La fede e la comunità

Con oggi siamo al nostro ultimo incontro per quest’anno. Però prima di affrontare Timoteo è necessaria una piccola premessa.

Il termine ebraico che indica “comunità” (edà) contiene al suo interno le lettere (e, d) che indicano il futuro. Secondo la tradizione ebraica ci vogliono almeno dieci persone per fare una comunità. Ma cos’è una comunità? cosa fa di un gruppo di persone una comunità? Proprio questa indicazione che ci viene dall’ebraico ci aiuta a capire. È comunità un gruppo che aspira insieme a costruire un futuro. Una comunità è tale quando è fatta da persone che condividono un progetto per il futuro. Senza questa volontà di avvenire non c’è comunità. Non è sufficiente stare bene insieme, perché la comunità non resisterà alla prova del tempo. Le persone col tempo cambiano, e colui che oggi è simpatico domani può diventare insopportabile. Se è solo la simpatia a tenerci insieme la comunità si sfascia.

È solo la tensione verso il domani, verso un avvenire condiviso, che ci fa superare le differenze individuali, le caratteristiche personali. Ma non solo ce le fa superare, ma ce le fa accogliere come un arricchimento per tutti, ci fa accogliere l’altro nella sua persona, nella sua diversità. Il suo essere diverso da me non rappresenta più una minaccia, ma un’occasione di ricchezza e di crescita comune. L’altro diventa un dono. E io divento un dono per gli altri.

Ma torniamo a Timoteo e alle lettere pastorali. Queste ultime ci lasciano intravedere una rete di relazioni molto vasta. Una rete che caratterizza fin dall’inizio la Chiesa e ne fa un luogo di comunione, di collaborazione fraterna e di lavoro di equipe. Ed è proprio questa rete, queste relazioni, che vedremo questa sera. Vedremo prima le relazioni mancate, cioè quelle non riuscite, quelle che si sono interrotte. Poi vedremo le relazioni riuscite. Dopo queste relazioni personali, considereremo le relazioni d’equipe. E finiremo la serata vedendo la Chiesa come rete di relazioni, come comunità.

Relazioni mancate e gli abbandoni

Se è dagli anni ’60, da poco prima del Concilio, che il fenomeno dell’abbandono dei preti ha preso una dimensione eclatante, possiamo dire che il fenomeno dell’abbandono della fede da parte dei fedeli è contemporaneo, ma ha una dimensione molto maggiore. Le lettere pastorali ci fanno sapere che la stessa Chiesa primitiva ha registrato dei fallimenti e degli abbandoni. Le citazioni non sono rare neanche nella 2Tim: 4,9-10; 4,14-15 (si potrebbe pensare che Alessandro il ramaio fosse da sempre un avversario di Paolo, ma nella prima lettera a Timoteo viene citato tra coloro che “hanno fatto naufragio nella fede” dopo aver collaborato con Paolo); 1,15. In una lettera piena di confidenze, queste citazioni ci permettono di renderci conto di quali sofferenze abbia vissuto Paolo per l’abbandono dei collaboratori.

In questo quadro spicca un ritorno, cioè una relazione perduta ma poi ritrovata. Si tratta di quella con Marco (4,11). Un tempo Paolo aveva giudicato Marco indegno di proseguire il viaggio con lui dal momento che precedentemente lo aveva abbandonato per tornarsene a Gerusalemme (At 13,13). Questo fatto aveva anche generato la rottura del rapporto di Paolo con Barnaba, che fino a quel momento erano invece legatissimi (At 15,36-40). Le rotture non sono sempre definitive (a distanza di anni l’apostolo chiama Marco). Ci sono tempi in cui ci si capisce, si collabora bene, e ce ne sono altri caratterizzati da contrasti, da litigi e rotture. Ma può sempre venire il giorno della riconciliazione, della ripresa delle relazioni.

Ma perché ci sono questi abbandoni della fede, della relazione? Anche se la 2Tim non ne parla chiaramente, si possono però cogliere due accenni, uno più chiaro e l’altro solo implicito.

Quello chiaro lo troviamo in 4,10Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente”. Dema era un ottimo collaboratore di Paolo (viene ricordato in Col 4,14 e in Fm 23-24). Come abbia potuto abbandonare Paolo (e la fede) verso la fine della sua vita è un mistero. Ma è un mistero che riguarda ognuno di noi, perché niente ci garantisce che anche noi non saremo tentati fino ad abbandonare. Se riusciamo a perseverare è solo per la grande misericordia di Dio, e dobbiamo perseverare nella preghiera e nella comunione fraterna. La fraternità, il sostegno degli altri, è un elemento indispensabile, soprattutto nei momenti difficili.

