad altre radici, non numeriche:
qq x-etho qq serya?
Quanto vale l'x-esimo numero della serie?
qq.
Va bene, allora farò un ennesimo tentativo.
Per domandare in che posizione si trova qualcosa o qualcuno, si può usare kuetho (ku/eth/o):
qq vedi la filza
qq casino. come distinguere prefissi moltiplicativi davanti a lyom con fattori, ecc. ? bel guaio
usare im come parola a sé stante...
ma per i prefissi? vedi sotto la sezione dei prefissi scientifici
dektriodulyonim- = (dektriodulyon)im- o dektrio(dulyonim)-?
1/13.000.000 vs. 13/1.000.000
arrrrgh, come facciamo?
i? in/?
ci sono poi i sinonimi scientifici
megaia lyonina megaina teraia pettaia quettaia
triina quarina quinina sesina
triia quaria quinia
trilyonia qq
Le radici numeriche possono legarsi a elementi non numerici, come fossero prefissi moltiplicativi:
quinyanna | quin/yann/a | quinquennio, lustro
dekyanna | dek/yann/a | decennio
hekyanna | hek/yann/a | secolo
duqq | du/qq/o | bipartitico
trisillabo | tri/sillab/o | trisillabico
dekquindeyo | dek/quin/dey/o | quindicinale
Il leuto è più preciso dell'italiano, perché in italiano, in modo alquanto confusionario —ci sarebbe da fare ordine...—, gli stessi prefissi possono avere valore sia moltiplicativo sia divisivo:
bimensile che ricorre due volte al mese
biennale che ricorre ogni due anni
In leuto quest'ambiguità non c'è, usandosi il numero con valore sempre moltiplicativo, e aggiungendo im/ per renderlo divisivo:
dumeso relativo a due mesi
duimmeso relativo a mezzo mese
duyanno relativo a due anni
duimyanno relativo a mezzo anno
Per il linguaggio scientifico, il leuto adotta i prefissi moltiplicativi del sistema internazionale delle unità di misura. In leuto sono radici che funzionano come sinonimi di gruppi di radici che abbiamo già visto.
10³⁰ quetta/ ≈ quin/lyon/
10²⁷ ronna/ ≈ kil/o/quar/lyon/
10²⁴ yotta/ ≈ quar/lyon/
10²¹ zetta/ ≈ kil/o/tri/lyon/
10¹⁸ exa/ ≈ tri/lyon/
10¹⁵ peta/ ≈ kil/o/du/lyon/
10¹² tera/ ≈ du/lyon/
10⁹ gxiga/ ≈ kil/o/lyon/
10⁶ mega/ ≈ lyon/
10³ kil/
10² hek/
10¹ dek/
10⁰ [un/]
10–¹ deci/ ≈ dek/im/
10–² centi/ ≈ hek/im/
10–³ milli/ ≈ kil/im/
10–⁶ mikro/ ≈ lyon/im/
10–⁹ nano/ ≈ kil/o/lyon/im/
10–¹² piko/ ≈ du/lyon/im/
10–¹⁵ femto/ ≈ kil/o/du/lyon/im
10–¹⁸ atto/ ≈ tri/lyon/im/
10–²¹ zepto/ ≈ kil/o/tri/lyon/im/
10–²⁴ yokto/ ≈ quar/lyon/im/
10–²⁷ ronto/ ≈ kil/o/quar/lyon/im/
10–³⁰ quekto/ ≈ quin/lyon/im/
Si possono usare anche uniti direttamente alle desinenze qq
o terao atomas
un miliardo di atomi
qq.
plus im
qq pi greco, googol, googolplex, megistone, numero di Nepero
Il comparativo di maggioranza si esprime con plu/... kam. Plu/ precede l'elemento relativamente al quale paragoniamo i due termini, mentre kam precede il secondo termine di paragone:
Luka es plue tallo kam Andrea.
Luca è più alto d'Andrea.
Kio tomatas es plue rubo kam sauyas.
Questi pomodori sono più rossi di quelli.
qq? Quando il più in italiano significa 'in numero maggiore', in leuto si rende con pluo:??
qq pluo? ho visto più cani che gatti? ha scritto più poesie che racconti?
skribin o pluo poemas kam o quentas
Venecwela es plue naro la Usonya kam la Mexika.
me plue qqguardo filmas kam legxen libras
me suken plue le kam li
ha più muscoli che cervello
Il secondo termine di paragone può essere omesso, se s'intende comunque dal contesto:
Me suken plue koreesa.
