28 gennaio 2020

Viandanti ignari in superficie

Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

(ignoranza popolare)


Storia di premessa. Ricordo in una afosa estate, mentre all’oratorio ci si riposava, giungere il parroco del paese che, fermandosi a parlare, ci narrò dei suoi esordi con la tecnologia. Ci raccontò di come aveva cominciato ad approcciarsi al computer imparando il sistema binario. Ricordo quanto si fece ridicolo ai miei occhi di “nativo digitale” che, pur avendo una minima conoscenza di come usare un computer, non avevo idea di come leggere il sistema binario e che mai avevo pensato di doverlo fare.

La nostra fede. Ma al di là di fare inutili biografismi, volevo presentare questo breve episodio perché apre interessanti riflessioni. Non tanto sull’eterna discussione dell'approccio problematico che le vecchie generazioni riservano alla tecnologia odierna, ma quanto sulla “fede” necessaria alla vita, non però la fede religiosa (il caro vecchio parroco mi perdonerà), ma quella fede che ci fa digitare le lettere sulla tastiera del computer senza doversi curare di conoscere il suo complicato meccanismo, la stessa che ci permette di usare un’automobile senza sapere cosa sia e a che cosa serva uno spinterogeno o una qualunque altra parte del motore.

Storicità. Questa fede è prima di tutto una fede “storica”, c’è bisogno infatti di fidarsi di coloro i quali sono venuti prima di noi, che hanno potuto investire tempo e risorse nella scoperta e nel funzionamento di oggetti, materiali e molto altro che tutti i giorni noi utilizziamo e diamo per scontati. Il venir meno di questa fiducia è l’impossibilità assoluta di agire o addirittura di vivere. Nella mia limitatissima esistenza (nello spazio ma soprattutto nel tempo) è impensabile che io possa approdare autonomamente alla conoscenza adeguata di ciò che mi è necessario per la mia vita al di là della mera sopravvivenza.

Precisazioni. Ovviamente non è pensabile che questa fede venga meno in maniera assoluta, è qualcosa di fisiologico, di strutturale all’uomo (e forse della stessa vita). C’è però bisogno di prendere coscienza dell’ignoranza che sta dietro al nostro agire, dell’irrazionalità che domina l’esistenza; perché in fin dei conti di questo si tratta: riconoscere la propria limitatezza, e segnatamente ammettere la necessità dell’altro.

Dare e ricevere. Da qui il sentiero si biforca. Da una parte devo riconoscere che se voglio mandare una e-mail in tempi utili in qualche modo devo non sapere come il codice binario sia implicato nella programmazione informatica che altresì mi permette di inviare la mia posta. Se io infatti dovessi programmare un computer da zero (anche solo escludendo il doverlo costruire) perderei un'infinità di tempo per un compito i quali mezzi sono del tutto sproporzionati ai fini. Dall’altra tuttavia questo discorso non deve diventare una causa di deresponsabilizzazione, non bisogna abbracciare una fede assoluta e cieca nella più vuota sterilità. Ma una volta presa coscienza della struttura problematica del reale, bisogna agire, per progredire sulla stessa strada dei tanti che prima di noi hanno reso possibile questa “fede”. Si è parlato di riconoscere la necessità dell’altro, in questo senso bisogna rendersi l’altro nei confronti del resto dell’umanità. La collettività diventa fondamentale per parcellizzare il lavoro di conoscenza, ognuno nella sua limitatezza non può che affidarsi agli altri per l’impossibilità di giungere alla coscienza assoluta della realtà.

Risvolti “tragici”. Se questo può essere un discorso dal roseo finale di comunione universale, in realtà a ben vedere non sono che tante rose a nascondere un abisso (per dirla con Saba). Infatti, tutto ciò ci mostra quanto siamo limitati ed impossibilitati nella conoscenza profonda ed autentica del mondo, che si mostra irriducibile dalla nostra coscienza, come separati da un baratro ineluttabile da quello che sta fuori. E noi, non stiamo che viandanti che camminano ignari sulla superficie finché, non appena dato uno sguardo al di sotto delle rose su cui poggiamo, non possiamo che riconoscere il Caos su cui si fonda la nostra esistenza, l'assurdo e l'irrazionale che ci sostiene; d’altronde come scrisse Nietzsche “Non esiste superficie che sia bella senza la terribilità degli abissi” (FP, I, 7[91]).


Marco Gatti

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