Comunque la ragione dell’abbandono di Dema è precisata. Ma in cosa consiste questo “preferire il mondo”? Tradotto in termini moderni possiamo dire che significa preferire la propria realizzazione. Cioè a un certo punto Dema ha perso di vista il primato di Dio, il primato della grazia, il primato dell’amore di Gesù, e ha posto davanti a tutto il suo progetto, ha scelto di realizzarsi come gli sembrava meglio. L’amore del secolo presente è appunto la non sottomissione al disegno di Dio. È questo uno dei motivi principali di abbandono. Dobbiamo sempre cercare il disegno di Dio, non il nostro.

L’accenno implicito lo troviamo in 4,16Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato”. Questi ‘tutti’ non hanno voluto compromettersi, non hanno voluto scegliere posizioni difficili. Può capitare a tutti noi di spaventarci per i rischi che potremmo incontrare, per le difficoltà che comporta una vita di fede.

Possiamo quindi dire che non c’è un abbandono perfettamente identico ad un altro, ognuno ha la sua storia, le sue motivazioni, e anche le sue sofferenze. Da parte nostra possiamo solo vivere in grande umiltà, ricordando le parole di Paolo in 1 Cor 10, 12: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”, perché in ciascuno di noi è sempre in agguato la tentazione di voler realizzare noi stessi alla nostra maniera. E se di fatto questa tentazione non sempre porta all’abbandono della fede, a volte può portare a quelle forme di deviazione della pietà cristiana che sono condannate da Paolo in 2Tim 3, 5.

Ma oltre che all’umiltà, siamo anche chiamati alla vigilanza, una vigilanza da nutrire su di noi, ma anche sugli altri, in particolar modo su coloro che in una qualche maniera ci sono affidati. A ciascuno di noi è affidato anche il compito di portare un poco il peso degli altri, in maniera positiva oltre che negativa, cioè vivendo la fraternità, la comunione, l’accoglienza, il reciproco sostegno.

Relazioni riuscite

Proprio tutta questa lettera (insieme alle altre lettere pastorali) ci offre un esempio di una relazione riuscita. Questa tra maestro e discepolo è una relazione costruttiva, nella quale ognuno è sé stesso e rispetta l’altro. Paolo rimprovera, esorta, richiama, ma si sente che entrambi vivono il primato della grazia e cercano la stessa coerenza, la stessa fedeltà e lealtà. È un rapporto di amicizia in cui ciascuno capisce le prove dell’altro e in cui c’è un aiuto vicendevole: l’anziano pastore ha bisogno di sapere che c’è qualcuno che prende sul serio il suo messaggio e che lo trasmette nella sua integrità. Il giovane pastore, da parte sua, ha bisogno dell’insegnamento dell’apostolo, che gli racconta la sua lunga e travagliata esperienza di vangelo vissuto, per sentirsi consolato e rafforzato.

L’oggetto della relazione, dello scambio, dell’aiuto vicendevole, è quello di agire come Gesù, di conformarsi sempre di più a lui.

Le relazioni d’equipe

Ma le lettera pastorali (e anche tutte le lettere paoline) ci permettono di allargare lo sguardo alle relazioni intorno a Paolo. La 2Tim ci immerge in una rete di relazioni molto ricche, gioiose, a volte anche pesanti, ma tuttavia sempre costruttive. Ci mostra come il lavoro missionario della Chiesa primitiva era un lavoro fatto in equipe. Il NT ricorda in special modo i grandi apostoli, ma in realtà il numero di coloro che lavoravano giornalmente per la diffusione del vangelo, per la crescita della comunità è molto elevato. In questa lettera sono citate 14 persone, mentre nella lettera ai Romani Paolo ne cita ben 36! È quindi una chiesa viva quella che intravediamo in questi scritti di Paolo, e dobbiamo anche pensare che oltre alle persone nominate ce ne sono molte altre, c’è sempre il richiamo a “tutti i fedeli”, alle diverse famiglie.

Anche se le collaborazioni e le amicizie non avevano sempre la stessa forma e la stessa intensità, non c’è dubbio che la chiesa primitiva costituisse una comunità di fede, di fraternità, di misericordia in alternativa alla società sospettosa, conflittuale di quel tempo.

