Versi e prose

Ecco alcune testimonianze letterarie dedicate alla penisola di Capo Testa. Poesie e brani tratti da racconti e romanzi (work in progress).

Versi

All'antica e novella Capo Testa di Andrea Gloria

1

Capo Semaforista il padre mio

Quintino Gloria pria fu destinato

A Sant’Elia, cui dissi un giorno addio:

Promontorio dall’onde flagellato,

Che mi sembrava un Monastero pio,

Un territorio quasi abbandonato,

In cui non si vedevan che pastori

E talor boscaioli e pescatori.

2

Da Sant’Elia a Capo Spartivento

Si trasferì con tutta la famiglia

Il nostro genitore, e fu un evento

Che non destò nessuna meraviglia,

Giacché non v’era molto mutamento

Tra i due luoghi, distanti poche miglia

L’uno dall’altro e dalla capitale

Cagliari, grande centro commerciale.

3

Il Millenovecentosei correva

Quando mio padre, dall’estrema punta

Del Sud, l’isola intera percorreva

Fino all’estremo Nord, avendo assunta

La funzion di comando che voleva

A Capo Testa, e, tal sede raggiunta,

Circa tre anni vi rimase, e quelli

Furon davvero i miei anni più belli.

4

Quanti ricordi, quanta nostalgia!

Ero allora soltanto un giovanetto

E galoppava la mia fantasia,

E sempre in cuore ardevami l’affetto

Pel genitore, per la mamma mia

Landolina Vincenza, pel terzetto

Dei fratelli Roberto, Augusto e Lina

E per la zia materna Venerina.

5

Amavo molto i grilli e gli augelletti

I cui nidi scovavo tra le rocce,

Amavo gli asinelli ed i capretti,

E giocar a palla ed alle bocce;

Ma i passatempi miei più prediletti

Erano i galli, i pulcini, le chiocce,

E le barche e la pesca con la canna,

Che quando andava bene, era una manna.

6

Le elementari allora frequentavo,

Ed alla scuola di Santa Teresa

A piedi o sul “burriccu” mi recavo,

Per quei sentieri in salita e discesa;

E l’istmo, tutta sabbia, attraversavo,

Ed ogni viaggio quasi era un’impresa,

Tranne quando accadeva, ad intervallo,

Di effettuarlo in groppa ad un cavallo:

7

Il cavallo del nostro fattorino

Ciccheddu, che la posta ci portava,

Sempre puntuale, al sorger del mattino,

E a far per noi la spesa inoltre andava,

Con la bisaccia di viveri e vino

Spesso ricolma, e allora si esultava,

Perché non ci mancava l’appetito,

Che dal moto incessante era acuìto.

8

Sento ancor nelle orecchie sibillare

I venti di maestrale e di scirocco

Che solevan per più giorni durare.

Vedo sul mare tutto un bianco fiocco,

Della bufera in quell’impervesare,

E sto ancora a fissar come un allocco

I flutti, che, investendo le scogliere,

Offriano uno spettacol da vedere…

9

C’eran Cala Francesa, Cala Grande,

Cala Spinosa ed altre insenature;

C’eran tranquille e pittoresche lande

E pascoli ridenti di verzure,

Macchie e cespugli, poi, querce con ghiande,

E lentischi, mortelle e ceci pure,

Mentre d’estate, come diavolette,

Nuvole alzavansi di cavallette.

10

Meravigliosa eran la fauna e flora,

In cielo, in terra e nell’azzurro mare;

In nessun posto ho più visto, da allora,

Specie di piante e d’animali rare

Quali, nella lor magica dimora

Della Sardegna è dato d’incontrare.

Forse (e l’idea non è tanto pedestre)

Fu proprio qui il Paradiso terrestre…

11

Esiste infatti da milioni di anni

Questa Terra promessa, ed i Nuraghi

Attestan senza errori e senza inganni

(E la Storia lo dice, e non i Maghi),

Che grandi civiltà, miti e tiranni,

Lotte e guerre su monti, fiumi e laghi

Vi furon pria che il popolo di adesso

Marciasse con il mondo del progresso.

12

Ma veniamo ora a dir delle persone

Che a Capo Testa sessant’anni fa

Vivevano, e così pure a Longone.

