Quaresima 2003

Prima domenica

Nella prima lettura di oggi c’è la bellissima pagina dell’alleanza di Dio con Noè al termine del diluvio. Segno di questa alleanza è “l’arco” appeso alle nuvole. Tutti noi pensiamo subito all’arcobaleno. Però gli studiosi ci dicono che può voler dire anche un’altra cosa: sarebbe l’arco di guerra. In tal caso l’immagine che ne deriva risulterebbe altrettanto bella, se non di più: Dio ha appeso a una nuvola l’arco e ha buttato via le frecce. Non vi farà più ricorso per colpire gli uomini colpevoli.

Purtroppo invece ci sono tanti che rimpiangono quell’arco rimasto inutilizzato e in cuor loro desidererebbero che “il buon Dio” (!),di tanto in tanto, lo riprendesse in mano, debitamente armato di frecce affilate, prendesse esattamente la mira, e colpisse un discreto numero di peccatori impenitenti, senza dare loro scampo. Così, tanto per farsi rispettare e richiamare all’ordine.

C’è qualcuno che ha raccattato le frecce che il Signore, ai tempi di Noè, aveva buttato via, e gradirebbe tanto che il Dio della pazienza senza limiti e della misericordia inesauribile ci ripensasse, magari aggiornando il suo armamentario, quella che in termini militari mi pare si chiami “strategia della dissuasione”.

Figurarsi. Se proprio il buon Dio provasse nostalgia di arco e frecce, potrebbe divertirsi utilmente a inchiodare la lingua (beninteso, in maniera non dolorosa) di qualche suo rappresentante sconsideratamente loquace.

Bisogna riconoscere che ci sono dei sedicenti cristiani che si sentono portatori dei castighi e delle minacce terrificanti di Dio, più che delle promesse del Dio dell’Alleanza eterna (”Io stabilisco un’alleanza con voi..”; “ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi…”) Non esitano ricorrere al ricatto della paura. Esercitano una specie di terrorismo spirituale. Loro dipingerebbero di nero l’arcobaleno, se solo lo potessero.

Il Signore ha assicurato che “il diluvio non devasterà più la terra”. Ma qualcuno pensa e addirittura spera che magari sarebbe il caso di riconsiderare la cosa, dato l’aggravarsi della situazione. Secondo certi esagitati, il Padre che fa cadere la pioggia sia nei campi dei buoni che in quelli dei malvagi (Mt 5,44-45), dovrebbe correggere un po’ il tiro, colpendo con una bella grandinata le vigne (e le teste) dei miscredenti.

Seconda domenica

Domenica scorsa il vangelo ci parlava delle tentazioni di Gesù nel deserto da parte del diavolo. Nella prima lettura di oggi mi ha colpito la prima frase: “Dio mise alla prova Abramo“. In altre parole: lo tentò. Dopo le tentazioni del demonio, quelle di Dio. Certo che sono due tipi diversi di tentazioni. Le prime vogliono la nostra distruzione, le seconde la nostra crescita.

La tentazione-prova può assumere varie forme: sofferenze, contrarietà, persecuzioni, assenza o ritardi di Dio, apparente trionfo delle forze del male, il dolore innocente, gli scandali anche all’interno del popolo di Dio (compresi certi livelli alti segnalati dal color porpora).

Io riflettevo che molti di noi risultano allergici al fatto che Dio ci metta alla prova.

Ci diciamo fedeli, purché non si tratti di dimostrare la nostra fedeltà in circostanze critiche. D’altra parte siamo in buona compagnia, è accaduto anche a Pietro.

Parliamo di perdono, purché nessuno si azzardi a offenderci, o purché non ci si chieda di dimenticare i torti subiti.

Ci fidiamo di Dio e della sua Provvidenza, purché non succeda di trovarci con l’acqua alla gola.

Siamo attrezzati per le grandi imprese, purché non ci sia da dedicarsi modestamente alle piccole cose di ogni giorno.

Ci riteniamo familiari col servizio purché siano gli altri ad accollarsi i servizi più sgradevoli.

Insomma, accettiamo la prova purché sia un’eventualità lontana, una specie di “realtà virtuale”.

Eppure senza prove non c’è cristianesimo serio, perché non ci sarebbe il necessario controllo delle radici e la verifica della solidità della costruzione. Senza prove non esiste maturazione, né umana né cristiana.

Il pericolo che ci minaccia è l’illusione. Quando arriva la tentazione, la prova, vengono spazzate via soprattutto le false sicurezze, i fuochi di paglia degli entusiasmi, i fervori puramente emotivi. La prova disillude il credente illuso. Lo riporta sul terreno aspro della concretezza e del realismo.

