Prima C'era la Pieve
La pieve di Brebbia
Il Sinodo 47esimo
Tettamanzi e i decanati
Le visite pastorali nel decanato Besozzo
Il decanato nasce nel 1972 con il 46º Sinodo diocesano ambrosiano, chiusosi nel 1972 sotto il card. Giovanni Colombo. Prima esistevano le Pieve, che era circoscrizione ecclesiastica inferiore alla diocesi.
Inoltre, dal XII secolo, in età comunale, la pieve assunse anche funzioni civili, in ragione del controllo del territorio da parte dei centri urbani, che sfruttarono a questo scopo le preesistenti forme di aggregazione. Civilmente, le pievi furono abbandonate e soppresse da Napoleone nel 1797, in quanto considerate retaggi feudali, e sostituite con i cantoni.
L’arcivescovo Carlo Borromeo attuò il 7 ottobre 1574 la traslazione delle funzioni plebane della pieve di Brebbia a Besozzo; di conseguenza la chiesa dei Santi Alessandro e Tiburzio di Besozzo divenne canonica e plebana.
La prima visita pastorale alla pieve fu effettuata dallo stesso fondatore nel 1581; fecero seguito quelle dell’arcivescovo Gaspare Visconti nell’estate del 1589 e del cardinale Federico Borromeo del gennaio 1596.
La pieve all’epoca della visita di Federico Borromeo comprendeva diciassette parrocchie: Besozzo, Bardello, Biandronno, Bogno, Brebbia, Cadrezzate, Cardana, Cazzago, Cocquio, Comabbio, Comerio, Gavirate, Inarzo, Ispra, Monvalle, Ternate, Travedona. La parrocchia di Cazzago era di recente costituzione; Monate non era più arcipretura ma semplice frazione di Travedona.
La pieve di Besozzo è sempre stata inclusa nella regione II, fino ai decreti arcivescovili che hanno rivisto la struttura territoriale della diocesi (decreto 11 marzo 1971, RDMi 1971; Sinodo Colombo 1972, cost. 326), in seguito ai quali le parrocchie che ne avevano fatto parte furono attribuite al decanato di Besozzo, nella zona pastorale II di Varese.
La prima attestazione dell'esistenza della pieve di Leggiuno risale a un documento datato 21 settembre 846.[1] Alla fine del XIII secolo, la pieve viene riportata nelle cronache di Goffredo da Bussero, e nel XIV già comprendeva dieci membri.[2] Seppur molto piccola, la pieve assicurava il controllo milanese sull'intera costa del lago Maggiore, escludendovi la comasca pieve di Valcuvia.
Il decanato nasce nel 1972 con il 46º Sinodo diocesano ambrosiano, chiusosi nel 1972 sotto il card. Giovanni Colombo.
Promulgato il XXX da Card Martini il sinodo 47esimo, che è anche quello in vigore definisce chiaramente compiti e ruoli del decanato.
[ dal Cap. 8 Il decanato - 161. Le funzioni del decanato ]
§ 1. Il decanato è quell'articolazione territoriale della diocesi, che raggruppa un certo numero di parrocchie tra loro vicine e, a volte, tra loro coordinate secondo la modalità delle unità pastorali, al fine di favorire la cura pastorale mediante un'azione comune.
Il decanato ha quindi un duplice scopo principale:
- la comunione fra le comunità parrocchiali e le altre realtà ecclesiali presenti sul suo territorio
- e la delineazione di un'azione pastorale comune, che dia alle parrocchie un dinamismo missionario.
- Una terza finalità del decanato, più tradizionale e già implicitamente esigita dalle altre due, è l'essere luogo di fraternità e di formazione permanente tra presbiteri.
§ 2. Nell'ambito del decanato le comunità parrocchiali e le altre realtà ecclesiali si incontrano, mantenendo la propria identità e mettendo in comune le capacità, i carismi, le competenze che contraddistinguono ciascuna di esse. In tal modo il decanato diventa forte esperienza di Chiesa per presbiteri, diaconi, consacrati e laici che si educano all'ascolto reciproco, alla stima e alla corresponsabilità, contribuendo efficacemente alla pastorale d'insieme per il territorio.