In questo quadro un particolare cenno va fatto a Onesìforo (vedi 2Tim 1,16-18): la frase “venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato” a noi non dice niente. Ma a quei tempi già il viaggio da Efeso a Roma richiedeva alcuni mesi (e non era possibile se non in determinati periodi dell’anno) e poi una volta giunti a Roma le strade non avevano un nome, gli indirizzi come noi li conosciamo non esistevano. Bisognava domandare alle persone per strada se sapevano dove abitava la persona che si stava cercando e il tutto in una città enorme e sconosciuta. Potete immaginare la difficoltà di una tale ricerca, peggio che cercare un ago in un pagliaio!

Ne deduciamo che la predicazione, il successo missionario di Paolo non sarebbe stato possibile senza questi legami con amici sinceri, con uomini e donne che lavoravano insieme stimandosi reciprocamente, volendosi bene e cercandosi.

È vero, e lo abbiamo visto, che nella chiesa primitiva c’erano anche i cristiani tiepidi, freddi, sospettosi, paurosi e infedeli fino a separarsi e a combattere contro il vangelo, però nell’insieme si respirava un’atmosfera di comunione nella fede e nella gioia, una serena letizia.

La Chiesa, comunità

Si può descrivere la Chiesa come rete di relazioni fondate sul vangelo, come comunità collocata in una società frammentata, dalle relazioni deboli, fragili, prevalentemente funzionali e non di rado conflittuali. In particolare nella nostra società le relazioni matrimoniali e familiari sono ormai debolissime e le relazioni esterne appaiono rigide, spesso ideologiche.

In questo senso la Chiesa è (o dovrebbe essere) una comunità alternativa, in cui le relazioni nascono, sgorgano dal vangelo e gradualmente diventano sempre più spontanee e fraterne. Una comunità di questo tipo si pone nel nostro tempo come il sale della terra, il lievito nella pasta, e lo fa senza alcuna pretesa.

È una comunità che corrisponde al progetto di Gesù per la sua Chiesa purché tale progetto sia vissuto in forme di realizzazione aperte alla creatività dello Spirito, non in maniera rigida. La comunità non è e non può essere un gruppo elitario chiuso, autoreferenziale, che si separa superbamente dal tessuto sociale comune; non è e non può essere una setta o una massoneria dove ci si aiuta per ottenere successo nella vita; non è e non può essere nemmeno un’alleanza stabilita per emergere e per contare nella società.

Questa comunità è la Chiesa nel suo insieme e in mille realizzazioni diverse, e allora ha funzione di orientamento e di proposta nella più ampia società degli uomini. A volte diventa visibile a tutti (i grandi viaggi del Papa, o le GMG, che radunano migliaia o milioni di persone) e il mondo resta sbalordito, ma più spesso è la comunità che vive nella dispersione e nel silenzio, che è lievito silenzioso che fermenta a poco a poco la società.

Gli Atti degli Apostoli e le Lettere di Paolo ci fanno vedere diversi modelli di comunità: la chiesa di Gerusalemme, le comunità di Corinto e di Antiochia (solo per fare alcuni esempi) , ciascuna con le proprie caratteristiche, ma unite fra loro dall’ideale evangelico verso cui comminano. Paolo non tace le tensioni e i problemi, ma comunque la comunità pur con i suoi peccati, resta un ideale di fraternità in divenire, destinato a mettere in luce il primato di Dio nella società, a far emergere quanto di meglio c’è nel fondo del cuore umano. Un esempio di questo lo leggiamo nei molteplici legami che univano le Chiese di Macedonia e dell’Acaia con quelle, molto diverse, della Palestina, della Siria e di Roma.

La determinazione di stare dentro la società come fermento è messa bene in luce da Paolo: “Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo” (Fil 2, 14-15). Siate cioè punti significativi di riferimento, sapendo che la funzione di illuminazione non è affidata soltanto ai singoli cristiani, ma anche ai diversi modi di fare e di essere comunità.

Le parole di Paolo intendono sottolineare che l’amore gratuito è raro, e che proprio il proporlo quale possibilità vuol dire aprire al mondo un varco di speranza, offrire al mondo una nuova luce. È questo il messaggio del vangelo: l’amore gratuito esiste ed è quello che fluisce dall’amore di Dio, dalla vita della e nella Trinità.

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