28 dicembre 2019

Diego Fusaro, ocoparlare arcipiùbuono

È un pensatore: vale a dire è bravo a vedere le cose più semplici di quel che sono.

F. NIETZSCHE, La gaia scienza.

Diego Fusaro, classe 1983, è un filosofo, saggista, opinionista, ma soprattutto pensatore. Lui si definisce, prendendo in prestito la sua grammatica, un intellettuale dissidente non allineato (a cosa?), al ceto degli intellettuali che al guinzaglio dell’aristocrazia finanziaria sostengono il partito del pensiero unico, politicamente corretto ed eticamente corrotto. La sua riflessione filosofica, se così si può definire, non è mai svincolata dalla sfera politica, non a caso vanta un partito, Vox Italiae, di cui lui sarebbe l’ideologo; partito da poco nato (settembre 2019) che il filosofo sintetizza con “valori di destra, idee di sinistra” (però da fuori definito “fascista”). Il motivo grazie al quale si è aggiudicato una discreta fama risiede soprattutto nella sua persona, o meglio nel personaggio che mette in mostra in ogni sua apparizione pubblica, forse più delle sue stesse idee. Facilmente inquadrabile nei suoi continui interventi televisivi ai talk show e simili, nonché nel suo canale Youtube sul quale Fusaro carica video con frequenza al limite dell’ossessivo.

Particolarmente degno di nota ci sembra essere il suo linguaggio, impiegato anche nei suoi scritti, che lo connota più di ogni altro aspetto entro quel personaggio di cui si accennava pocanzi. Il suo modo di esprimersi suona molto forbito ed eccentrico, ma il filosofo torinese ogni qual volta che gli si fa notare il suono arcaico del suo perorare, si difende sostenendo che lui parla semplicemente l’italiano (“la vetero-lingua”) senza anglicismi e contro la neolingua dei mercati.

Il primo piano di analisi del suo linguaggio potrebbe essere quello di attributo necessario alla natura del Fusaro pubblico, quello del filosofo (noi preferiamo pensatore) distaccato, imperturbabile, “atarassico”, lui stesso varie volte si è definito dalla ”compostezza olimpica” appellandosi alla “paziente calma del concetto”. Ma che a noi sembra più rappresentare l’intellettuale che troppo si prende sul serio presentandosi con sprezzante sicumera, in un rapporto con l’interlocutore di freddo distacco e superiorità, molto lontano dalla possibilità di dialogo e confronto che dovrebbe essere del “filosofo” . Eppure come tale continua ad essere presentato, ed anzi a livello nazionale sembra incarnarne l’archetipo, inutile dire che questo innalzamento di Fusaro a filosofo-modello non faccia altro che danni all’immagine della filosofia che diventa qualcosa di lontano, disinteressato al mondo e alla realtà, pura speculazione autoreferenziale e poco più.

Oltre a questo ruolo, lo stile con cui si esprime Fusaro può essere visto su un altro piano. Vanno contestualizzati però i luoghi in cui il pensatore si esprime, questi sono spesse volte i programmi tv (La7 et similia) di discussione più o meno politica dove sembra più importante “vincere” che avere ragione, ma dove soprattutto la discussione politica non fa un passo avanti nemmeno di un planck (unità fisica della minima divisione dello spazio), infatti gli interlocutori non fanno altro che dire la propria, senza che il dire degli altri possa cambiare le idee in gioco, tornando a casa ognuno con le convinzioni di sempre. In questo contesto la parlata di Fusaro può essere paragonata al latinorum di Don Abbondio, una lingua che cerca propriamente il distacco, come Renzo non comprendeva il latino, gli interlocutori di Fusaro molto spesso non possono conoscere il linguaggio filosoficheggiante e arcaico che impiega (“reificazione”, “alienazione”, “dialettica”, “cattiva infinità”, “opposti in solidarietà antitetico-polare”) per non parlare dei suoi neologismi, quali “glebalizzazione”, “Homo indebitatus” ecc.... Il latinorum di Fusaro non è una lingua sconosciuta, essa si compone di "formulette" che però ugualmente agli impedimenti dirimenti enunciati da Don Abbondio non è possibile che accettare come tali, viene meno la possibilità di controbattere mettendosi sullo stesso piano per aprire un dialogo, cosa che, come si è detto, Fusaro fugge spesso e volentieri.