C’era il semaforista Laganà,

Che caffè si faceva a profusione,

E il Marinaio in giovanile età

Sanna Giovanni, la cui tromba spesso

Ripeteva un motivo di successo.

13

Con commozion ricordo i concertini

Che in casa nostra davansi la sera,

Con chitarre, violini e mandolini,

Che eseguivano musica leggera,

E romanze e ballabili carini.

In familiare ed intima atmosfera

Mio padre, buon flautista e violinista,

Solea diriger l’orchestrina mista.

14

Al Faro si trovava allor Pasella,

Con figli e figlie, ed anche lì a giocare

Si andava, ed io sembravo una gazzella,

E non facea che correre e saltare

Tra rocce e scogli, ed era gaia e bella

La vita che solea così menare

A piedi scalzi, al freddo, alla calura,

Al vento, al sole, in mezzo alla natura.

15

Molto amici eravamo coi Muntoni

Andrea, Giorgio, Tommaso e Salvatore,

E facevamo insieme lunghe escursioni

A piedi, in barca, senza alcun timore,

Affrontando tempeste e cavalloni

Con remi e vela e con sì grande ardore

Che parea si dovesse diventare

Veri ed autentici lupi di mare.

16

Rammento pur la Fonte degli Oggiano,

Incastrata tra pietre e granito,

E la Grotta del Faro, che un arcano

Mistero sembrava avesse custodito.

Là bisognava camminare piano

Fino a Cala Spinosa ove allestito

Era uno squero e un piccolo abituro

In cui le barche stavano al sicuro.

17

Ricordando potrei continuare

A dire di persone e fatti ancora,

Per cui conviene adesso alfin narrare

Di Capo Testa non qual era allora,

Ma quale essa è potuta diventare

In questi ultimi tempi ed è tuttora.

Giacché, come ho già detto e dico spesso,

Della Sardegna marcia col progresso.

18

Nell’istmo c’è una grande carreggiata

Percorsa da veicoli a motore,

E pare ormai sempre cancellata

Quella fisionomia e quel colore

D’immobilismo in cui ben congelata

La zona custodiva il suo Folclore

Fatto di pace, di silenzio azzurro

Che sol dell’onde turbava il sussurro…

19

Son sorti alberghi ed opere grandiose

Attirano fiumane di turisti,

Che trascorrono qui ore gioiose

Senza mai annoiarsi od esser tristi;

Perché incantevoli, meravigliose

Queste contrade (e luoghi mai visti)

Trovano, e che, sì pieni d’attrazione,

Somigliano ad un sogno, a una visione.

20

Anche la pesca si è motorizzata,

E se pure di barche e di barchette

La tradizione qui si è conservata,

E vecchie ancor si vedono carrette

Con ampia vela dal vento gonfiata,

Vedonsi anche sfrecciar come saette

I motoscafi, per divertimento

Dei villeggianti sempre più in aumento.

21

Anche quest’anno sono ritornato

Di Capo Testa alla penisoletta,

Cui sono sempre stato affezionato,

E che è la terra da me prediletta.

Vecchi amici d’infanzia ho ritrovato,

Ed altra gente pur sincera e schietta;

Così in un clima placido e sereno

Ho trascorso un periodo lieto e ameno.

22

E prima di partir vo’ ringraziare

Tutte le care e amabili persone

Che mi hanno fatto tante ore passare

In buona compagnia e conversazione.

Sopra tutti ringrazio il mio compare

Murru Pietrino, pieno d’attenzione

E di riguardo, e tutti i suoi parenti,

Ed i Muntoni, e tutti i conoscenti.

23

E saluto e ringrazio il Cavaliere

Antonio Sale, e il figlio Professore

Giovanni Sale. E sento anche il dovere

Di dire a tutti che mio grande onore

È stato sempre ed è l’intrattenere

Fraterni vincoli di tutto cuore

Con l’eletta e gentile popolazione

Di Capo Testa ed anche di Longone.

 

6 Gennaio 1971

Andrea Gloria

Caputesta di Giuseppe Cancedda

No mori la scium'illu scoddhu

finz'a chi teni lu maistrali.