Mi piace più il coreano. [...più che un'altra lingua (o materia di studio) di cui si sta parlando.]
Meo qq es plue tallo.
Il mio ragazzo è più alto. [...più alto di qualcun altro (o qualcos'altro) di cui si sta parlando.]
qq o anche plue taen direttamente; o es plue, plue es? [quando riprendendo la frase direttamente, «il tuo panfilo è grande, ma il mio è più grande] qq
Il comparativo di minoranza si esprime con men/... kam. Si costruisce e funziona esattamente come il comparativo di maggioranza che abbiamo visto nel paragrafo precedente.
qq. | qq
Me viden le mene kam (loaqq?) ke(ant)eqq me volet. | La vedo meno di quanto vorrei.
qq. | qq
qq min?
minor/, mayor/
QQ Il comparativo d'uguaglianza si esprime con ta/want/... ke/want/...:
Luka es tawante tallo kewante Andrea.
Luca è tanto alto quanto Andrea.
Me suken tawante skii kewante nati.
Mi piace (tanto) sciare quanto nuotare.
Tu habon o tawanto libras o kewanto uyas tu desiren.
Avrai tanti libri quanti ne desideri [qq quest'uso dell'articolo e la frase nel complesso, mah. Perché comunque il secondo termine di paragone è abbastanza definito, no?]
qq o tawanto sala o kewanto sakchara.
Se la frase è comunque pragmaticamente comprensibile, si può omettere tawante, tawanto:
Luka es ∅ tallo kewante Andrea.
Luca è ∅ alto quanto Andrea.
Me suken ∅ skii kewante nati.
Mi piace ∅ sciare quanto nuotare.
omettere il secondo elemento
omettere l'ANT/, ma minore precisione
qq [trasferire questa roba al comp. di maggioranza?? oppure fare il contrario... ma il comp. d'uguaglianza è un po' diverso dagli altri due]
Il secondo termine di paragone può essere omesso, se è chiaro dal contesto, o se la frase risulta comunque sensata:
Tuo yachta es grando, ma meuya es plue grando. | Il tuo panfilo è grande, ma il mio è più grande [del tuo].
qq o anche plue taen direttamente; o es plue, plue es?
quando la comparazione è direttamente attributo qq senza verbo, l'aggettivo di solito segue, in coerenza con quanto detto sopra qq; ma visto che la costruzione è generalmente alquanto chiara comunque, è anche possibile qq che stia prima
invece kam non può mai seguire il secondo termine di par.
Si parla di superlativo assoluto quando si spinge all'estremo il valore dell'aggettivo o dell'avverbio, ma senza fare una comparazione con altri elementi.
In leuto, ciò si esprime solitamente inserendo prima della desinenza la radice eg/, che corrisponde all'-issimo italiano:
qq meylego. | mey/leg/o
Il cielo stellato è sempre bellissimo.
Kio spagettas es bonego! | bon/eg/o
Questi spaghetti sono buonissimi!
Sao qq malege. | mal/eg/e
Quel bambino si comporta malissimo.
La radice eg/ si può usare anche in parole che non sono aggettivi o avverbi, con lo stesso valore. In quel caso in italiano non lo tradurremo letteralmente con -issimo (salvo in un linguaggio volutamente colloquiale), usando piuttosto molto, moltissimo, un sacco, stra-, o termini con funzione di sinonimo "potenziato" (mi piace Tolkien > adoro Tolkien), eccetera, a seconda del contesto.
Me sukegen koreo qqaskas.
Mi piacciono moltissimo i cantanti coreani.
Li qqin meum holo qqu, ma wandu keu me qq li qqegin me.
Mi ha sorriso tutta mattina, ma quando gli ho fatto cadere il martello sul piede mi ha stramaledetto.
Hodyu me qqin qq nulla, me qq.
Oggi non ho mangiato quasi niente, ho famissima.
Un secondo modo per esprimere il superlativo è l'uso della radice mu/, che spesso è usata nella forma avverbiale mue, equivalente all'italiano molto:
Me mue sukin qq. | Lo spettacolo m'è piaciuto molto.
Dwara de dukkana essin mue tallo. | La porta del negozio era molto alta.
Kiascamu me qq. | Stasera ho molto sonno.
