Cristo: il vero senso della vita

La volta scorsa avevamo detto che per capire meglio come superare le tentazioni, trovare il senso di queste, essere fieri del messaggio cristiano, è necessaria una visione della vita, del presente e del futuro.

Nei vv. 9-10 Paolo dà la motivazione teologica delle esortazioni a ravvivare il dono e a non vergognarsi del vangelo, come avevamo visto la prima serata. È il suo modo di rivelare il segreto della sua fierezza per questa grazia, come dice in Rm 5,2, “nella quale siamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio”. Segreto che è espresso, come vi accennavo l’altra volta, sotto forma di un inno cristologico, in una grande visione della vita che è propria di chi, come l’apostolo, ha creduto nell’infinito amore di Dio per l’uomo, amore che è rivelato in Gesù Cristo. Ed è anche propria di chi questo amore l’ha anche sperimentato.

Le lettere pastorali contengono dei frammenti di inni primitivi, probabilmente legati alla liturgia, che sono il frutto della contemplazione comunitaria.

I dubbi e i timori di Timoteo erano, e sono ancora adesso, i dubbi e i timori di gran parte dei credenti e quindi i versetti che prenderemo in esame questa sera possono essere la sorgente a cui attingere nei momenti di smarrimento e di offuscamento della nostra coscienza sostanziale. Sono l’orizzonte cristiano di senso. Allora capite che può essere importante rileggerli nella disposizione ritmica propria di un inno (e che viene a volte proposta in molte traduzioni).

Il testo (2 Tim 1,9-10)

9 Egli infatti ci ha salvati

e ci ha chiamati con una vocazione santa,

non già in base alle nostre opere,

ma secondo il suo proposito e la sua grazia;

grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità,

10 ma è stata rivelata solo ora

con l'apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù,

che ha vinto la morte

e ha fatto risplendere la vita

e l'immortalità per mezzo del vangelo.

Prima di procedere vi ricordo qualche altro inno simile (vi consiglio di andare a leggerveli, qui per brevità non ve li riporto). Innanzi tutto quello di 1Tim 3,16 (basato sulle contrapposizioni carne-Spirito, angeli-pagani, mondo-gloria); 1Tim 1,17 (la lode a Dio come dimensione fondamentale dell’esistenza del cristiano); 1Tim 6,15-16 (questo inno, come quello citato prima, provengono dal repertorio in uso nelle sinagoghe della diaspora, sono cioè dossologie ebraiche, ed è per questo che non contengono menzione di Gesù); e infine Tit 2,11-14.

Lectio dell’inno.

La prima affermazione “Egli ci ha salvati” ci dà la chiave per capire su cosa si deve appoggiare la nostra vita e la nostra azione.

La proclamazione del primato di Dio è l’ispirazione potente che guida Paolo per tutta la sua vita e la sua azione. Con la creazione e la redenzione Dio ci chiama ad essere suoi figli, cioè ad una vocazione santa. Ma c’è un altro aspetto, ed è che ci ha salvato, cioè ci ha tratto da una situazione di morte per guidarci ad una situazione di vita.

Spesso la gente ci pone la domanda (ma se siamo sinceri a volte ce la poniamo anche noi): ma da cosa ci avrebbe salvato Gesù? E alla risposta che ci ha liberato dal male, dal peccato, quando va bene ci domandano cosa sia il male, il peccato, ma sempre più spesso fanno un sorriso sarcastico e se ne vanno via.

L’espressione “ci ha salvato” non va appiattita in una formula da recitare a memoria, senza pensare al vero significato che ha per noi personalmente. La coscienza di essere salvati diventa concreta quando sperimentiamo “da che cosa” siamo stati salvati, quando ci rendiamo conto della vastità del male, quando ci accorgiamo di quanto e di come operano in noi le forze di schiavitù, di annientamento interiore, di restringimento (quando non di annientamento) dei nostri orizzonti interiori.

Timoteo, anche se giovane, ha avuto modo, anche in virtù del suo ministero, di avvertire che in lui e attorno a lui ci sono forze di distruzione continuamente all’opera, sperimenta che l’egoismo prevale sull’altruismo, che l’orgoglio è avido di potere e di successo, che la smania di protagonismo corrode il cuore e l’anima, che la fragilità umana è insuperabile (e tutto questo anche negli uomini di Chiesa). Ed è proprio a partire da questa constatazione che si intuisce l’assoluta necessità di una salvezza dall’alto.