§ 3. Il decanato è il luogo in cui le comunità parrocchiali e le altre realtà ecclesiali confrontano e coordinano la propria azione pastorale, concretizzando in modo specifico, cioè per la situazione del decanato, le indicazioni del piano pastorale diocesano e dei programmi annuali. Il confronto tra le diverse parrocchie e con gli altri soggetti costituisce per se stesso, anche a prescindere da altri risultati, un contributo significativo a superare la tendenza alla chiusura nella propria parrocchia. Si tratta di determinare bene i livelli di intervento: alcuni debbono essere riferiti a una azione comune nel decanato ed eventualmente nella zona pastorale, altri sono propri di ciascuna parrocchia. Si dovranno elaborare criteri comuni, lasciando alle singole comunità un legittimo spazio per la realizzazione. Si tratta di costruire una vera mentalità pastorale comune.
Gli strumenti possono essere i seguenti:
una agenda delle priorità,
un piano di riflessione ordinato,
la coordinazione di alcuni interventi
(ad esempio date, scadenze, soggetti, luoghi dell'iniziazione cristiana;
forma e contenuti degli itinerari di preparazione al matrimonio;
l'aiuto e lo scambio pastorale tra i presbiteri;
i rapporti con gli insegnanti di religione e la scuola;
la pastorale del lavoro;
la pastorale della sanità sul territorio;
la pastorale ecumenica;
le relazioni con le istituzioni sociali e di assistenza).
Ogni decanato deve stabilire gli ambiti concreti della pastorale d'insieme e promuovere opportune commissioni o consulte nel quadro dei programmi pastorali diocesani.
§ 4. Il decanato è chiamato ad assumere in prima persona quelle iniziative pastorali riguardanti ambiti che superano l'estensione e le capacità delle singole parrocchie e che, altrimenti, resterebbero senza una specifica cura pastorale, o anche ad assumere quelle iniziative che, pur potendo essere promosse senza eccessiva difficoltà dalle singole parrocchie, trovano nella dimensione decanale un respiro più ampio e maggiormente ecclesiale.
§ 5. Di fondamentale importanza per la realizzazione del decanato, come luogo di pastorale d'insieme, è la collaborazione tra i presbiteri. Il decanato si propone, quindi, come valido aiuto e stimolo concreto per favorire nel presbiterio la fraternità, la vita spirituale, la formazione permanente, l'arricchimento globale e un più agevole e frequente contatto dei presbiteri con l’Arcivescovo, anche attraverso il vicario episcopale di zona.
§ 6. Responsabile del decanato e delle sue attività è il decano. I presbiteri, i diaconi, i consacrati e i laici sono tenuti a collaborare con il decano e a riferirsi a lui per le materie di sua competenza.
Tratto dall' Omelia del Card. Tettamanzi nella Messa Crismale del Giovedi santo 24 Marzo 2005
In questi ultimi anni è cresciuta – non solo nei preti, ma anche nei laici e nelle persone consacrate – la consapevolezza del ruolo del Decanato. Alla domanda, oggi molto meno frequente, su “che cosa è” o “a che cosa serve” il Decanato, si sono sempre più largamente sovrapposte la convinzione della necessità di questa “articolazione” della Diocesi e la richiesta di un suo ulteriore potenziamento.
È questo il frutto di anni che hanno più diffusamente registrato alcune esperienze e realizzazioni positive, quali, ad esempio:
le Case del Decanato per i preti;
la Casa del Decanato per le aggregazioni;
le iniziative caritative decanali;
le diverse forme di attuazione e coordinamento decanali della pastorale giovanile e familiare;
la sperimentazione del Decanato come luogo di formazione permanente e di fraternità per i preti;
la progressiva maturazione della necessità di una pastorale d’insieme;
una più consapevole presa d’atto dell’urgenza e della necessità di ripensare, in un’ottica capace di andare oltre la singola parrocchia, la presenza e l’azione delle diverse figure pastorali, anche in considerazione del diminuito numero delle forze disponibili sia tra il clero, sia tra i laici.
