Curiosità

Qualche aneddoto e qualche curiosità su Capo Testa

Le colonne romane

Si tratta di un vero e proprio museo archeologico naturalmente interattivo. Il primo museo "on the beach". Arrivati in fondo alla spiaggia di levante, e proseguendo poi lungo il sentiero che porta alla spiaggetta rosa e quindi alle pietre di Capicciolu, si ha la possibilità di osservare i resti di una cava romana di colonne in granito pronte a prendere il largo per la capitale dell'impero, in attesa da un paio di millenni sul bagnasciuga o abbandonate sul fondo del mare in seguito a un naufragio avvenuto appena salpata l'imbarcazione.

Si può toccare con mano una roccia appena scalpellinata, pronta da essere lavorata con i perni in legno ed essere separata in blocchi, ci si può stendere accanto a colonne non rifinite o nuotare tra quelle sommerse, oppure fare una foto accanto alla colonna rimessa in piedi, o al capitello chiamato "cappello del cuoco". Con quei graniti si abbellirono case romane, dal I sec. a.C al IV d.C. (qualcuno dice addirittura il Pantheon), e si costruirono nel XIII sec. il Duomo e il Battistero di Pisa, ma diedero materiale anche per opere pubbliche e private in Sardegna e in continente, almeno fino ai primi del Novecento.

Garibaldi a Capo Testa

Ormai è universalmente noto che Garibaldi acquistò l'isola di Caprera, nel poco distante arcipelago maddalenino, dove visse gli ultimi anni della sua vita. Meno nota è invece la vicenda che lega l'eroe dei due mondi a Capo Testa.

Era il 1854 quando vide per la prima volta la penisola. Era accompagnato dall'amico Pietro Susini, maddalenino, e dal pastore Pietro Scampuddu, detto Pilosu, proprietario di una vasta area di quel territorio aspro, selvaggio, di granito imponente scolpito dal maestrale. Per il Generale fu amore a prima vista, tanto che dopo qualche giorno di caccia alle lepri e ai cinghiali, diede a Pilosu anche una caparra di 200 lire per l'acquisto di quello che voleva far diventare il suo approdo definitivo.

L'amico Susini, però, qualche tempo dopo dissuase Garibaldi dalla sua decisione, informandolo dei contrasti tra alcuni pastori sulla effettiva proprietà della terra, e sul rischio di rimanere invischiato in liti giudiziarie o addirittura pericolose faide, con tanto di possibilità di procurarsi una fucilata. Lasciò quindi a Petru Pilosu la caparra e il sogno di Capo Testa, e si spostò nella più tranquilla Caprera (che avrebbe condiviso con più pacifici proprietari inglesi).

Lu colciu Rochi

La storia di Emilio Rocchi e della sua violenta e triste sorte deve essere ancora scritta, perché tante sono le versioni dei fatti e, come in un vero romanzo poliziesco, moventi e rancori, ragioni economiche e tensioni familiari si confondono con pretese truffe, accuse, condanne, e redenzioni.

Fatto sta che Emilio Rocchi, imprenditore toscano giunto a Capo Testa per sfruttare il granito delle cave già note ai romani e ai pisani, finì i suoi giorni durante una passeggiata con la moglie per raggiungere il centro abitato di Santa Teresa, in località Baccu Diécu, colpito da uno dei tre colpi sparati durante un’imboscata, il 4 aprile 1883, alle sette di sera. Era un mercoledì.

Qualcuno pretende di conoscere il nome dell’esecutore materiale dell’assassinio, ma restano ancora oggi voci di paese. L’unica cosa certa è che fu individuato e arrestato il mandante: Pietro Muntoni, detto Petru “Castagna”, abitante della penisola fin dai tempi dei primi insediamenti moderni di Capo Testa. Pietro era il proprietario delle cave, e c’è chi dice che avesse ucciso l’impresario con cui aveva stipulato regolare contratto di sfruttamento per riprendere possesso dei suoi terreni e cederli a qualcun altro.