A mano a mano che procediamo sulle strade del vangelo e sentiamo il peso della nostra debolezza, l’inconsistenza dei nostri propositi, l’incapacità a programmare le nostre giornate o il nostro futuro come desidereremmo, percepiamo con forza la grandezza dell’amore di Dio che ci salva dalla disperazione che ci assale.

Per considerare da cosa il Signore ci ha salvato bisogna tener presenti tre realtà.

1 - La prima è quella dei peccati personali, delle nostre fragilità, anche morali, della nostra pigrizia, della nostra ambizione, vanità, sensualità.

2 - La seconda realtà è quella del male presente nella società e nella storia. È importante ampliare la nostra riflessione ai tanti peccati strutturali e sociali, a quelle che vengono chiamate le strutture di peccato, che gravano su di noi. Questo perché più cerchiamo di essere fedeli al vangelo, di progredire nella nostra amicizia con Dio, più scopriamo le ingiustizie che ci condizionano nelle scelte, che ci limitano e ci soffocano. E ci rendiamo conto che non solo noi siamo condizionati, ma anche ogni persona, ogni uomo e ogni donna.

Nel momento in cui ci rendiamo conto delle strutture di peccato nelle quali viviamo e ci rendiamo conto di far parte di un mondo ingiusto e violento che ci fa corresponsabili di situazioni ripugnanti, capiamo da che cosa dobbiamo essere salvati.

È vero che questi peccati dal punto di vista morale non ci possono essere imputati, tuttavia sono parte della nostra schiavitù. L’uomo è incapace di creare un ordine sociale giusto, dove non ci siano la fame, la povertà, la miseria e le sopraffazioni. Neanche le organizzazioni internazionali create per sovvenire ai bisogni dei più deboli riescono ad operare in modo che il bene di alcuni non sia il male di qualcun altro. E così la storia dell’umanità va avanti di peccato in peccato, di guerra in guerra.

3 - Ma questo non è ancora tutto. Ai peccati personali, a quelli sociali e alle ingiustizie con cui ogni uomo è complice per il solo fatto di esserci, va aggiunta una terza realtà: il peso delle deviazioni sociali che impediscono di giudicare, di discernere correttamente. È il peso delle false e distorte ideologie, delle filosofie che legittimano il male, dandogli durata e persistenza. Il male viene chiamato “bene” per ragioni di stato, di razza, di interessi economici e/o personali. La salvezza di Dio, il suo farci passare indenni attraverso questo oceano di male equivale a essere chiamati come Lazzaro fuori dalla tomba, come gli Ebrei fuori dall’Egitto passando il mar Rosso, è un miracolo.

Quindi è dalla contemplazione del mistero del male che nasce la consapevolezza di cosa vuol dire essere salvati, di essere chiamati da una situazione di morte per venire alla luce della vita. E questo ci rende capaci di ringraziare e lodare perché “Egli ci ha salvati”, come fa Paolo.

Quindi la chiave di volta della storia è Gesù che ci fa uscire dal male, non mettendoci al riparo da esso, ma insegnandoci, ed aiutandoci, ad entrarvi per trarne il bene. E non è una cosa facile, anzi! È molto probabile che occorra tutta una vita per imparare questo fondamentale mistero cristiano. Questo perché è totalmente oltre il nostro modo comune di pensare, che vorrebbe eliminare il male una volta per sempre, vorrebbe vincerlo come si vince una guerra: annientando il nemico.

Poiché “Egli ci ha salvati” io posso entrare nel male del mondo e uscirne con la libertà, con la gioia, con la certezza che questo male è stato vinto almeno in me e che può essere vinto nella Chiesa. La Chiesa non è una società dove la vittoria sul male è già ottenuta, ma è la comunione di coloro che hanno accettato di entrare con Cristo nella morte per uscirne nella Sua risurrezione.

I primi cristiani hanno visto ben presto che Gesù non ha cambiato visibilmente le sorti del mondo: è morto lui stesso; ma è risorto, cioè ha vinto il male col bene.

Ecco il filo conduttore degli inni che troviamo nelle lettere pastorali, e anche in quello meraviglioso di Fil 2,6-11: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio …

La contemplazione della gloria di Gesù nella sua morte e risurrezione è la sola che ci dona una visione concreta della realtà, che ci riapre l’orizzonte cristiano.

Ma la salvezza donataci ha uno scopo, difatti “ci ha chiamati con una vocazione santa”, cioè la vocazione di diventare figli nel Figlio. E questo non certo per nostro merito (non siamo noi che ci salviamo con le nostre opere), “ma secondo il suo proposito e la sua grazia”. Tutto questo ha un nome: Gesù Cristo. E ci apre ad una visione di eternità “che è stata rivelata solo ora con l'apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo”.

