10 luglio 2020

Il problema dei limoni

L’illusione manca. Il direttore è stremato, così l’orchestra; la sinfonia è al suo termine, per questa volta Mahler ha quasi finito le note. Ma ormai tutti hanno avuto la loro resurrezione. E dopo l’ultimo accordo (fff) la sala si riempie di un altro suono, altrettanto imponente: l’applauso. Pochi minuti dopo ci si ritrova in fila, le luci sono accese, il caldo è asfissiante, si aspetta impazienti che la calca diminuisca per poter uscire, finalmente. Qualcosa si fa amaro. La sera avanza indisturbata, in cielo le rare nuvole si colorano quasi d’oro. L’aria d'intorno rinfresca e nel camminare solitario scende una pace inspiegabile. Ma ecco che sulla via del ritorno (un clacson? una notifica? una chiamata?) il tutto scema e s’alza un’amarezza.

Cos’è quest’amarezza? Non è forse una caduta, una mancanza, di ciò che siamo stati, di ciò che abbiamo avuto o visto e che mai avremmo voluto perdere? Ci è sembrato di scorgere qualcosa di più, di capire(!) finalmente. Poi tutto è venuto meno, non resta che la spiacevole sensazioni di essersi svegliati nostro malgrado. Cosa abbiamo perduto? Che strada abbiamo smarrito? Quale è stato il sogno interrotto? È forse stato quel fenomeno nietzschiano di “uno stato d’animo elevato”? Quanto lo hanno inseguito e vissuto, quanto se ne sono nutriti i “romantici” (e ancora oggi qualche raro superstite)! Il loro afflato, Streben, Sehnsucht, la loro nostalgia. Nel turbinare di contraddizioni “l’infinito” è la parola che più sgomenta le sensibilità romantiche. La vita stessa non è altro che una folle corsa ad inseguire quell’inesauribile segreto per dirla con Ungaretti. Come non ricordare Leopardi, il Leopardi dell’”ermo colle” (G. Leopardi, Canti, L’infinito) dal quale contemplava “interminati spazi”, ”sovrumani silenzi”, ove lo stesso “eterno” lo coglieva, non senza timore. Un verbo nella poesia però ci apre alla problematicità dell’infinito, fingo, fingersi, immaginare. E se fosse che il cuore si “spaura” non tanto per l’immensità della visione ma per l’inconsistenza della stessa? Un passo di Spinoza può chiarire la questione.

Chiameremo immagini delle cose, anche se non ne riproducono le figure, le affezioni [modificazioni] del Corpo umano le cui idee ci rappresentano i corpi esterni come presenti. E quando la Mente considera i corpi in questo modo diciamo che li immagina. E qui, per cominciare a indicare che cosa sia l'errore, vorrei che notaste che le immaginazioni della Mente, considerata in sé, non contengono niente di sbagliato, ossia la Mente, in quanto immagina, non erra; ma solo in quanto la si considera priva dell'idea che esclude l'esistenza di quelle cose che immagina a sé presenti. Infatti se la Mente quando immagina presenti cose che non esistono, sapesse nello stesso tempo che non esistono in realtà, attribuirebbe certamente questa facoltà di immaginare della propria natura a una virtù e non ha un vizio.” (B. Spinoza, Etica, parte II, Scolio Def. XVII, ed UTET)

Come? Questa vetta tanto agognata e per attimi fugaci raggiunta, altro non è che una finzione? Chimere e superbe fole? È tutta una finzione? Spinoza ci aveva avvertiti di questo equivoco, finzione non vuol dire necessariamente errore, a patto che si tenga presente che ciò a cui approdiamo, nella ricerca dell’Infinito come in altro, non è che una realtà soggettiva, prodotto della nostra Mente (e del Corpo). Da escludere completamente è l’aver trovato in questi stati elevati un Verità.

Eppure qualcosa non torna, chi ci toglie quella fugace sensazione di aver colto il mistero dell'essere, della vita dell’universo e di tutto quanto? Questa sensazione che rimane viva come il ricordo di un sogno nella veglia? Come sempre accade stiamo cercando di dire qualcosa che qualcuno (tipicamente un poeta) ha già espresso meglio di noi. Infatti Montale ci viene in aiuto con i suoi Limoni (qui per il testo completo). La poesia ci presenta proprio uno di questi momenti privilegiati:


Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s'abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità.


Tuttavia così conclude:


Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo

nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.

La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta

il tedio dell'inverno sulle case,

la luce si fa avara – amara l'anima.

Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni

le trombe d'oro della solarità.


Montale è consapevole dell’illusione, ciononostante un malchiuso portone può ridarci il respiro di quell’aria sottile seppur tanto vana. Non riusciamo a fare a meno di quell’illusione ingannatrice, è questo in ultima istanza il problema dei limoni. La speranza che la verità non sia quella tediosa della quotidianità, l’illusione che l’epifania non sia un inganno come più volte si è dimostrato ai nostri occhi, siamo sempre pronti ad ammettere di esserci sbagliati. Dobbiamo invece accettare, la verità non sta né nell'una né nell’altra situazione ma proprio in questo mutamento, nell’altalenarsi delle due facce. Ma ancora una volta qualcuno lo ha detto meglio: “La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.” (A. Schopenhauer, il mondo come volontà e rappresentazione)

Potremmo sperare che la vita sia davvero un pendolo e, come tutti i pendoli che non conoscono il moto perpetuo, che prima o poi smetta di oscillare per attuare la grande speranza di Nietzsche:

Mi sembra che la maggior parte degli uomini non credano proprio negli stati d'animo elevati, tranne che per pochi istanti, al massimo qualche quarto d'ora. [...] Eppure, prima o poi, essa potrebbe generare anche uomini siffatti, purché siano state create e stabilite una serie di condizioni preliminari favorevoli che, per ora, neppure il più felice dei casi riuscirebbe a mettere insieme. Forse lo stato abituale di queste anime future sarebbe proprio quello che sinora si è fatto strada nelle nostre anime soltanto con un brivido, eccezionalmente e di rado: un continuo altalenare tra alto e profondo e la sensazione di altezza e profondità, una costante impressione di salire le scale e, al contempo, di riposare sulle nuvole. (F. Nietzsche, La Gaia scienza, afor. 288)

Marco Gatti

Credits disegno limoni: Caterina Maria Gatti

marco.gatti.ilcardellino@gmail.com

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