Ancor'eu, chi murì no' voddhu,

cilcu 'entu pa li me' ali.


Pa pisamminn'in bolu cun te

e alzà la car' a lu soli.


Tu no' timì, appoggjat' a me:

àaremu cioi e cunsoli.


("Segnalazione" alla settima edizione (anno 2001) del concorso di poesia "Lungòni" - sezione gallurese, indeto dal Comune di Santa Teresa Gallura.

Tratto dall'opuscolo pubblicato dal Comune di Santa Teresa Gallura "Capo Testa - aspetti del suo fascino", Artemu edizioni, 2005.

L'amicu assassinatu di Paolo Careddu Barriccu

L’agnuli piai e li dulori folti

D’un amicu nuzzenti assassinatu.

Molti orrorosa più di l’alti molti

La fidi e l’amicizia l’ha datu.

Crama ‘inditta a la Celesti colti

Ia tarra chi lu sangu s’ha succhjatu;

Ha gridatu ‘inditta a bucca chjusa

La tarra chi di sangu s’è infusa.

I

Musa, dammi mimoria chi càntia

D’una carneficina la pietai.

Putenzia Divina, fa’ ch’aggantia

L’amata sposa li dulori grai.

Céli, permetti chi’ lestru si ‘antia

L’assassinu autori di li piai;

Tu chi la sai cal’è l’autori,

Dallu palésu, oh ‘justu Redentori!

2

Chi dulori insuffrìbbili la séra,

Ch’aìsi Rocchi illa so agunia!

Cadutu, abali spéra e poi spéra,

La cruda molti presenti ‘idia.

Lu medésimu assaltu chissu éra

Ch’aisi Cristu ill’Oltu di l’Ulia

Cand’andaghjìa ‘Juda cu la squadra

Pa’ tradillu e firillu cu la spada.

3

Supr’a la strada ch’and’a lu paési

Chi passa tra Lungoni e Caputesta,

Chissu sigundu ‘Juda s’impustési

E cun tre baddi li fési la festa:

Dui n’iscisi e una s’arristési

Chi polta più dulori la ch’arresta.

Cussì, lestra la molti li ‘inìsi,

Irriciisi lu colpu e cadisi.

4

Sùbbitu sona la ditta in Lungoni

Dicendi chi Irrocchi éra cadutu.

Li paisani cu la Stazioni

No valisi l’andà a dall’agghjutu

Chi l’han’autu in drent’a lu puzzoni

Di lu gran sangu ch’aia paldutu.

Cun tuttu l’han’autu faiddendi,

Cu la curona in manu e cuntrastendi.

6

Dicendi a la muddéri e l’amichi:

“Ca’ m’hani moltu so’ li mé cumpagni.

Cara sposa, cussì voddu chi dichi,

Chi m’hani moltu pa li mé gadagni.

Tènim’in bracciu e fa’ chi no mi ‘ichi

Fendi li mé lumenti e li mé lagni.

Siddu t’affagni a pignimmi illa bara

Piegni di dammi li làgrim’in cara!

7

Dicchjara cu la Curia, si v’è,

Tutta la ‘iritai puntuali.

Dilli chi socu moltu in bracci’a te,

Socu éu moltu e tu andata mali.

L’annu middi ottucentu ottantatre,

La dì cattru d’abbrili, pa’ signali,

Tre irrigali a ora di li setti

M’hani mandatu, l’amichi perfetti!”

8

Dui petti ostinati senza cori

Pa’ invidia solu l’hani moltu.

Oru aduccatu d’un perfett’onori,

Omu chi bona fama aìa accoltu.

Ill’agunia stési dui ori

Cintu di sangu, cun dugn’ossu scioltu,

Cu l’accunoltu di tant’amicizia

Di ‘jenti paisana e di ‘justizia.

9

Sùbbitu la nuttizia hani fattu

A Tempiu, pal falli la riista.

Da li setti a li noi in disbarratu

Fusi l’anima in colpu la più trista.

A li setti, la séra, la dì cattru,

La terribbili molti fusi chista.

Vista sìmili a chista la Gaddura

No ni ‘ichia più pal cantu dura.