La questione pare essere però più complessa: giorni prima del fattaccio, Petru si era lamentato dichiarando in famiglia di essere stato oggetto di una truffa. Questo fu quello che raccontò alla sorella e agli avvocati: qualche tempo prima Rocchi si era assentato, e per mesi non aveva dato più notizie di sé. Dopo qualche tempo si era presentata una persona interessata a rilevare la concessione. Quando il proprietario disse di essere già impegnato, questi aveva riferito che Rocchi era morto improvvisamente. Sentendosi libero di riaffidare l’estrazione, Muntoni siglò un altro contratto. Poco dopo si era ripresentato Rocchi, il quale appellandosi alla clausola del vecchio contratto che garantiva l’esclusiva, pretese lo sfruttamento gratuito della cava.

Furioso perché convinto che ci fosse stato un accordo tra i due, finalizzato alla truffa, Petru “Castagna” volle quindi vendicarsi, facendolo nel peggiore dei modi.

Nessuno può ormai accertare quale sia la verità. Fatto sta che Muntoni fu arrestato e giudicato colpevole. Dovette vendere molti dei suoi terreni fuori Santa Teresa, e anche appezzamenti di Capo Testa, per pagare le esorbitanti spese legali. In carcere fece un voto, per cui si impegnava a sposare la donna più sfortunata che avesse incontrato, se solo fosse riuscito a uscire di prigione. Venne infatti scarcerato dopo qualche anno, e prese in moglie Caterina, una domestica affetta da poliomielite. Ebbero 8 figli, e i loro discendenti ancora abitano Capo Testa.

I "forni" di Capo Testa

La chiamano la spiaggia dei "forni".

Superato l'istmo, sulla destra, si arriva a una spiaggia di sabbia fine, affacciata a nord sulla baia di Santa Reparata. Questa spiaggia è separata dalla strada da una striscia di macchia (ginepri e lentischi soprattutto).

Nascosti dentro questa macchia, all'altezza delle rocce calcaree che separano la spiaggia dei forni da quella di levante (o di zia Colomba), si possono ancora vedere (con difficoltà) i resti di due dei tre forni dentro i quali fino ai primi anni del secolo scorso si "cuoceva" la calce per i cantieri della zona. Si tratta di costruzioni in parte interrate e in parte fuori terra, di forma circolare.

Oggi purtroppo in stato di abbandono e ricettacolo di immondizie varie.

Data la presenza di cave romane e di necropoli romane nei dintorni, non si esclude che anche questi manufatti risalgano a periodi storici molto lontani.

Forse si potrebbe ripulire tutto intorno e rendere vive e visitabili queste testimonianze di un antico lavoro. Magari con un pannello informativo.

Mirto bianco, mirto nero

A Capo Testa troviamo anche la variante più rara di mirto, quella che presenta le bacche con pigmentazione bianca (o meglio prive di pigmentazione).

Tutti conoscono la ricetta per produrre il famoso liquore aromatizzato al mirto. Forse non tutti sanno invece che

1) si tratta di una pianta anticamente considerata sacra per la Dea Venere, e quindi utilizzata per glorificare l'amore e la poesia amorosa ("Tanto fu dolce il mio vocale spirto, Che, tolosano, a sé mi trasse Roma, Dove mertai le tempie ornar di mirto" Dante Alighieri).

2) il nome Mirto deriva dal greco myrtos, che a sua volta proviene dalla radice linguistica semitica mrr (amaro), condivisa con la parola Mirra (quella dei re Magi, per intenderci), il che in periodo natalizio è sempre un aneddoto interessante...

3) oltre che per deliziare palati, soprattutto dopo un buon arrosto, gli oli essenziali estratti della pianta sono utilizzati in farmacopea per la loro funzione antisettica delle vie respiratorie. E anche questo purtroppo è di stretta attualità...