Terza domenica

Il vangelo di oggi è famoso, ed è tra i più citati soprattutto tra i tanti che non frequentano la chiesa. Ma questo non vuol dire che sia uno degli episodi più facili da capire.

Il punto di vista peggiore è quello di chi si mette ai margini, di chi fa il semplice spettatore, di chi dice che non c’entra con quanto sta succedendo. È il vedere, con malcelato compiacimento, Gesù che fa pizza pulita degli altri.

Già, la cosa riguarda sempre gli altri, magari i preti con le loro tariffe per i matrimoni o le messe; o coloro che vendono medagliette o rosari nelle botteghe o nelle baracche nei pressi dei santuari. Noi siamo di passaggio e commentiamo “ben gli sta”, “era ora”, “era una vergogna”.

Con un atteggiamento del genere non afferriamo il significato di quanto succede.

Nessuno può ritenersi esentato, dispensato da quella pulizia.

Chi di noi è sicuro di non essere un frequentatore abusivo del Tempio? chi può sostenere di non essere andato qualche volta a mercanteggiare con Dio? chi non ha preso la strada della chiesa soltanto per sentirsi tranquillo, con la coscienza a posto?

Il gesto di Gesù lo si comprende solo se ci si colloca tra i destinatari della sua ira.

Ciò che colpisce nelle parole di Gesù è l’alternativa “casa del Padre mio” (o “casa di preghiera” secondo Mc) e “luogo di mercato” (”covo di briganti” sempre secondo Mc). Non c’è una posizione intermedia. Il Tempio che non è casa di preghiera diventa inevitabilmente luogo di mercato. Ma mercante non è solo colui che ricava guadagni in denaro dal Tempio, ma anche chi ne ricava onori, carriera, titoli, voti, privilegi.

Con Dio non si mercanteggia come si fa con i venditori del tempio per il sacrificio. Non si sistemano le cose storte con qualche salmo o qualche PaterAveGloria. Le cose storte si sistemano … raddrizzandole.

Non si può andare in pellegrinaggio al Tempio e poi continuare a rubare, sfruttare, calunniare il prossimo. Non si può essere sinceri con Dio quando si ingannano i propri simili. Dio non accetta le genuflessioni di chi calpesta la giustizia; non consente di sostituire con una “generosa offerta” ciò che è dovuto al prossimo.

Non si va in chiesa per sfuggire alle esigenze etiche più impegnative, ma per prendere coscienza delle proprie responsabilità.

Non ci si può illudere di andare in chiesa a riciclare, con qualche preghiera e qualche offerta, una condotta fondamentalmente contraria alle esigenze della giustizia, dell’onestà e della carità verso il prossimo. Un culto di questo genere è un culto menzognero e la sicurezza che uno ne ricava è una falsa sicurezza.

L’alternativa al Tempio “covo di briganti” è il Tempio aperto, non certo a persone perfette, ma a persone che vogliono vivere nella fedeltà, nella chiarezza e nella sincerità, e che cercano in Dio non un “complice” disposto a chiudere un occhio su certe faccende, ma Uno che guida su una strada di rettitudine.

Quarta domenica

Il Vangelo di oggi rappresenta una di quelle volte in cui abbiamo l’impressione che la Parola non corrisponda più alla realtà. “Chiunque fa il male, odia la luce“. Oggi invece c’è un fracco di gente che compie porcherie assurde e assortite, predica e pratica la violenza, eppure esibisce il tutto in piena luce. Mai come oggi il male viene esibito, pubblicizzato, reclamizzato. Non solo giustificato, ma addirittura esaltato, onorato. “Chi opera la verità viene alla luce”. Pare invece che il pudore, la vergogna, si siano trasferiti nel campo del bene, dell’onestà, della fedeltà, della generosità. Sembra che il buio, il silenzio, non la luce, accolgano i guizzi di verità, di bontà e di pulizia che pure non scarseggiano in questo nostro mondo.

Ma anche in certi ambienti cristiani non è che la luce sia molto di casa. Viene invocata, ma solo per mettere in evidenza le malefatte dell’avversario. Non si ha paura della luce esclusivamente quando è destinata a frugare in casa altrui; ma se ci sono di mezzo le nostre magagne, allora esigiamo il buio, o almeno la penombra. E ci si arrabbia perché si “è saputo” o se ne parla. Non riusciamo ad ammettere che il mezzo più sicuro per impedire che i pasticci si conoscano, è quello di non combinarli. L’unico modo per impedire lo scandalo è quello di scandalizzarci noi, prima di compiere certe azioni non proprio ortodosse. I rimorsi è sempre meglio averli prima.

