19 giugno 2020

L'onesto oltreuomo

Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno.

Fui sempre («colpa tua» tu mi rispondi)

fui sempre un povero cane randagio.

(Canzoniere, Ultima)

Nel panorama della poesia italiana del primo Novecento si scaglia solitaria la figura del poeta triestino Umberto Saba. Una vita “dolorosa” la sua, come più volte scrisse, fin dall'infanzia, abbandonato dal padre e mal seguito dalla madre, cercando l'affetto materno in ”colei che Berto ancora mi chiamava” la balia. Soffrì già dai vent'anni di una malattia psichica che andò peggiorando con l'età. La produzione di Saba va a confluire tutta nell'ultima edizione del Canzoniere (1961) raccolta poetica definita dall'autore stesso “Romanzo” per la sua natura narrativa. Trieste fu fondamentale per la sua ispirazione poetica, ma non fu mai veramente 'poeta di Trieste' come spesso si intende. Il suo rapporto con la città mutatis mutandis può essere paragonato a quello di Dante: vero ed autentico poeta com'era cercò sempre di superare e oltrepassare l'ambiente in cui visse dovendo necessariamente approdare verso problematiche nazionali e universali, lui stesso scrisse: “la mia poesia è -come ogni poesia- un'interpretazione totale del mondo, questo mondo è veduto da Trieste” (”ci trovi [...] TUTTO IL MONDO”).

La produzione di Saba è di difficile collocazione all'interno di una singola corrente letteraria e culturale, fu infatti di per sé estraneo a molte sperimentazioni letterarie del primo Novecento, preferendo legami con il secolo precedente (fu grande amante e sostenitore di Leopardi e Manzoni), si avvicinò a soluzioni stilistiche 'moderne' solo dagli anni Trenta con l'adozione per esempio del verso libero. Anche a livello geografico preferì la cultura mitteleuropea a quella schiettamente italiana forse anche sotto l'influenza viennese di cui Trieste era investita, grazie alla quale ebbe anche modo di avvicinarsi alla psicoanalisi che sarà un elemento fondamentale nella sua vita poetica (e non solo). Interessante la critica che muove a D’annunzio in un saggio del 1912 intitolato “Quello che resta da fare ai poeti“ denunciando la mancata ”onestà” che invece Saba trovava per esempio in Manzoni, prendendone posizione antitetica: il poeta non è visto come un “superuomo” (tra l'altro termine di traduzione dannunziana) privilegiato nella ricerca estetica, ma è considerato come conoscitore dell'animo umano nella sua dimensione “quotidiana” che attraverso la poesia cerca di “toccare il fondo”.

Si è detto l'importanza della psicoanalisi che sotto quest'ottica prende un rilievo fondamentale per indagare i sensi riposti e segreti delle cose anche attraverso le contraddizioni dell'io e del mondo, svincolato da qualunque condizionamento moralistico, non solo sotto l'esempio di Freud, ma anche del suo “precursore”; scrive infatti di se stesso in terza persona nella Storia e cronistoria del Canzoniere: “In Saba si avverte l'influenza di quello che fu uno dei suoi buoni maestri di vita, in questo caso Nietzsche, ma non il Nietzsche del superuomo che affascinò D'Annunzio e troppi altri, ma dello psicologo che tante verità intuì dell'anima umana, per cui la sua opera può essere considerata anche come l'immenso preludio alle scoperte di Freud.” La poetica di Saba è sempre sotto il segno “dell'onestà” di cui aveva mostrato la mancanza in D'Annunzio. Onestà che egli stesso definisce come “prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prender la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena.”. Onestà nel cantare non la bella poesia ma nel raccontare l'uomo alla ricerca della “verità che giace al fondo” senza però cercare come Ungaretti verità “metafisiche”, quella di Saba è una ricerca per conoscere le motivazioni profonde e riposte che muovono l'uomo. Saba riscontra che nella loro essenza ultima queste motivazioni non possono che essere comuni a tutti gli uomini, ecco che prende senso il valore autobiografico del Canzoniere come poesia 'esemplare'.

Nel Canzoniere non è raccontata la vita di un dannunziano superuomo, ma di un semplice poeta che “Pianse e capì per tutti” allo scopo di parlare a "tutti gli uomini di tutti i giorni: di essere soltanto uomo tra gli uomini". Così prende senso l'elemento 'quotidiano' della semplicità nel dire e nell'essere che sta alla base della poesia di Saba. Temi centrali della sua poesia sono infatti quelli domestici della moglie, degli animali, della figlia Linuccia, dell'amata Trieste, dell'amore e del dolore tra cui Saba si sente “scisso”, dell'infanzia. Ciò che più di tutto, forse, caratterizza la produzione di Saba è la lingua poetica. Essa rispetto alla crisi della parola del primo Novecento resta superstite forse grazie anche alla formazione pressoché da autodidatta del poeta, la scelta non è comunque da considerarsi priva di consapevolezza: scrisse nella prima della Tre poesie alla musa “Antichi come lui [...] se giri tutto il mondo, non ne trovi”. La parola sabiana trova la sua perfetta definizione in un verso dell'autore stesso che dichiara “Amai trite parole che non uno osava”. La lingua di Saba è composta di termini “triti”, logori, consumati, parole basse, quotidiane, definite addirittura 'rasoterra' (Novelli), che portano quasi alla banalità che però l'autore con orgoglio accetta consapevolmente di usare non senza un divertimento anticonformista (“che non uno osava”), ma più di tutto è portato ad usarle per l'amore (“amai”) che sempre ebbe per le cose umili e semplici. Non a torto si potrebbe sostenere che l'Eros sia il sentimento centrale della produzione poetica di Saba, ma non un amore trascendente, 'più che umano', un amore più riposto e semplice volto alle piccole cose. Scrive infatti “M'incantò la rima fiore / amore / la più antica difficile del mondo”: la rima "fiore-amore" è simbolo del sentimento amoroso che incanta il poeta per quanto complesso esso sia (seppur così facilmente “tradotto”) e per quanto “antico” possa essere. Le parole che meglio traducono “la verità che giace al fondo”, per quanto questo possa sembrare paradossale, sono proprio quelle semplici e chiare quasi banali che però per Saba sono le uniche che 'onestamente' posso servire la sua poesia, quasi ricalcando l'aforisma nietzschiano “Siamo profondi, ridiventiamo chiari”.

A questo punto non pare fuorviante rifarsi al già citato Nietzsche che scrive “Che cos’è ora per me ‘apparenza’? In verità non l’opposto di una qualche sostanza; che cos’altro posso asserire di una qualche sostanza se non appunto i soli predicati della sua apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare a una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive...” (Gaia scienza, aforisma 54) . Cosicché l'atteggiamento poetico di Saba si avvicina a quello dell' 'Oltre-uomo' (non più il superuomo dannunziano), colui che “dice sì” alla vita muovendosi sulla semplice apparenza, sulla superficie che è allo stesso tempo l'essenza stessa della vita, scrive infatti “con gli occhi avidamente / sulle parvenze aperti / delle cose”. E di questa ne coglie e ne vive le contraddizioni. In Saba il dissidio (non estraneo a Nietzsche) sta tra l'amore verso la vita (indiscriminato) e la consapevolezza amara del vivere come sofferenza; questo sentimento trova la sua icastica espressione nel celebre ultimo verso di Ulisse:


Nella mia giovinezza ho navigato

lungo le coste dalmate. Isolotti

a fior d’onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede,

coperti d’alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l’alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più al largo,

per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.


Marco Gatti

marco.gatti.ilcardellino@gmail.com

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