Ct 5,2-6,3

Il Ct è il cantico dell’amore. Ma in ogni rapporto non ci sono solo i momenti belli, ci sono anche le incomprensioni, il non ritrovarsi, il cercarsi. Sono momenti altrettanto importanti, perché ci permettono di crescere, di riuscire ad amare meglio e più profondamente, cioè in modo meno egoistico.

Nel passo di questa sera c’è quindi sviluppato un tema che altre volte era solo sottinteso: il desiderio sospeso, per capirlo meglio e meglio valorizzarlo. Il tema della separazione e della ricerca. C’è da notare che questo tema è presente in tutta la letteratura amorosa, anzi è forse cantato più frequentemente di quello della presenza e del possesso. Il ritrovarsi, lo scoprirsi nuovamente, genera le stesse sensazioni dell’amore appena scoperto.

Il racconto (Ct 5,2-6,3)

(LEI) 2 Io dormo, ma il mio cuore veglia. / Un rumore! È il mio diletto che bussa: / «Aprimi, sorella mia, / mia amica, mia colomba, perfetta mia; / perché il mio capo è bagnato di rugiada, / i miei riccioli di gocce notturne». / 3 «Mi sono tolta la veste; / come indossarla ancora? / Mi sono lavata i piedi; / come ancora sporcarli?». / 4 Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio / e un fremito mi ha sconvolta. / 5 Mi sono alzata per aprire al mio diletto / e le mie mani stillavano mirra, / fluiva mirra dalle mie dita / sulla maniglia del chiavistello. / 6 Ho aperto allora al mio diletto, / ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso. / Io venni meno, per la sua scomparsa. / L'ho cercato, ma non l'ho trovato, / l'ho chiamato, ma non m'ha risposto. / 7 Mi han trovato le guardie che perlustrano la città; / mi han percosso, mi hanno ferito, / mi han tolto il mantello / le guardie delle mura. / 8 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate il mio diletto, / che cosa gli racconterete? / Che sono malata d'amore!

(CORO) 9 Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, / o tu, la più bella fra le donne? / Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, / perché così ci scongiuri?

(LEI) 10 Il mio diletto è bianco e vermiglio, / riconoscibile fra mille e mille. / 11 Il suo capo è oro, oro puro, / i suoi riccioli grappoli di palma, / neri come il corvo. / 12 I suoi occhi, come colombe / su ruscelli di acqua; / i suoi denti bagnati nel latte, / posti in un castone. / 13 Le sue guance, come aiuole di balsamo, / aiuole di erbe profumate; / le sue labbra sono gigli, / che stillano fluida mirra. / 14 Le sue mani sono anelli d'oro, / incastonati di gemme di Tarsis. / Il suo petto è tutto d'avorio, / tempestato di zaffiri. / 15 Le sue gambe, colonne di alabastro, / posate su basi d'oro puro. / Il suo aspetto è quello del Libano, / magnifico come i cedri. / 16 Dolcezza è il suo palato; / egli è tutto delizie! / Questo è il mio diletto, questo è il mio amico, / o figlie di Gerusalemme.

(CORO) 6,1 Dov'è andato il tuo diletto, / o bella fra le donne? / Dove si è recato il tuo diletto, / perché noi lo possiamo cercare con te?

(LEI) 2 Il mio diletto era sceso nel suo giardino / fra le aiuole del balsamo / a pascolare il gregge nei giardini / e a cogliere gigli. / 3 Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me; / egli pascola il gregge tra i gigli.

Il commento

Questo è un brano abbastanza lineare nel suo svolgersi. Un primo quadro descrive il notturno dell’assenza e della ricerca ansiosa. Uno stacco del coro permette alla donna di disegnare un appassionato ritratto del corpo maschile parallelo a quello femminile che abbiamo visto la volta scorsa. Un nuovo stacco del coro e quindi uno stacco brevissimo per far balenare la gioia del ritrovamento.