Perché ad un certo punto arriva la Parola-luce che mi inchioda: “il colpevole sei tu, non un altro”. Il peccato è quello tuo, non quello del tuo prossimo. Se voglio scoprire l’estensione del perdono di Dio, devo accettare, prima di tutto, di lasciarmi rinfacciare, dalla sua Parola, il mio peccato. Non si può capire e gustare il perdono se non si prende lucidamente coscienza della propria colpa.

“Pietà di me, o Dio” dice il salmista. Si, abbi pietà di me innanzi tutto… non avendo pietà. Ossia rivelandomi ruvidamente, senza mezzi termini, senza diplomazie o discorsi sfumati, il mio peccato. E dicendomi chiaramente che ho commesso un’enormità, non un’inezia.

Soltanto accorgendomi del mio peccato come enormità, potrò scoprire l’enormità della misericordia e del perdono divini.

Non mi deve interessare il punto di vista della massa, dell’opinione pubblica, dell’ideologia di turno sul male. A un cristiano, sul peccato, deve interessare unicamente il punto di vista di Dio.

Quando l’uomo ammette, riconosce, le proprie stupidaggini, non vanta i propri errori come imprese gloriose, allora Dio entra in azione. Allora Dio si rivela come amore.

Il violoncellista Pablo Casals confessava di essere solito pregare così al termine della giornata: “Signore perdonami, anche quest’oggi sono stato una bestia. Non lo farò più”. Dal punto di vista di Dio questo può bastare.

Quinta domenica

Il vangelo di oggi inizia con una domanda impegnativa: “Vogliamo vedere Gesù“.

Dico che è impegnativa perché è questa l’esigenza, la richiesta più urgente, anche se spesso inconfessata, del mondo d’oggi nei confronti dei cristiani.

Sta a noi soddisfare questa pretesa legittima. Noi, i cercatori di Dio, dobbiamo essere in grado di coinvolgere anche gli altri in questa avventura entusiasmante.

La vita cristiana, o è manifestazione di Dio, oppure è accademia spirituale, catena di montaggio di opere più o meno buone, orribile chiacchiera come la definisce S. Kierkegaard. Se il Signore non ci ha deluso, proviamo a nostra volta a non deludere le attese dei fratelli.

Dobbiamo però evitare di rispondere a questa attesa nella maniera sbagliata. Maniera sbagliata è soprattutto la pretesa di insegnare Dio. “Vogliamo vedere Gesù”, non abbiamo voglia di sentire dei discorsi intelligenti e pretenziosi sul suo conto. Dovete “mostrarcelo” non “dimostrarcelo”.

Non si insegna Dio. Bisogna raccontare Dio. Manifestare Dio, con entusiasmo, passione, competenza, stupore, e perfino ingenuità.

Succede spesso che ci lamentiamo dell’indifferenza, del disinteresse, del “sonno” degli uomini del nostro tempo nei confronti di Dio. Dovremmo però porci una domanda: e noi che cosa facciamo per risvegliarli, per scuoterli da questa inerzia? qual’è il nostro potenziale di disturbo? quale immagine di Dio siamo in grado di esibire?

Antoine de Saint-Exupéry osservava amaramente: “C’è troppa gente che lasciamo dormire”

Ora, qual’è il dono essenziale della vita cristiana nei confronti del mondo moderno? Io penso che sia il “dono della nostalgia”. Nostalgia di qualcos’altro, di un Altro.

Oltre alla macchina, al televisore, al computer, al telefonino e a una discreta collezione di idoli vari, l’uomo possiede, nelle profondità del suo essere, qualcosa di molto prezioso: il marchio di fabbrica, potremmo anche dire la cicatrice, di Dio (”E dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza). In ogni uomo esiste questo marchio, magari sepolto sotto cumuli di polvere e di sonno.

In questo caso “impedire di dormire” non significa tanto alzare la voce, quanto lasciar intravedere, essere trasparenti. Il nostro compito consiste nel fare da specchio, risvegliare quest’immagine, riportarla alla luce.

Prima di finire vorrei proporre un piccolo esercizio di fantasia. Proviamo ad immaginare che qualcuno, magari proprio questa sera, ci fermi e butti li la stessa richiesta fatta a Filippo: “Vogliamo vedere Gesù”. Riusciamo ad immaginare come ce la caveremmo?