[...] La nostra,[...], è una riflessione che tocca l’intero popolo di Dio. Il Decanato, infatti, – come è scritto nel nostro Sinodo diocesano – ha sì come sua finalità quella di essere «luogo di fraternità e di formazione permanente tra i presbiteri». Ma questa è solo «una terza finalità», certamente «più tradizionale», che si aggiunge ad altre due che costituiscono il «duplice scopo principale del decanato». Uno scopo così indicato: «la comunione fra le comunità parrocchiali e le altre realtà ecclesiali presenti sul suo territorio e la delineazione di un’azione pastorale comune, che dia alle parrocchie un dinamismo missionario» (Sinodo 47°, cost. 161, § 1).
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C’è una terza attenzione che il Decano è impegnato a coltivare nello svolgimento del suo servizio. Consiste nel far crescere in tutti una giusta visione ecclesiale del Decanato, nel quadro del cammino pastorale della Chiesa locale.
Il Decanato va visto e promosso come realtà pienamente inserita e partecipe della vita e della missione della Diocesi, in particolare mediante la concreta e cordiale traduzione, sul proprio territorio, dell’unico programma pastorale diocesano.
Il Decanato, poi, non è certo una “superparrocchia” o una “superaggregazione” di realtà ecclesiali. È, piuttosto e più propriamente, una comunione di parrocchie e una comunione di aggregazioni e realtà ecclesiali. In questa ottica, come talvolta si è descritta la parrocchia quale “famiglia di famiglie”, così – analogamente – si potrebbe descrivere il Decanato come “parrocchia di parrocchie”.
Ne deriva che ogni singola parrocchia deve essere rispettata, stimata, onorata, amata nella sua identità, storia, cultura, varietà e ricchezza di istituzioni, di persone e di iniziative. Nello stesso tempo, però, è necessario che ogni parrocchia sia aiutata ad amare e a vivere il vincolo che la unisce coralmente alle altre parrocchie che formano il Decanato: un vincolo che si radica nella comunione e si sviluppa nella collaborazione e nella corresponsabilità. Peraltro, solo nel cammino “comune” può essere compresa ed esaltata la “specificità” delle singole comunità e realtà ecclesiali.
Alla radice di questa valorizzazione di ogni parrocchia in un contesto di profonda comunione tra le diverse parrocchie stanno la grazia e la responsabilità del comandamento biblico «ama il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Levitico 19, 18), che nella sua formulazione ecclesiale suona: “ama la parrocchia altrui come la tua”.
Perché questo amore vicendevole raggiunga davvero tutte le pieghe della vita e dell’azione pastorale di ogni parrocchia, è pure necessario che il Decanato possa diventare maggiormente un luogo di discernimento e di aiuto reciproco anche in ordine alla realizzazione di forme concrete di perequazione economica tra le diverse comunità. Può e deve essere anche questo un segno quanto mai eloquente e trasparente di un’autentica comunione nella Chiesa. Più precisamente, la perequazione economica è, nello stesso tempo, un frutto e un alimento della comunione. In realtà, nasce dalla comunione e fa crescere la comunione. Proprio come avveniva nella prima comunità cristiana, nella quale la prova che «la moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola» era data dal fatto che «nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune», così che «nessuno tra loro era nel bisogno», perché il ricavato di ciò che ciascuno aveva venduto veniva deposto ai piedi degli apostoli per essere distribuito a ciascuno secondo le necessità (cfr. Atti 4, 32-35). Anche oggi, come allora, la “verità” della comunione si misura e si verifica anche nella disponibilità reale e nella capacità effettiva di condividere i beni, gli stessi beni materiali – non solo da parte delle singole persone, ma anche tra le stesse comunità cristiane –, mettendoli in comune secondo i bisogni di ciascuno.
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