10

A sippultura la so malasolti

Comu no si cridìa l’ha pultatu.

L’agnuli piai e li dulori folti

D’un amicu nuzzenti assassinatu.


Lamento per l’assassinio di Emilio Rocchi – impresario Romano che aveva in appalto le cave di granito di Capotesta – ucciso in un agguato tesogli in località Baccu Diécu presso Santa Teresa, il 4 aprile 1883.

I/a versione (da manoscritto del 1897 di Salvatore Demuro – Capaccia). 

Trascritto da S.Scano e P. Buioni per la Biblioteca del WWF, anno 1995.

Capo testa di Giuseppe Cabella

D'in su l'immenso granitico masso

S'erge la torre. Di lontan d'un rauco

Pastor la voce chiama gli armenti

E al belar di una lanosa pecora

Par che minacciosa l'eco risponda

Cantan gli augelli. E la campagna tutta

Di meste flebili armonie risuona

Placido è il mare. S'una barchetta ardita

Un pescator affaticato rema

Questa è la terra ove Tibula sorse

Questa è la terra ove il Romano impero

Le sue colonne prese e della grande Roma

E templi; e porte, ed archi, e fori ornò

Testimon ne sono i sacri tumuli

Testimon ne sono le cineree ossa

E dai sacri vetusti monumenti

S'elevan scheletri. E parlando dicon:

Noi cittadini della magna Roma

Qui veniamo. Qui tra i granitici massi

Qui di plebei una colonia fondammo

Per la bellezza di Roma.


Tratto da un dattiloscritto gentilmente donato da Paola Buioni.

Cala Francese di Marianna Francolini (da di roccia e di vento, 2020)

Indosso il fruscio del vento.

Un'ora che si sbriciola dei minuti

sopra la collina.

Ho un pieno che non si svuota,

è lieve silenzio che si posa,

la stravagante vena dell'occhio

che si incanta,

strabilia,

muove le ciglia.

Scende

l'ultimo anello di Dio,

staccandosi dal cielo,

lucido scivola,

plana come un ricordo,

si ferma sull'acqua.

Intona una danza muta.


(la poesia fa parte di una raccolta, di roccia e di vento, ispirata alla Sardegna e in larga parte a Capo Testa).

26 dicembre 2005 di Stefano Ranucci

ANCHE LA BAIA È IN LUTTO: LENTAMENTE

AFFOGA I SUOI COLORI NEL DOLORE...

SOFFIA PIANO IL MAESTRALE, NEL TIMORE

DI DISTURBARE IL PIANTO DELLA GENTE.

GENTE DI MARE, SCHIETTA, FIERA E FORTE

FIGLIA DI TERRA CONTADINA E AULENTE;

NESSUNO PUÒ RESTARE INDIFFERENTE

DINNANZI A SI MAESTOSA E GRAVE MORTE.

LA CARA "ZIA COLOMBA” OGGI È SALPATA

DALLA "SUA" CAPO TESTA, E IL SUO CANOTTO

SCIOLTA LA VELA E, ISSATO L'ANCOROTTO

SCIVOLA, LENTO, SULLA SCIA DORATA.

SAN PIETRO È A BORDO, ASSISO, A LEI VICINO

E MENTRE, A DRITTA, È IN VISTA IL PARADISO

SALPAN DENTICI E ORATE AL BOLENTINO!

TORNA L'AZZURRO E IL YERDE, A CAPO TESTA

QUANDO GESÙ L'ACCOGLIE COL SORRISO...

STASERA, IN CIELO, SARÀ UNA GRANDE FESTA!


ROMA, 27 DICEMBRE 2005


Poesia scritta in occasione della morte di "Zia Colomba"

Prose

L'istmo di Luciano Marongiu (da Santa Teresa era così, Chiarella editore, Sassari, 1997)

L'istmo, bianchissimo, era praticamente un prolungamento della spiaggia di sinistra: sabbia dappertutto e niente strada, basso sul livello del mare.

Lo percorrevamo a fatica, piazzavamo l'accampamento, come dire l'ombrellone e tutti i pacchi che ci eravamo portati appresso, mettevamo in fresco l'anguria e dopo un po' di ricreazione ci impadronivamo del territorio.