Il brano inizia nella notte fonda. La donna è all’interno della sua casa e sta dormendo. In realtà il suo amore non sta dormendo ed è come una sentinella attenta ad ogni più piccolo segno. L’originale ebraico è essenziale e limpidissimo, usa solo quattro parole ebraiche: “io dormiente, il mio cuore sveglio”. Ed ecco all’improvviso una voce che fa balzare il cuore: è lui, l’amato che bussa alla porta. Il suo appello è sottolineato dall’intensità dell’invocazione: “Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia”. Lui viene dalla fredda notte e il suo capo è tutto bagnato di rugiada, ha i riccioli impregnati di gocce dell’umidità notturna. È tutto infreddolito e non attende altro che di gustare il calore di quel letto e di quel corpo. Ritorna alla mente il passo dell’Apocalisse (Ap 3,20) che rielabora in chiave mistico-cristologica questo quadro: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”.

Ma ecco una sorpresa. La donna, probabilmente più per vezzo che per pigrizia, si fa desiderare. Questa schermaglia viene descritta dal v. 3: lei si è già spogliata anche della sottoveste sulla quale si portava un manto che ai poveri serviva anche da coperta; ha già fatto il bagno e non vuole sporcarsi i piedi (quasi sempre in casa si camminava scalzi). Si tratta di una ritrosia capricciosa, ma la tradizione ha interpretato la scena come se fosse una parabola della freddezza della sposa Israele nei confronti del suo sposo fedele, il Signore.

In realtà la donna, appena sente che la mano del suo amato armeggia sul chiavistello, viene percorsa da un fremito d’amore e di gioia. L’originale ebraico dice: “le mie viscere si sono commosse per lui”, un’emozione profonda, intima, radicale. C’è una particolare connotazione di femminilità. Le viscere materne nella Bibbia sono il segno di un affetto totale, istintivo, illimitato (Ger 4,19; 31,20; Is 16,11; ma forse il più famoso è Is 49,15: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?”). E per la Bibbia anche Dio ha “viscere” materne di bontà e di misericordia (rahamîm è un attributo “viscerale” frequentemente applicato a Dio nella Bibbia, ma anche nel Corano).

La donna si alza e mentre le sue dita sollevano la maniglia sente il profumo lasciato dalle mani del suo uomo attaccarsi alle sue. Sappiamo tutti il potere evocativo che hanno i profumi, la donna si commuove perché è come se avesse davanti a sé il suo amore in persona. Ma ecco la sorpresa amara sottolineata nel v. 6 dalla ripetizione di quello che era detto nel versetto precedente. La porta si spalanca solo sul vuoto, sulla notte, su un silenzio glaciale. Lo sposo è svanito come un’ombra nella tenebra. E quello svenimento che aveva preso la donna alle parole di lui mentre era in attesa davanti alla porta, ripiomba su di lei, ma non è più uno svenimento d’amore, bensì di terrore. Lei però non vuole rassegnarsi

Inizia allora una scena di grande tensione che si svolge sulle vie e sulle piazze della città deserta e diventata improvvisamente ostile. È una ricerca che ha sempre lo stesso esito, il vuoto. All’improvviso appare una ronda della polizia (v. 7). Di fronte ad una vagabonda la reazione delle guardie è brutale e scatena tutta la loro tensione repressa. Per quelle sentinelle la donna non è che una prostituta e quindi la inseguono, la spogliano del mantello, la percuotono, la feriscono e l’abbandonano sul selciato. Umiliata, la donna non perde però il suo desiderio di ritrovare l’amato. Allora lancia un appello al coro delle “figlie di Gerusalemme” perché anch’esse ai associno alla ricerca del giovane. Esse dovranno comunicare allo sposo un unico messaggio: “Sono malata d’amore” ( la versione greca dei Settanta traduce “Sono ferita d’amore, io!”).

La domanda delle “figlie di Gerusalemme” sulla fisionomia dell’uomo, provoca nella ragazza una nostalgica e dolcissima rappresentazione del corpo del suo uomo. È il parallelo del canto del corpo che lo sposo aveva intessuto su di lei (4, 1-7) che avevamo visto la volta scorsa. E come l’altra volta, anche qui ci troviamo di fronte ad una poetica tipicamente orientale.

Per l’innamorato la persona amata è sempre la più incantevole. Come dice l’originale ebraico del v. 10, lo sposo è come un vessillo spiegato tra diecimila, una bandiera di bellezza in mezzo ad un esercito di eroi, il più forte e il più splendido in assoluto.

Inizia quindi il ritratto dell’uomo in tutta la sua figura fisica. Nell’Antico Testamento vi sono molte descrizioni di bellezza maschile (Sir 50,5-10; Gen 39,6; 1Sam 16,12; 2Sam 14,25), ma quella forse più vicina stilisticamente è quella che descrive la statua del sogno di Nabucodonosor in Dn 2. Ma qui, sotto le parole del poeta, sotto le parole dell’amore, non si ha una statua, ma una persona viva e palpitante.