Rispetto a eg/, mu/ esprime un'intensità meno estrema, e ha un tono più moderato, meno enfatico.
qq optim e pessim serviranno per pessimismo e ottimismo
Si parla di superlativo relativo quando si indica l'elemento che possiede un certo carattere al massimo o al minimo grado relativamente a un certo contesto, o fra gli elementi d'un certo gruppo.
Il superlativo relativo di maggioranza si esprime con pley/, che corrisponde a il più in italiano:
qq. | qq
qq. | Il nuovo grattacielo sarà l'edificio più alto sulla Terra.
qq. | qq la più qq fra qq
qq. | qq
qq qualche esempio con o senza uy/
vedi qualche esempio: https://it.wikibooks.org/wiki/Esperanto/I_gradi_degli_aggettivi_e_degli_avverbi#Superlativo_relativo
qq. | qq
qq. | qq
qq. | qq
qq il più alto fra i miei studenti
Il superlativo relativo di minoranza si esprime con naym/, che corrisponde a il meno in italiano:
qq. | qq
To es nayme qq kea me unku legxin. | È il libro meno interessante che io abbia mai letto.
qq. | qq
pleye tallo uya o pleytalluya, non pleye talluya?
In leuto esistono anche le radici maxim/ e minim/, per un italofono abbastanza trasparenti. C'è una certa sovrapposizione con pley/ e naym/. La differenza è che pleye (e simmetricamente nayme) indica perlopiù qualcosa in atto, di concreto al momento, mentre nello stesso contesto maxime (o minime) indica qualcosa che può essere ipotetico, non esistente al momento:
To yamu es pleye tallo.
È già il più alto. [Rispetto agli altri elementi con cui lo stiamo confrontando.]
To yamu es maxime tallo.
È già massimamente alto. [Ha raggiunto il massimo delle possibilità, non può essere più alto di così.]
qq. | qq
qq o invertire?
qq ma in esp. maksimume significa 'al massimo'. maximlae? sì, sembra sensato
Per dire 'al massimo' e 'al minimo', nell'indicare la dimensione di qualcosa, si usano maximlae (maxim/la/e) e minimlae (minim/la/e):
Koncerta dawron maximlae o duo horas. | Il concerto durerà al massimo due ore. [qq dawri regge il compl. ogg.?]
qq. | Ci servono al minimo cinque giorni per finire il lavoro.
qq e 'almeno'?
qq pleylae, naymlae? mmmh
Frase semplice
solo verbo https://lernu.net/gramatiko/verboj_kaj_frazroloj
si fece giorno
soggetto verbo
Per i verbi intransitivi l'inversione SV > VS ricorre con più frequenza, in particolare per quelli che esprimono significati come 'esserci' (hai), 'venire' (veni), 'arrivare' (qq), 'comparire' (qq), 'succedere' (qq) e simili, in cui il manifestarsi dell'identità del soggetto rappresenta in qualche modo la "conclusione" dell'azione espressa dal verbo.
verranno giorni migliori
soggetto verbo oggetto
ordine delle parole
L'ordine più normale e frequente delle parole in leuto è SVO, «soggetto-verbo-oggetto»:
Leona vidin hyenas.
Il leone vide le iene.
Sara kenen Yosefa.
Sara [sogg.] conosce Giuseppe [ogg.].
Se invertiamo l'ordine delle parole, s'inverte il significato:
Hyenas vidin leona.
Le iene videro il leone.
Yosefa kenen Sara.
Giuseppe [sogg.] conosce Sara [ogg.].
Un ordine altrettanto regolare, ma un po' meno frequente, è OSV, «oggetto-soggetto-verbo». Questo è l'ordine normale delle domande quando si vuole conoscere l'identità dell'oggetto:
Kua vos vidin?
Che cos'avete visto?
Kuo libra tu legxon?
Quale libro leggerai?
Più raramente, si può usare a discrezione per generare effetti particolari o mettere in evidenza certi elementi:
Hyenas leona vidin.
[Oggetto-soggetto-verbo]
Yosefa Sara kenen.
[Oggetto-soggetto-verbo]
In italiano non sempre queste frasi si possono rendere similmente con un'inversione, perché mentre in leuto questa è qualcosa di alquanto normale, in italiano ha spesso un effetto più forte: da poesia tradizionale, o semplicemente astruso, involuto: anastrofi del tipo Il leone le iene vide o Le iene vide il leone hanno un sapore poetico forte, più marcato rispetto a Hyenas leona vidin in leuto.