Non era difficile, perché non c'era nessuno che ce lo potesse impedire.

Infatti non c'era niente intorno; uniche tracce di insediamenti umani le vecchie case di Frati Castagna e quelle degli Oggiano in lontananza, e le semisbozzate colonne di granito di Capicciolu.

Segni di vita animale pochi: raramente una "zelpa", qualche lucertola che prendeva il sole e di quando in quando un collettivo di mucche autogestite, immancabilmente senza traccia del padrone nelle vicinanze.

Godevano evidentemente della più completa fiducia del proprietario, oppure avevano scelto la libertà; sta di fatto che mi pareva che avessero la chiave di casa perché si recavano al pascolo da sole e sempre da sole rientravano alla stalla la sera; credo anche che si mungessero l'un l'altra conferendo direttamente il latte all'allevatore.

A Rena di ponente c'era ancor meno: niente Hotel Mirage, niente Due Mari, niente strada per la Valle della luna, e niente Nino Stallò che a quel tempo era nato da poco.

Santa Reparata di Rino Solinas (da All'ombra della torre, Paco editore, La Maddalena, 2001)

«Devi sapere che non esistono date o riferimenti precisi del perché questa Santa sia presente e si festeggi in questo territorio la sua voce cambiò timbro. Sembrava volesse aprire una

parentesi e inserire questa parte nel racconto quasi si trattasse di una postilla.

«Stranamente la tradizione popolare ha portato fino a noi due versioni: la prima narra di un'imbarcazione forse genovese, pisana o ponzese, che naufrago al largo dell'Asinara. I superstiti, spinti dal maestrale, raggiunsero in qualche modo la peni-

sola della Testa e sbarcarono su una spiaggia in località Funtanaccia. Li costruirono una cappella e un altare in onore di Santa Liberata, per ringraziarla di averli salvati e liberati da quel mare in tempesta che altrimenti li avrebbe portati a morte sicura.

La seconda è che una statua lignea fosse giunta dal mare sulla spiaggia di Capicciolu, nella zona di Li Graniti. Si dice che un pastore la raccolse e la portò nel suo terreno a Funtanaccia.

Qui la sistemò all'interno di una casetta di campagna dando alla statua il nome di Santa Riparata, dal fatto che questa aveva trovato ricovero in quel luogo riparato. Adesso però non voglio

dilungarmi oltre. Più avanti avrò modo di parlarti ancora di questa storia». (pag.77)


L'istmo di Rino Solinas (da All'ombra della torre, Paco editore, La Maddalena, 2001)

Saliti che furono fino a un'alta collina, Juan Battista e Antonimaria a piedi, Gavina e il piccolo Luca in groppa ad

cavallo, si inoltrarono lungo un sentiero in discesa fino ad arrivare a un lungo istmo di finissima sabbia che attraversava il mare.

Il corso si guardò intorno affascinato dalla straordinaria bellezza di quel paesaggio: il mare, diviso in due dalle dune di sabbia, da un lato era calmo e silenzioso, dall'altro mosso e rumoroso per effetto delle onde che si frangevano sugli scogli. Poco lontano, lungo la massiccia scogliera bagnata dal mare di tramontana, si intravedevano le tracce di antiche cave: tutt'intorno e sulla battigia, resti di enormi colonne di granito si levavano in cielo, a testimonianza della stupida mania di grandezza dell'uomo appartenuta a un ormai lontanissimo passato. Le bianche, offuscate coste della Corsica chiudevano l'orizzonte. (pag. 78)

[...]

Il culto e la venerazione per santa Riparata era tale da far si che la festa che si organizzava in suo onore fosse ogni anno sempre più sentita dalla popolazione dei lungunesi.

In primavera per una giornata il piazzale intorno alla piccola cappella si trasformava in un'allegra e colorita festa campestre. Mercanti di dolciumi, di acquavite e di vino si disponevano sui prati e proponevano a squarciagola i loro prodotti, che peraltro, date le ristrettezze, il popolo non sempre aveva la possibilità  di acquistare. (pag. 170)

Zia Colomba di Donatella Bianchi (da Storie dal mare, Aliberti editore, Sassari, 2009)

La vecchia casa è ancora lì. A pochi passi da una delle spiagge più belle al mondo, quella di zia Colomba.