La sua carnagione non è bruna come quella della ragazza (1,5), ma lui è rubicondo, una colorazione piuttosto particolare e segno, in Oriente, di estrema bellezza e salute. Il bianco è il colore del cielo luminoso, spoglio di nubi (Is 18,4), il rosso è quello del sangue (Is 63,2) o dell’aurora (2Re 3,22). È come se un alone di luce, un’aureola divina lo avvolgesse. Il suo volto è d’oro purissimo, simile alla corona dei raggi del sole (simile a Dn 2,32). Nella descrizione degli occhi ritorna l’animale dell’amore: la colomba. Nella descrizione delle guance si ha forse l’allusione alla barba, che nell’uso orientale veniva spesso impregnata di aromi (cfr. Sal 133,2-3; Sir 50,9).

Tarsis era Gibilterra o la Sardegna e rappresentava quanto di più esotico e lontano si potesse pensare. Era un centro commerciale famoso, e il termine veniva anche applicato a tipi particolari di pietre preziose.

Tutta la descrizione del corpo è un’iridescenza di tinte che lo trasfigurano, lo rendono armonioso e integro. Ci sono anche delle immagini che verranno prese a prototipo da tutta la poesia successiva. Ad esempio la comparazione gambe-colonne è tipica ancora oggi nella poesia araba.

Nel v. 15 l’aggettivo “magnifico” relativo ai cedri del Libano, nell’originale è “giovanile”, che in ebraico veniva usato anche per indicare le truppe scelte, i giovani eroici e coraggiosi.

Alla fine la donna non sa più trattenersi: “egli è tutto delizie!”. C’è in lui una soavità che riesce a stregare, tutto in lui è affascinante, egli ha una forza che conquista anima e corpo. La tradizione mistica ha visto in questo abbandono totale al fascino dell’amato l’adesione che lega il credente al Signore, al suo amore, alla sua bellezza.

La domanda del coro (6,1), anche se rappresenta un crescendo di tensione rispetto a 5,9, si spegne subito ed è subito accantonata perché la scena finale mette in atto la vera risurrezione, quella dell’amore ritrovato. La notte è scomparsa, gli incubi sono svaniti, c’è solo un delizioso giardino, costellato di aiuole di balsamo (simbolo della guarigione) e di gigli (simbolo dell’amore, della tenerezza e della pace).

Il vertice si raggiunge alla fine con una perfetta professione d’amore, che può essere considerata come la sigla, il sunto, di tutto il Ct: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me”. La traduzione più corretta sarebbe “Io sono del mio amato, e il mio amato è mio”. È una delle espressioni più intense della letteratura di tutti i tempi. È la riedizione del primo ed eterno inno d’amore di Adamo quando incontra la sua donna: “carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa.” (Gen 2,23).

Nell’originale questa è espressa da sole quattro parole, simili ad un soffio o ad una melodia brevissima: dodî lî, waanî lô. Un sospiro d’amore che ha in sé anche una sottile ma grandiosa carica allusiva. Infatti nel linguaggio dell’A.T. questa formula, anche se in una versione più distesa, è quella che si usa per indicare l’alleanza tra Dio e il suo popolo (cfr. Dt 26,17-18; 29,12; Os 2,25; Ger 7,23; 11,4; 24,7; 31,33; Ez 34,30-31; 36,28; 37,23.27; Sal 95,7; 100,3; Rm 9,25). Da questa professione di reciproco possesso e di perfetta comunione tra i due sposi si è sviluppata anche l’interpretazione mistica del Ct come canto di nozze tra Dio e il suo popolo.

Al termine di questa scena drammatica e notturna in cui ha dominato l’assenza, questa professione d’amore acquista un sapore più intenso. L’amore ritrovato ha un gusto simile all’amore scoperto per la prima volta. La cosa decisiva è quella di non arrendersi al silenzio, al gelo dell’assenza, all’idea della morte, all’inferno della disperazione e del fallimento. “Padri e maestri io mi chiedo: Che cos’è l’inferno? Io affermo che è il tormento di non essere più capaci di amare.”. (F. Dostoievkij)

Messaggio per noi

Come sempre alcuni spunti per cominciare.....