Nel caso delle domande dove si chiede l'identità dell'oggetto, dà invece un effetto particolare l'ordine SVO, che si può usare per mostrare incredulità o chiedere di ripetere qualcosa che non si è ben capito:
Vos vidin kua?!
Avete visto cosa?!
Tu legxon kuo libra?
Tu leggerai che libro?
Per entrambi gli ordini, si noti che la funzione di soggetto è svolta dal pronome o sostantivo che si trova subito prima del verbo: SVO, OSV.
Ordini diversi da questi due sono possibili, specialmente in poesia, ma sono potenzialmente ambigui, o addirittura ingannevoli se il contesto non chiarisce: vanno usati in modo limitato, con consapevolezza.
qq visto che si userà LO/, questa sezione forse è meglio metterla dopo quella sui forestierismi
qq elementi descrittivi, elementi restrittivi (dal semplice aggettivo a intere subordinate)
https://lernu.net/gramatiko/vortfarado
l'uniberbazione non è obbligatoria, né il contrario
qq il modello delle lingue nazionali si può seguire, ma è meglio non farlo se bla bla privilegiare la coerenza interna del sistema
Nel tradurre dall’italiano al leuto, e viceversa, è importante capire la differenza fra i meccanismi che governano le due lingue. È facile sbagliarsi perché, avendo le due lingue molti elementi lessicali simili, capita che l’effetto superficiale sia di notevole somiglianza:
Me pensen ka so deben defendi vera.
Penso che si debba difendere la verità.
Tuttavia la somiglianza riguarda l’esteriorità, mentre le strutture che ci stanno dietro hanno differenze non trascurabili: come due macchine potrebbero svolgere una funzione simile o identica ma realizzandola con meccanismi e sistemi molto diversi (per esempio, un ponte in pietra e un ponte a sospensione; un parco eolico e una centrale nucleare; un elicottero e una mongolfiera; ecc.).
La prima cosa da capire è che mentre in italiano (e altre lingue) la formazione e composizione delle parole è limitata da una serie di regole piuttosto ristrette, in leuto la composizione delle radici è invece quasi totalmente libera. Questo non perché l’italiano sia più “rigido”, ma perché la formazione delle «parole» (intese come «entità delimitate da due spazi nello scritto») ha significati e valori differenti nell’una e nell’altra lingua, e corrisponde esattamente fra le due solo in qualche caso: non bisogna quindi confrontarle a partire da un’immaginaria corrispondenza biunivoca fra le strutture, perché si fraintenderebbero il significato e il funzionamento di entrambe le lingue.
In leuto è normale esprimere un concetto componendo le radici a formare una parola “unica”, nel senso di scritta tutta attaccata.
In italiano è normale esprimere un concetto con espressioni estese, e solo talvolta, in casi specifici, ricorrere a parole composte, scritte tutte attaccate. Creare parole composte per qualsiasi significato in italiano sarebbe una cosa bizzarra e poco idiomatica.
Nel cercare una corrispondenza fra italiano e leuto, quindi, non bisogna eguagliare i meccanismi compositivi, bensì i concetti di «lingua normale».
Per esempio, se un parlante del leuto non vuole o non può usare la parola per ‘notte’ (nokta) —perché non la ricorda, perché vuole variare, perché sta facendo un gioco enigmistico, perché gli serve una rima in una poesia, per qualsiasi motivo— può farsi capire dicendo desyurna (des/yurn/a). Questo in leuto suona normale.
In italiano, invece, nella stessa situazione non si direbbe *il disgiorno, che darebbe un’impressione di conio “bizzarro”, di neologismo improvvisato; si direbbe invece il contrario del giorno, che in italiano suona normale.
Se un parlante del leuto non ricorda la parola per ‘cattedrale’ (kathedrala) potrebbe dire episkopkirka (episkop/kirk/a; episkopa = 'vescovo', kirka = 'chiesa'), che all’orecchio leuto suona perfettamente normale.
In italiano, nella stessa situazione, decisamente non si direbbe *la chiesavescovo o *l’episcopochiesa, che sono vagamente comprensibili ma assai stravaganti, bensì la chiesa vescovile o la chiesa del vescovo, che suona normalissimo.