Capo Testa è un luogo fuori dal tempo, un cavallo di razza arabo-sarda, un gioiello della corona tempestato di graniti e turchesi, un gabbiano che tenta il volo mentre guarda il mondo con indifferenza e superbia.

Zia Colomba era nata in quella casa, il 15 gennaio del 1902, e da lì comincia la sua leggenda. Aveva iniziato a pescare appena bambina, a otto anni. Serviva qualcuno a reggere il remo ai fratelli e toccò a lei.

Suo padre, Pietro Muntoni, ricco possidente terriero, era il padrone delle cave del prezioso granito di Capo Testa, utilizzato per le colonne del Pantheon. Un uomo tutto d'un pezzo, di quelli abituati a farsi giustizia da sé. Per questo finì in carcere. Si dice in paese che fu lui a uccidere, o a far uccidere a fucilate un malcapitato commerciante toscano che aveva tentato di raggirarlo, mentre rientrava a cavallo verso Santa Teresa. Per pagare gli avvocati difensori e uscire dal carcere dovette vendere gran parte dei terreni e delle proprietà. Nei giorni difficili del carcere, promise a se stesso che se mai fosse uscito avrebbe sposato la ragazza più povera e ammalata della zona.

Si chiamava Caterina, aveva ventun anni e soffriva di epilessia. Lui, cinquantottenne, mantenne la promessa e la sposò. Degli otto figli, quattro maschi e quattro femmine, la più ribelle portava il nome della santa del posto, Reparata, la più responsabile quello del simbolo della pace, Colomba. Gli altri si chiamavano Andrea, Giovanna, Giorgio, Tommaso, Salvatore e Caterina Muntoni.

La pesca, l'orto e le mucche: di questo vivevano le poche famiglie di Capo Testa, dove i ragazzi «non conobbero giovinezza». La pesca sarebbe dovuta toccare a Reparata, ma si rifiutò minacciando: «Mi lampo dal monte della torre (lo scoglio più alto di Cala Grande, NdA) se non mi mandate a scuola».

Così Colomba divenne rematore scelto a soli otto anni, e quella fu la sua vita finché, appena ventenne, incontrò Antonio, algherese, impiegato alla Maddalena in un cantiere. Forgiava metalli, per lei era un artista incompreso. Pochi mesi di felicità e Colomba rimase sola. Questa volta con una bimba in arrivo, Tonina.

Lasciò Capo Testa per Roma, per far studiare la figlia, farne un'insegnante. Il tempo necessario e tornò di nuovo in Sardegna, tra la mucche, l'orto, la piccola barca verde e un nuovo business, il turismo. Accogliere ospiti nella sua casa, cucinare per loro, proporre il meglio di quel mare che era diventato il suo amante e il suo migliore amico.

Ha sempre continuato a pescare, Colomba, in quel mare generoso. Il suo forte era la pesca con la fiocina. Vedeva il polpo e la seppia nascosti tra le rocce come nessuno. Pescava di giorno, ma la sua vera passione era andare a totani al tramonto con Maria, la sua migliore amica.

D'estate e d'inverno, con il freddo, con la pioggia e all'occorrenza con l'ombrello, la barca doveva riempirsi sempre.

Gonna lunga scura, fisico asciutto, capelli corti, a novant'anni compiuti ancora usciva sola a pescare. A novantanove non era difficile trovarla in barca vicino a casa, o a Portosino, appresso alle mucche. A cento, guardando fuori dalla grande vetrata la sua baia dei due mari, disse alla figlia Tonina: «Ti pare giusto che io debba lasciare tutto questo? Ma ti ricordi quando non avevamo luce, l'acqua era nel pozzo e si andava a piedi a Santa Teresa? Be', io lo rifarei».

Gente tosta quella di Capo Testa, che rifiutò persino le avances di un Giuseppe Garibaldi giunto a cavallo in cerca di un posto strategico per il suo quartier generale. Non lo riconobbero e lo allontanarono. Per questo andò a Caprera.