Mi sono tolta la veste... Mi sono lavata i piedi... ” - Questo episodio può essere letto sotto due punti di vista: o come un momento di pigrizia o come un momento di civetteria. Già questo dovrebbe farci riflettere sulle difficoltà di comprensione reciproca che tante volte si incontrano in un rapporto interpersonale, di qualunque tipo tale rapporto sia (e nessun tipo di rapporto ne è esente). Ma vediamo i due “casi”.

Pigrizia. Anche nel rapporto più profondo e di dedizione più totale capitano sempre dei momenti di “riflusso”. Siamo esseri umani e un po’ di egoismo l’abbiamo sempre, e a volte, per stanchezza, malessere o altri motivi, viene fuori. Anche la persona più altruista, quella che riesce a donarsi sempre e totalmente a volte ha “bisogno” di ricevere. Fa parte del nostro limite. Allora quando capitano questi momenti è necessario prenderne atto, non colpevolizzare né colpevolizzarsi.

Civetteria. Non sempre i nostri “segni d’amore” vengono capiti. Ognuno di noi ha un proprio “linguaggio d’amore”, cioè un modo di comunicare all’altro il proprio sentimento. Ma non sempre questo viene capito, anzi a volte viene frainteso. C’è quindi bisogno di scoprire in che modo l’altro comunichi i suoi sentimenti e adeguare a questo il nostro modo di comunicare.

Mi hanno percossa, mi hanno ferita ...” - Nel primo incontro avevamo sottolineato l’importanza del mondo che ci circonda. Ma questo non è sempre positivo, a volta è anche pericoloso, dobbiamo avere prudenza. Ma nonostante i pericoli non ci si deve chiudere nel privato, nel proprio orticello. Bisogna tener conto del mondo, con tutto il suo peso (sia positivo che negativo), e questo in particolar modo per un cristiano che è chiamato ad essere “sale e luce” del mondo.

L’ho cercato ...” - L’amore passa spesso i tre momenti descritti in questo capitolo: dalla “romanza” (la piacevole intesa dell’innamoramento), alla “delusione” (non ci si trova, non ci si capisce, ci si scontra, ci si sente lontani ...) per approdare (con la buona volontà) alla decisione. Infatti amare non è provare dei piacevoli sentimenti, ma amare è soprattutto una decisione.

Il mio diletto se n’era andato, era scomparso ...” - L’incomprensione a volte fa parte anche del migliore rapporto. Attraverso il dialogo (cioè un buon ascolto, fatto col cuore, e con una buona comunicazione) è possibile imparare a “litigare bene”, cioè a passare dal litigio al confronto. Anche nel rapporto religioso tra uomo e Dio, la Bibbia mostra questa difficoltà: Dio, ma anche Gesù, dispiaciuto per l’incomprensione degli uomini; i Salmi spesso affermano che è l’uomo a non capire Dio.

Che ha il tuo diletto...?” - Nelle parole della donna non ci sono critiche, nonostante il momento di tensione. Ogni rapporto, dopo un po’ di tempo, subisce un logoramento. Il difetto colpisce prima e più facilmente del pregio. E questo vale non solo nel rapporto amoroso, ma in ogni rapporto, con i figli, con tutto il prossimo. Eppure basta pensare a come mi ferisce ogni rilievo denigratorio! Non dimentichiamo mai che questo vale anche per gli altri!!!

Dove si è recato il tuo diletto, perché noi lo possiamo cercare con te?” - L’importanza dell’amicizia e degli amici. L’importanza di avere persone che ci aiutano nella formazione personale e di coppia, con cui affrontare insieme anche le difficoltà. Con cui condividere gioie e sofferenze, con cui ci si aiuta vicendevolmente.

Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me” - Non basta aver proclamato il proprio amore una volta, il giorno del matrimonio. Occorre “sposarsi” tutti i giorni. Bisogna sempre ravvivare il proprio amore, ogni giorno, come il fuoco, altrimenti si spegne. Occorre nutrirlo ogni giorno con atti positivi: parole, gesti, attenzioni, azioni. Ma anche continuamente dirlo, non si può darlo per scontato (“Tanto lo sa che gli voglio bene”, “Ma c’è proprio bisogno di ripeterlo?”). Riaffermare il proprio amore fa bene al coniuge e fa bene a sé stessi.

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