Ma vorrei regalarvi un’altra immagine. Quando morì in un incidente d’auto, l’abbé Amédé Ayfre, il creatore della teologia dell’immagine, aveva 42 anni. La sua epigrafe più bella è stata detta, sia pure involontariamente, da un’attrice che confessò a un giornalista che la intervistava: “Che cosa volete che vi dica … quello era un uomo che quando lo incontravi, ti faceva venire voglia di Dio”

Pensiamoci un po’. Ci è mai successo di sentirci responsabili di aver fatto venire a qualcuno la voglia di Dio?

Domenica delle Palme

L’anno scorso per la domenica delle Palme ho fatto un po’ di teologia degli asini.

Quest’anno invece vorrei andare a scuola di fede da un uomo. Non si capisce bene quale sia il suo mestiere. Per Luca é un “malfattore”, per Matteo e Marco un “ladro” o “predone”. Per la tradizione “brigante e assassino”. Comunque sia è senz’altro un poco di buono, uno da evitare ad ogni costo.

Qui c’è la prima curiosità. Stando ai Vangeli, durante la sua esistenza, Gesù non ha mai avuto l’occasione di incontrare dei briganti. Invece adesso, nel giro di poche ore, ha a che fare con tre di loro. Prima Barabba, il bandito che ha preso il suo posto nella libertà, e poi, sulla croce, è in compagnia di altri due.

Ma in fondo cosa può insegnarci quest’individuo, condannato giustamente, per sua stessa ammissione, a morte? Il ladrone ha saputo scoprire Dio sotto le apparenze di uno giustiziato in mezzo a due ladroni. Riconosce Cristo come Re non nel momento del trionfo, dei miracoli, delle folle osannanti, ma nel momento della disfatta, quando le sue truppe (poco) fedeli sono sparite, quando è nudo, con una corona di spine, quando è esposto a tutti i colpi, compresi quelli del sarcasmo, quando è inchiodato su un trono infamante. Lo riconosce quando è “sfigurato”, non quando è “trasfigurato”.

Può essere facile seguire il Gesù dei miracoli, il Gesù acclamato dalle folle. Molto più arduo seguire il Gesù che non si difende, che si lascia processare e deridere, che si lascia inchiodare su di una croce. È difficile accettare la sua strada di “abbassamento”.

Il ladrone ci ricorda che il paradosso cristiano fondamentale è questo: puntare sulla vittoria, anzi, essere sicuri della vittoria schierandosi dalla parte di questo Re che, secondo le valutazioni umane, è irrimediabilmente perdente. Dobbiamo imparare ad essere dei perdenti, ma non dei perduti.

Qualcuno lo chiama “il contrabbandiere del Paradiso”, dice che ha “rubato” il Paradiso. Insomma, che il Paradiso gli è stato “donato”. Ma chi può “meritarsi” il Paradiso? La salvezza è dono, non merito. È grazia, nient’altro che grazia, e non merito dell’uomo. Neanche i Padri del deserto, gli uomini delle penitenze più dure, hanno pagato il prezzo del Paradiso.

Qualcuno, anzi tanti, dice che è comodo: tutta una vita di bagordi, e poi cinque minuti … e si è in Paradiso. Sembrano quasi molto invidiosi. Sembra che gli siano rimaste sullo stomaco le virtù che sono costretti a praticare. Ma questo, in fondo, vuol dire ritenere che il peccato, la lontananza dal Padre, sia fonte di felicità. Dobbiamo renderci conto che l’ubbidienza alla legge di Dio è motivo di gioia, che il fare la volontà del Padre è festa (anche se rimane una cosa costosa). Se no la nostra fedeltà è una fedeltà da schiavi, in vista del salario finale, non da figli. La virtù è gioia, è libertà, non prestazione onerosa.

Ma in fondo anche Gesù gli deve essere grato. Lui che era venuto a cercare ciò che era perduto, che era il medico venuto per i malati, ha avuto la possibilità di guarire il moribondo quando glielo avevano impedito inchiodandogli le mani. Ha potuto presentarsi al Padre e dire: “Missione compiuta”. Ha presentato al Padre il primo suddito reclutato in un mondo di delinquenti comuni.

E qui abbiamo la seconda curiosità. È l’unico santo canonizzato direttamente da Gesù, eppure per lui non c’è posto nel calendario liturgico. Non si sa neanche il nome. Per i genitori della Madonna si sono accettati i vangeli apocrifi, per lui no. Che sia perché, in fondo, ognuno ci deve mettere il proprio, di nome, su quella croce di fianco a quella di Gesù?

Torna alla pagina principale