Un altro caso. In leuto ‘tè’ si dice cxaya. È un termine piuttosto ampio, che, come tè in italiano, può indicare la pianta del tè, le foglie della pianta trattate per ricavarne la bevanda, o la bevanda stessa. Di solito sarà il contesto a chiarire l’accezione precisa che intendiamo di volta in volta, come in italiano («una coltivazione di tè» = pianta; «una bustina di tè» = foglie trattate; «una tazza di tè» = bevanda; ecc.); se però dobbiamo distinguere esplicitamente, in leuto sarà normale fare composizioni, e dire per esempio cxayplanta (cxay/plant/a), qq (qq), eccetera, secondo il bisogno. In questa stessa situazione, in italiano non faremo alcuna composizione, bensì esprimeremo il concetto in forma estesa: pianta del tè, foglie di tè, eccetera.
Ci sono comunque, naturalmente, parecchi casi in cui le parole risultano formate similmente in entrambe le lingue:
heketho = hek/eth/o
centesimo = cent[o] + -esimo
meylego = meyl/eg/o
bellissimo = bell[o] + -issimo
vere = ver/e
veramente = vera + -mente
Ma bisogna avere ben chiaro che si tratta d’una coincidenza “esteriore”, e minoritaria: non è il segno che “la composizione funziona allo stesso modo nelle due lingue”.
il significato nella composizione è lasciato al contesto/intuizione, vedi qui gli esempi con sxipo:
https://lernu.net/gramatiko/vortfarado
impossibile dare regole assolute: alta variazione bla. tuttavia si possono individuare delle tendenze, che spingono per una direzione o per l'altra, la rendono più appropriata e naturale nel flusso del leuto.
Quando la denominazione d'un concetto non è meramente descrittiva, ma implica elementi specifici particolari, il leuto tende a univerbare; mentre quando la locuzione è più precisamente descrittiva, con meno elementi impliciti, univerba meno.
Per esempio, pensiamo al concetto dell'acqua di Colonia. Non è semplicemente acqua (H2O) che viene dalla città tedesca di Colonia; bensì una soluzione di sostanze che è nota come «acqua» solo perché questa è la denominazione tradizionale con cui è chiamata in molte lingue. Ci sono, nella denominazione, elementi impliciti e specifici: il leuto tende quindi a univerbare, e dice qqaqua (QQ/aqu/a).
Al contrario, qq acqua minerale, acqua frizzante, acqua fredda
Si tende a univerbare quando un'espressione è particolarmente frequente nell'uso e diventa quindi quasi una "frase fatta"; similmente (ma non identicamente) a come in italiano oggi scriviamo normalmente come parole unite buongiorno (< buon giorno), davvero (< da vero), stasera (< 'sta sera), cosiddetto (< così detto), benvenuto (< ben venuto), quassù (< qua su) e molti altri termini. qq posdomani, stanotte, anche in leuto
specificità particolare
evidenza della relazione (barca a vela, )
al contrario, vaghezza della relazione, incertezza, dubbio; o volutamente stranezza, mistero
elementi brevi ricorrenti, esteriormente appaiono quasi suffissi, anche se in realtà sono radici come tutte le altre. è del tutto possibile e corretto dire anas de Roma o de Afrika, ma è molto più comune dire romanas e afrikanas.
eufonia
rapidità
ambiguità
qq modello lingue nazionali
Effetti speciali (poesia e simili)
In italiano, nell’esprimere un concetto in forma estesa, si tende naturalmente a seguire un ordine specificato-specificatore, dove lo «specificato» è l’elemento portante, la base del concetto, mentre lo «specificatore» è una qualche aggiunta che viene fatta per definirne il significato in modo più preciso: il cane del vicino (il cane = specificato; del vicino = specificatore), una città fantasma (una città = specificato; fantasma = specificatore), i pesci spada (i pesci = specificato; spada = specificatore), la luna piena (la luna = specificato; piena = specificatore). Talvolta l’ordine può essere invertito, e in tal caso di solito esprime sfumature lievemente diverse: una brava persona (brava = specificatore; persona = specificato), un'ottima idea (ottima = specificatore; idea = specificato). Sul discorso si potrebbe approfondire.