Santa Reparata

Andando a Capo Testa, subito dopo l'istmo, sulla sinistra, si trova una strada chiusa da una sbarra. Il gentile proprietario dell'albergo Mirage permette di percorrerla a piedi o in bicicletta, come ho fatto io.

Dopo circa 100 metri, sempre sulla sinistra, si vede un campetto di calcio, e nei pressi un rudere. Di cosa si tratta, si chiede il passante curioso. Una stalla? Un deposito?

Qualcuno dice invece che si tratta della vecchia chiesa di Santa Reparata, abbandonata e trasferita a qualche chilometro di distanza, all'inizio del XIX secolo da Capo Testa alle spalle della spiaggia che ha ormai preso il suo nome.

Non si hanno notizie sulla sua origine, anche se probabilmente risale al periodo pisano (XIII-XIV sec.), data la venerazione che la Santa riceve particolarmente in Toscana, ma non è escluso che sia stata innalzata su un precedente tempio romano (fonti medievali parlano già di "mura vetuste".

la Valle della Luna

Quando un centinaio di anni fa le donne di Capo Testa si incamminavano con otri in mano o in testa per andare a prendere l'acqua potabile dalla fonte più vicina della penisola, all'inizio della cala che veniva chiamata per questo "de l'ea" (dell'acqua), non avrebbero mai immaginato che i loro passi sarebbero stati seguiti dopo qualche anno da migliaia di turisti curiosi, e tanto meno che quelle rocce impervie, quelle grotte naturali scolpite dal vento, sarebbero state occupate da ragazzi e ragazze in cerca di una vita incontaminata e più vicina alla natura.

Negli anni Sessanta del secolo scorso infatti, seguendo la tendenza pacifista e naturalista della contestazione giovanile, le tre valli di Cala di l'Ea, Cala di Mezu e Cala Grande divennero lo scenario magico e mistico in cui si stabilirono hippies provenienti da varie parti d'Europa, i quali ribattezzarono l'intera area Valle della Luna. Le notti di luna piena, infatti, i graniti dalla conformazione geologica sorprendente riflettono la luce argentea creando un'atmosfera innaturale. E proprio in quelle notti, d'estate, si consumano ancora grandi feste intorno al fuoco.

zia Colomba

Colomba Muntoni, ultimo genita di Petru "Castagna" Muntoni - uno dei primi abitanti di Capo Testa (v. Lu colciu Rochi) - è ormai un nome simbolo per Capo Testa, un mito la cui vita è stata già raccontata in numerose occasioni. Nella sezione Versi e Prose abbiamo raccolto un brano tratto da libro di Donatella Bianchi, Storia dal mare.

Qui ci basterà dire che suo è il primo ristorante di Capo Testa e la prima locanda, che ai suoi ospiti offriva pesce pescato da lei stessa e vino della sua vigna, che si oppose sempre, e fino all'ultimo alle lusinghe di investitori che avrebbero voluto comprarle i suoi terreni. Mai avrebbe abbandonato il suo mare e la sua Capo Testa (abbandonò presto Roma, dove si era temporaneamente trasferita per accompagnare la figlia), e anzi continuò a remare la sua barchetta nella baia di Santa Reparata di levante, il suo mondo, fino a più di 90 anni.

Morì a 103 anni, nel 2005, lasciando generazioni di turisti innamorati - anche grazie a lei - della sua amata Capo Testa.

"Anche la baia è in lutto: // affoga i suoi colori nel dolore...", così scriveva Stefano Ranucci nella poesia che scrisse per la triste occasione.

Bocche di Bonifacio

(scritto il 14 febbraio 2021. San Valentino)

A proposito di amore, di coppie, di parole importanti, di sguardi infiniti, di baci…

Ma perché le Bocche di Bonifacio si chiamano così?