È fondante dell'identità della gente di questo spicchio di Sardegna la difesa strenua del proprio territorio e del proprio mare, di quelle valli incantate, come la Valle della Luna, come Cala Grande o Cala dell'Ea - che conquistarono i figli dei fiori negli anni Settanta -, di quei passaggi impervi che portano al mare, di quei labirinti di scogli e secche affioranti all'improvviso in uno scenario plasmato dalle forze della natura. Museo a cielo aperto della civiltà nuragica e romana, monolito granitico adagiato al centro delle Bocche da una mano divina, torre di avvistamento e luce per i naviganti d'ogni tempo, Capo Testa era un paradiso esclusivo per venti, trenta persone al massimo. Senza luce, con l'acqua del pozzo da farsi bastare, senza strade comode o mezzi per spostarsi oltre al mulo. E rapporti sociali non sempre idilliaci.

Zia Colomba non si lasciava nemmeno avvicinare facilmente, figuriamoci farsi intervistare. Non so perché abbia accettato il mio invito al faro. Cercavo un testimone autorevole di Capo Testa per raccontare quel pezzo di Sardegna affacciata sulle Bocche di Bonifacio, rubando i ricordi a chi l'aveva vissuta.

Mi raccontò che quando mise gli infissi in alluminio Folco Quilici ebbe da ridire, ma lei gli rispose piccata: «Abitaci tu qui con il maestrale e il grecale che ti entrano nelle vene». Quilici era di casa fin da quando, poco più che ragazzo, tentò i primi esperimenti di fotografia subacquea, complice Colomba.

Era abituata a tenere testa al mare, figuriamoci a un uomo. Aveva rifiutato fior di licenze e offerte per cambiare vita da imprenditori e uomini d'affari. Scelse la semplicità e il lavoro, quanto basta per vivere, nulla di più e nulla di meno.

Un giorno il presidente della Regione si presentò a pranzo da lei, pioniera dell'ospitalità in una Sardegna che offriva solo un paesaggio straordinario e poco altro. La sua zuppa di pesce era insuperabile almeno quanto lo spumante lasciato fermentare nelle federe. «Le diamo la concessione per aprire un grande albergo, così smetterà di lavare i piatti e diventerà ricca» le propose. Lei, ovviamente, rifiutò.

Qualche anno dopo sono tornata a Capo Testa, e ho trovato Tonina, nella stessa casa affacciata sui campi che scivolano fino alla candida spiaggia di rena e coralli che porzioni di colonne romane, perse da un maldestro comandante di nave lapidaria del passato interrompono qua e là, trasformandola in una moltitudine di piccole spiagge d'autore.

«Tonina, oggi andiamo a pescare alla torre». La torre è uno dei grandi blocchi di granito di Cala Grande, proprio quella da dove minacciò di buttarsi sua zia Reparata se non l'avessero fatta studiare. «Prendi l'olio, la farina, il tegame, poi ricordati il cestino, l’acqua, i fiammiferi».

«Cara Donatella» mi ha raccontato davanti a un caffè e a un piatto di frisciole appena fatte, «era una giornata come tante. Andavamo spesso a pescare là, con la barca di mamma. L'hai vista? L'ho messa qua fuori, davanti alla porta. Quel giorno, appena arrivate rimbrottò di andare a raccogliere i rametti per il fuoco mentre lei, una volta scelto il posto, innescava la canna con pastella di pane e cacio e cominciava a pescare. Uno dopo l'altro decine di occhiate e sarroni venivano a galla, giusto premio di una pesca miracolosa. «Ti pigghja sempre lu locu megghju» commentarono due teresini poco più in là. Mia madre, senza replicare, raccolse le sue cose e si spostò lasciando il posto ai due gentiluomini. Solo che lei continuò a pescare come prima, anzi, forse di più, mentre gli altri non presero nulla. E ne prese tanti da non poterli mettere nel cestino così, senza pensarci troppo, si tolse la sottoveste, legò le spalline e ne fece un sacco che riempì con i pesci, lo mise sulla spalla e se tornò a casa per avere in cambio farina e caffè in paese».

Era ed è un mare generoso, quello di Capo Te­ sta. Soprattutto con chi, come Colomba, lo ama e lo rispetta.