Nelle parole composte, entrambi gli ordini sono possibili, anche per esprimere all’incirca lo stesso concetto (per es., filo- e -filo); in particolare, l’ordine specificatore-specificato è frequente nei composti neoclassici (che siano o no trasparenti in italiano). Un po’ d’esempi d’entrambi i tipi, usando i numeri per distinguere i due elementi:
¹specificato-²specificatore: ¹pelle²rossa (= [chi ha la] ¹pelle / ²rossa), ¹cassa²forte (= ¹cassa / ²forte), ¹capo²stazione (= ¹capo / ²della stazione), ¹pre²colombiano (= ¹precedente / ²a Colombo), ¹anti²furto (= ¹che ostacola / ²il furto), ¹bacia²pile (= ¹baciatore / ²di pile), ¹porta²lettere (= ¹portatore / ²di lettere), ¹ultra²terreno (= ¹che è oltre / ²il mondo terreno), ¹filo²russo (= ¹simpatizzante / ²dei russi);
²specificatore-¹specificato: ²sor¹volare (= ¹volare / ²sopra), ²onni¹potente (= ¹che può / ²tutto), ²mal¹trattare (= ¹trattare / ²male), ²etero¹diretto (= ¹diretto / ²da altri), ²pre¹vedere (= ¹vedere / ²prima), ²aracno¹fobia (= ¹fobia / ²dei ragni), ²musico¹filo (= ¹appassionato / ²di musica); ²carni¹voro (= ¹che mangia / ²carne);
In certi casi l’ordine è ambiguo, nel senso che potrebbe essere interpretato un po’ in entrambi i modi. Li vedremo fra poco.
Nei composti, il leuto segue invece sempre lo stesso ordine, del tipo specificatore-specificato. Ciò significa che a volte l’ordine è lo stesso dei composti equivalenti in italiano (2-1):
oledukta ole/dukt/a oleodotto
omnavidento omn/a/vid/ent/o onniveggente
plurhumcidaqq plur/hum/cid/a pluriomicidio
mentre in altri casi l’ordine delle due lingue è opposto (leuto 2-1 ~ italiano 1-2):
lunciso lun/cis/o cislunare
qq qq qq
In certi casi un concetto può essere espresso secondo entrambi gli ordini, e si tratta allora di capire che cosa intendiamo di preciso. Per esempio, per esprimere il concetto di ‘subumano’ (come sostantivo), potremmo intendere un essere umano ma d’un tipo inferiore, e allora diremo subhuma (sub/hum/a), oppure proprio qualcuno che sta al di sotto di ciò che è «umano», e allora diremo humsubuya (hum/sub/uy/a).
In qualche caso entrambi gli ordini sono sensati, ma uno appare più preciso, più calzante dell’altro. Per esempio, per dire ‘Anticristo’ potremmo dire sia Christkonteruya (christ/konter/uy/a ‘colui che si oppone a Cristo’) sia Konterchrista (konter/christ/a ‘il Cristo contrario’); ma la particolarità, il carattere peculiare di tale figura non è tanto l’opporsi a Cristo, che è una cosa piuttosto generica (san Paolo prima della conversione era sicuramente un christkonteruya, ma certo non l’«Anticristo» in senso letterale), quanto il fatto di essere proprio una figura cristica ribaltata: quindi Konterchrista meglio di Christkonteruya. Similmente, per ‘antipapa’, sicuramente meglio konterpapa che papkonteruya, che descriverà meglio il generico oppositore del papa.
In altri casi i concetti che si compongono sono tra di loro in una relazione non si subordinazione ma di pura coordinazione, qq relazioni italoturche, Emilia-Romagna
qq per cui l’ordine scelto qq
pronomi
mea meao toao
Le desinenze possono essere inserite per chiarire una possibile ambiguità linguistica, o almeno ridurla, se una perfetta univocità non è possibile. Vediamo un paio d'esempi.