Chi abita da queste parti, e forse ancor più chi le visita, si sarà chiesto sicuramente perché il tratto di mare tra Sardegna e Corsica si chiama Bocche di Bonifacio. Qualcuno magari se lo sarà anche andato a cercare su internet, e i più diligenti in qualche libro storico-etimologico-toponomastico. Per i curiosi senza pretese ci siamo noi di Capo Testa Republic.

Ci sarà nascosto dietro qualche aneddoto sentimentale, o meglio passionale? qualche intenso amore tra cavalieri e principesse medievali?

Purtroppo no. Anche se…

Anche se in questa bocca ci sono le labbra di granito di Santa Teresa Gallura, i denti bianchissimi delle falesie di Bonifacio, la lingua comune che le due coste condividono da secoli.

E poi c’è questo tentativo geografico da sempre frustrato di unirsi in un bacio, che rimane sospeso e distante solo 11 chilometri nel tratto più stretto.

O magari il bacio c'è appena stato (era il Miocene, dai 26 ai 5 milioni di anni fa). Se ne intuisce lo schiocco nella penisola di Capo testa, e il suo riverbero negli arcipelaghi di La Maddalena e di Lavezzi.

Da allora le labbra si sono separate e si è aperto un fosso tra le due sponde (in greco “fossato” si dice Taphros, antico nome dato allo stretto), e vi è corso dentro il mare, come una sorsata d’acqua fresca; chissà se per scacciare una delusione o perpetuare il piacere…

E con il mare sono venute le correnti, e poi il vento, impetuoso di maestrale o freddo di grecale. È proprio in questi frangenti (momenti, ma anche onde) che gli occhi di Bonifacio e quelli di Santa Teresa si fanno limpidi, indagatori, e si scrutano gli uni gli altri, nell’aria tersa: le due sponde hanno bisogno di luce, perché, come due amanti, solo guardandosi si riconoscono.

I romani, che dai graniti galluresi hanno ricavato colonne per i loro sontuosi edifici, chiamavano questo tratto di mare Fretum Gallicum, il lato dei galli, ovvero la porta di accesso alle Gallie, via mare. Perché il fossato in questo caso poteva essere un ponte tra due culture, due civiltà. Dopo il ponte romano, il bacio tra Corsica e Sardegna, unito da scambi continui di merci, persone, cultura, si interruppe bruscamente: l’ultima separazione tra le due labbra, questa volta non fisica ma politica, avvenne nel 1769, quando la Corsica fu annessa alla Francia.

Ma alla natura, come all’amore, importa poco della politica: Punta Falcone continua a essere il tratto di costa sarda che si spinge più a nord, come Capu Testagro il tratto di costa corsa che si spinge più a sud. Assomigliano a due amanti che si cercano e tendono l’uno verso l’altro, senza potersi toccare mai.

Vento smisurato, luce accecante, correnti marine imprevedibili, fondali che raggiungono al massimo i 100 metri, ma che affiorano in secche inattese… bisogna meritarselo il bacio di questa bocca, bisogna essere saldi, sicuri di sé, abili, altrimenti si rischia di essere divorati (non per nulla qualcuno pensa alle Bocche di Bonifacio come fonte di ispirazione per i naufragi narrati da Omero dell’Odissea).

Proprio per questo Corsica e Sardegna, diffidenti e guardinghe, hanno disseminato sulle loro lunghe labbra i lampi vigili di circa 20 fari e semafori, da Isola Monaci a Capo Testa, dallo scoglio Perduto a Cap de Feno: non sarà la notte a rubare altri sospiri e a far bere altre lacrime a questa bocca.

Quando però non soffia per metterti alla prova, la brezza tra le isole e le coste contrapposte diventa un soffio, un sussurro, un canto di sirena. E se non si è fortemente legati all’albero maestro della propria terra d’origine, si finisce per restare ammaliati, e si diventa schiavi d’amore, amanti, amati, perduti, felici.

Buon San Valentino dalle Bocche di Bonifacio.

  • si ringrazia Paola Buioni per alcune informazioni che hanno arricchito di dati storici e di interpretazioni questa sezione.

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