Paolo nella composizione di questo inno è stato spinto quindi dalla coscienza vivissima della centralità storica di Gesù, dalla signoria di Gesù sul mondo. Questa coscienza si basa su di una profonda esperienza cristiana che lo ha portato ad una visione unitaria, positiva, concreta e completa della storia. Paolo sa che, al di là delle apparenze, il mondo va nel senso voluto da Dio, sa che Lui attira a sé il mondo, anche se conosce le crudeltà e i mali dell’umanità.

Messaggio per noi oggi.

Questa visione dell’apostolo acquista tutta la sua forza e pregnanza se la confrontiamo con le visioni del mondo e della storia oggi imperanti. Queste sono visioni estremamente anguste, esperienze frammentarie legate al solo presente, all’attimo e all’individuale. Al massimo, per chi ce l’ha, qualche sintesi ideologica di tipo civile.

Nel mondo occidentale siamo passati dall’epoca delle ideologie ad una situazione di totale confusione e incertezza. In assenza di visioni positive e globali trionfa la libertà, ma una libertà priva di ogni contesto, di ogni orizzonte. La scoperta della libertà a livello popolare e generale è un fatto molto importante e positivo, perché l’uomo è coscienza e libertà. Ma una libertà senza orizzonti non sa dove dirigersi perché avendo abbandonato ogni legame morale, ogni tradizione, ogni abitudine, ogni disciplina, si aggira alla cieca, senza punti di riferimento. E una libertà senza una meta, a forza di girovagare senza scopo, finisce per cadere tra le braccia di una dittatura, che può essere politica, o culturale, o economica, ma che finisce per uccidere ogni libertà e di conseguenza negare l’essere umano.

Quindi il messaggio di questo inno paolino sempre attuale, ma in particolar modo per il mondo odierno, è questo: la nostra fierezza è la visione cristiana che ci insegna che la vera libertà è chiamata a lottare contro il male del mondo, per uscirne vittoriosa con Cristo crocifisso e risorto.

Non si tratta solamente di resistere nella fede, si tratta invece di offrire la chiave risolutiva ad una società che, essendo pervenuta al massimo storico della libertà, non sapendo dove e come situarla, si sta avviando verso un grave pericolo per la libertà stessa, e quindi per l’uomo.

Proprio questa fierezza fa dire a Paolo, rivolto a Timoteo: “Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro”, non aver vergogna della grazia che ci è stata data, grazia che, oltre alle cose che vedevamo la volta scorsa, ci permette soprattutto di avere un orizzonte di senso, una visione più ampia. Sulla scia di Timoteo siamo sollecitati ad allargare il nostro cuore, a non lasciarsi impigliare, a sentire il valore risanante e affascinante di questa visuale che ha al centro Gesù, e Gesù morto e risorto. E una volta recepito questo, siamo chiamati a mostrare agli altri questo valore capace di ordinare i problemi e le difficoltà con cui ci scontriamo quotidianamente.

Paolo, attraverso la lettera a Timoteo, rivolge a noi oggi un appello accorato. Ci dice di non accettare le corte vedute, di non arroccarci su orizzonti limitati sia nel tempo (ciò che conta è solo l’immediato) che nello spazio (ciò che conta è solo la mia persona). Siamo chiamati a spaziare in tutta l’ampiezza dell’annuncio. Ma non si tratta di fare un’esperienza teorica, intellettuale, si tratta piuttosto di compiere un esercizio esistenziale, un’esperienza personale di sintonia col mistero della croce, col mistero eucaristico che ci toglie la paura, ci dona la pace, e ci rende capaci di ricollocare ogni cosa al suo posto.

Certamente, almeno in occidente, ci sono anche altre sfide non meno gravi, come ad esempio le nuove ideologie integraliste, le nuove ideologie gnostiche. Ma è proprio di fronte a tali e tanti fenomeni che siamo in grado di apprezzare la grazia della religione cristiana, della rivelazione di Cristo come Signore della storia e salvatore dell’umanità. E noi siamo chiamati a mettere in luce il valore di unità, di senso che Gesù ha per tutti gli uomini di tutti i tempi, ma soprattutto per i contemporanei.

Non è un compito facile, anzi è molto arduo e ampio. Quindi è necessario lasciarsi nutrire dalla Sacra Scrittura, da quella grande visione del mistero di Dio, rivelata in Gesù, che ha fatto fiorire gli inni cristologico dell’inizio del cristianesimo.

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