[QQ cambiare, vedi sotto] Hospetsuka (hosp/et/suk/a; hosp/ = 'ospitare'; suk/ = 'gradire') potrebbe essere interpretato in modi opposti: significa che si gradiscono le 'persone ospitate', hospetas (hosp/et/as: suka na hospetas), e quindi si ospitano volentieri altre persone a casa propria, o al contrario significa che si gradisce 'essere ospitati', hospeti (hosp/et/i: suka na hospeti), in casa d'altri? Il contesto, come sempre, potrà aiutare a chiarire; ma se non basta possiamo facilitare inserendo una desinenza:
hospetasuka | hosp/et/a/suk/a | gradimento degli ospiti, piacere d'ospitare
hospetisuka | hosp/et/i/suk/a | gradimento, piacere d'essere ospitati
Si noti che nel caso di hospetasuka s'introduce la desinenza al singolare, -a-, non -as-. In leuto in questo tipo di composti, in cui ci si riferisce a un concetto "in generale" (qui 'le persone ospitate'), si usa normalmente il singolare. Si può usare il plurale se bisogna in qualche modo enfatizzare l'aspetto di "pluralità" in contrasto a un significato diverso espresso dalla "singolarità". [qq questo esempio non mi sembra ottimale. 'piacere a ospitare' si dirà più facilmente hospsuki, quindi hospetsuka sarà più facilmente letto come l'inverso. cambiare]
Vediamo un secondo esempio, più sottile. Humitha significa 'umanità, qualità di ciò che è umano' (hum/ith/a). Dei filosofi (o dei linguisti) potrebbero discutere dicendo che la qualità di ciò che è definibile umano (humo) non è necessariamente la stessa qualità di ciò che è definibile uomo (huma): per esempio, un'automobile è senz'altro qualcosa di «umano», ma —si dirà— non è un «uomo». Ecco allora che il leuto permette di distinguere queste due sfumature nel discorso, a seconda della desinenza che s'inserisce nell'"ambiguo" humitha:
humoitha | hum/o/ith/a | la qualità di ciò che è umano, cioè che pertiene all'uomo o è caratteristico dell'uomo
humaitha | hum/a/ith/a | la qualità di ciò che è uomo
articolo e plurale, di solito si "confonde":
amikbee ≈ be [o] amika[s]: ovvero, estesamente be amika, be o amika, be amikas, be o amikas
eventualmente, se per qualche motivo è importante precisare il numero di amici:
amikabee ≈ be [o] amika
amikasbee ≈ be [o] amikas
mentre l'inclusione dell'articolo non si usa
[qq se usiamo li e le per pronomi, e la, e/ per metaling.? Me scaten ea Domina
LO/:
E/
Nu loa nokonsideratha?
Me noe fahamen loa kur. ≈ Me noe komprenen kura.
Me suken loa kee tu resolvin problema
cfr. con: Me suken [tae] kee tu resolvin problema
[qq, copincollo da sopra]
In questo paragrafo vediamo solo il trattamento grafico di questi termini; per altri aspetti del loro trattamento grammaticale, vedi sotto. [qq inserisci collegamento]
I forestierismi (forestierismi crudi, intendiamo: termini stranieri non adattati alle strutture né alla grafia del leuto) che non siano nomi propri si scrivono in corsivo:
qq | qq
qq | qq
Se il corsivo non è disponibile, si useranno le virgolette
I nomi propri stranieri (anche qui, non adattati) si scrivono invece solitamente in tondo:
qq. | qq.
qq | qq
Tuttavia, in uno scritto di registro particolarmente sostenuto, anche i nomi propri possono essere scritti in corsivo:
Libras da Woolf traduciten el o pluo kam quindeko lingwas.
qq | qq
Qualunque scelta si faccia (nomi propri in tondo, nomi propri in corsivo) è importante mantenere la coerenza grafica, e quindi seguire lo stesso uso in tutto il testo.
Parole e nomi di lingue scritte con l'alfabeto latino, come il leuto, si scrivono in modo preciso secondo la loro ortografia, comprensiva di segni diacritici (accenti, cediglie, codette, dieresi...):
Filma qq studyus de Cinecittà, Italiyu. | La pellicola è stata girata negli studi di Cinecittà, in Italia.
To vere essin, kee Karola dirit francesu, loo très chic. | Era davvero, come avrebbe detto Carla in francese, très chic.
Se però in una narrazione stiamo rappresentando un personaggio che non conosce le lingue di cui cita le parole, allora è del tutto lecito, e sensato, usare una trascrizione approssimativa della pronuncia secondo l'ortografia leuta:
«Kee francas diren, to vere essin tre-scikk!». | «Come dicono i francesi, era davvero trescìc!».
I termini di lingue che non usano l'alfabeto latino andranno riportati con le lettere latine.
L'ideale, proponendosi il leuto di diventare la seconda lingua di tutti gli uomini, sarebbe avere sistemi di traslitterazione o trascrizione scientifici basati più o meno sull'ortografia del leuto.
teo oyka essin loo très chic. | qq
Consulta la sottopagina dedicata.
Consulta la sottopagina dedicata.