La forza di queste espressioni (si prenda ad esempio il già citato “pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto”) è di varia natura. In primo luogo esse si presentano come slogan, “surrogati” di ideologia ma che in sostanza di pensiero vero e proprio hanno poco, concetti “fumosi” e poco sviluppati, soprattutto per l’uso che Fusaro ne fa, appellandosi a questi scioglilingua sempre uguali qualunque sia la questione presa in causa. In secondo luogo gli slogan del pensatore in questione sono sempre alla ricerca di far leva sulla “pancia” dell’ascoltatore medio, il che astutamente lo astiene dalla pratica più difficile del discorso, cioè l’argomentazione delle tesi. Queste sono esposte come verità già dimostrate a priori, come se la partecipazione “sentimentale” delle masse (di una certa parte di esse) a queste “verità” fosse l’unico argomento necessario e sufficiente a sostegno delle sue idee. Spesso Fusaro per argomentare si appoggia a citazioni di vari autori, filosofi ma non solo, antichi come moderni, usati però a piacimento e molto spesso completamente decontestualizzati. Di grande effetto è anche l’uso che fa di espressioni mutate dall’ambito ecclesiastico-religioso come “la sacra teologia dei mercati” oppure “i sacerdoti del politicamente corretto”, “il clero giornalistico e accademico”, “il ceto intellettuale”, in questo modo il linguaggio si fa “analogico”, chi ascolta è subito indotto a ricondurre i concetti di libero mercato, di liberalismo e in generale della contemporaneità alla peggiore (ed assai limitata) visione medievale di una realtà controllata da chissà quale forza clericale dall’alto, che limita la libertà, ma tutto ciò senza la benché minima argomentazione.

Più di tutto però il linguaggio sopra analizzato porta ad una conseguenza che potremmo esprime con le stesse parole di Fusaro: “non pensare e non avvertire nemmeno il bisogno di farlo.” (Pensare altrimenti, Einaudi 2017). In questo senso ci sentiamo di paragonare senza timore il suo linguaggio alla neolingua di orwelliana memoria. La lingua del regime totalitario in 1984 puntava attraverso la creazione ad hoc e conseguente riduzione costante del linguaggio di estinguere la possibilità stessa di pensare oltre ad esprimere le idee non allineate al Partito. Processo analogo avviene, come si è anticipato, anche con il linguaggio di Diego Fusaro. Potremmo benissimo citare lo stesso Orwell che scrive “la principale funzione di determinare parole della neolingua [...] non consisteva tanto nell’esprimere dei significati, quanto nel distruggerli.” (G Orwell, 1984, Mondadori). Infatti l’impiego di termini antiquati e rari non porta, per Fusaro, ad una più approfondita conoscenza e descrizione del mondo, bensì il lessico impiegato si riduce al solo utilizzo di questi “moduli” per di più svuotati di significato autentico al fine di riempire la mente dell'ascoltatore di suoni assenti però di contenuto o valore concettuale.

La scelta della lingua è calibrata anche su di una ricerca estrema di una particolare “musicalità”, di un ritmo incantatore. In espressioni come “rotocalco turbomondialista”, “talassocrazia del dollaro”, “consumismo capitalistico americanocentrico” si può ravvisare la pura poesia neobarocca, poesia dell’artificio che riempie la bocca e svuota la mente. Anche la neolingua si imponeva la ricerca di un preciso ritmo, infatti “Il loro uso [di parole dal ritmo scelto]” prosegue 1984 “favoriva un modo di parlare a scatti, a un tempo monotono e ben differenziato [...] l’intento era quello di rendere il discorso - specialmente quello relativo a oggetti non neutri da un punto di vista ideologico - il più possibile indipendente dalla coscienza. [...] La speranza era di riuscire infine a far fluire il discorso articolato direttamente dalla laringe senza alcuna implicazione dei centri cerebrali superiori.” Per esprimere tutto ciò la neolingua aveva una parola, ocoparlare e il massimo apprezzamento per un oratore era ocoparlare arcipiùbuono. Se però la neolingua giudicava anche l’ortodossia ideologica noi in questa sede ci siamo limitati, per quanto possibile, a vagliare il solo strumento comunicativo, il linguaggio impiegato. Il medium è il messaggio.

Marco Gatti

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