La Chiesa nei secoli XI-XVI


XI SECOLO

Dalla fine del X secolo, apparvero chiari segni di redenzione: dopo Silvestro II, Leone X (1048-54) e Nicola II (1059-61) restaurarono il prestigio del papato. Per sottrarre l'elezione del pontefice alle pressioni dell'aristocrazia romana e dell'imperatore tedesco, il concilio lateranense (1059) decise di riservare questa elezione ai soli cardinali. I Papi riformatori trovarono ardenti sostenitori tra i monaci di Cluny. Una serie di abati insigni (Odone, Mayeul, Odilone, Ugo) giunsero a dar vita a duemila monasteri e priorati, che costituirono attraverso l'Europa un vasto impero monastico. La Chiesa ben presto reagì contro la feudalità: lottò contro le continue guerre private imponendo la pace di Dio, oltre alla tregua di Dio; per colpire le trasgressioni si servì di sanzioni assai temute (scomunica, interdetto); favorì e cristianizzò le usanze della cavalleria. Mentre l'evangelizzazione continuava a estendersi verso est, continuò ad aggravarsi la crisi tra la Chiesa d'Occidente e quella d'Oriente. Gli imperatori, pur incapaci di ricacciare i barbari d'Occidente, anche abbandonando praticamente Roma alla sua sorte, non cessarono di intervenire nelle questioni dottrinali e si posero a volte in aperta opposizione al papato. D'altra parte essi sostenevano le pretese dei patriarchi di Costantinopoli che avevano sempre avuto la tendenza a rivaleggiare con i pontefici romani, e reclamavano il titolo di "patriarca ecumenico". Il papato da parte sua si avviava alla rottura, rivolgendosi decisamente ai Franchi e restaurando, a vantaggio di Carlomagno, l'antico impero d'Occidente. Un primo scisma bizantino, sotto Fozio, fu contenuto dall'azione energica dei papi Nicola I e Adriano II (VIII concilio ecumenico di Costantinopoli, 869-70): la frattura definitiva fu provocata dal patriarca Michele Cerulario (1043-58) che aveva chiuso d'un tratto tutte le chiese latine a Costantinopoli. Qualsiasi conciliazione si dimostrò impossibile nel giugno 1054, in parte per l'altezzosa inettitudine del legato pontificio, il cardinale Umberto; Leone IX scomunicò Michele Cerulario e la chiesa d'Oriente uscì dalla comunità cattolica. L'XI secolo vide sbocciare la riforma della Chiesa, preparata dal decreto del 1059 che affidando l'elezione papale ai cardinali, restituiva al papa la sua indipendenza dal potere temporale. Questa riforma della Chiesa condotta dall'interno, partendo dalla propria tradizione, si incarna essenzialmente nell'opera di Gregorio VII (1073-85): questi lottò aspramente contro la simonia, il matrimonio dei preti, tutti i vizi e i compromessi del clero, ma soprattutto contro la radice del male, le investiture laiche. Ne derivò, nel 1076, un violento conflitto tra il papa e l'imperatore Enrico IV che non voleva rinunciare al controllo sulla chiesa tedesca: fu l'inizio della lotta per le investiture. Nonostante l'umiliazione dell'imperatore a Canossa (25.01.1077), il papa morì in esilio, e apparentemente vinto (1085). Gli ideali gregoriani avrebbero tuttavia trionfato con i suoi successori, sia in Inghilterra grazie all'opera di Lanfranco (1005-1089) e di Anselmo (1033-1109) sia in Germania, dove l'imperatore Enrico V accettò il concordato di Worms (1122) che stabilì la separazione dell'investitura spirituale, con la croce e l'anello, dall'investitura temporale, con lo scettro. Ciononostante il conflitto tra la Chiesa e l'impero, iniziato sotto Gregorio VII, sarebbe continuato ancora per due secoli; i protagonisti principali di esso furono, dalla parte della Chiesa i papi Alessandro III (1159-81), Innocenzo III (1198-1216) e Innocenzo IV (1243-54); dalla parte dell'impero, i grandi imperatori Hohenstaufen, Federico I Barbarossa (1152-90) e suo nipote Federico II (1212-50). Le mire dell'imperatore in Italia minacciavano direttamente l'indipendenza del papato che, dopo aver conosciuto lo scisma e l'esilio, uscì vincitore da questa prova alla fine della dinastia Hohenstaufen (1268). Il pontificato di Innocenzo III segnò l'apogeo della teocrazia pontificia e secondo la teoria dei due poteri, che non fu mai definita quale dogma, ma espresse il più alto ideale politico della Chiesa medievale, il papa, pretendeva la subordinazione dei principi cristiani, arrogandosi il diritto di giudicarli e anche di deporli per motivi spirituali.



XII-XIII SECOLO

L'ideale di unità ha contraddistinto tutte le grandiose realizzazioni della cristianità medievale: è questo ideale che ispirò le crociate (1095-1270) e la "riconquista" spagnola sui Mori; che spinse i dottori scolastici a cercare una conciliazione sempre più intima tra fede e ragione e a creare quelle sintesi integrali del sapere umano, il cui esempio più completo fu la Summa Teologica di Tommaso d'Aquino (1225-1274); ancora lo stesso ideale mobilitava il braccio secolare per la lotta contro le eresie, considerate una doppia minaccia per la fede e per la società; esso ancora si sforzava di conciliare lo spirito cristiano con l'amor cortese e con l'ideale cavalleresco della guerra stessa. Questi sforzi convergenti daranno vita a molti nuovi ordini religiosi. Mentre Cluny era ormai sulla via del declino, il XII secolo vide fiorire dall'antico ceppo benedettino le severe riforme di Citeaux e di Clairvaux; la tradizione eremitica riviveva presso i certosini. La crociata fece sorgere ordini militari: i Templari, gli Ospedalieri, l'Ordine Teutonico. Ma lo sviluppo delle città, la necessità della lotta contro le eresie e il desiderio di un'autentica povertà evangelica portarono alla comparsa, nel XIII secolo, degli ordini mendicanti con Francesco d'Assisi (1182-1226), Domenico di Guzman (1170-1221), ma anche carmelitani ed eremiti di sant'Agostino, che rinunciavano non soltanto alla proprietà individuale (come i benedettini), ma anche alla proprietà collettiva e si votavano all'apostolato sotto ogni forma, soprattutto la predicazione e l'insegnamento.



Francesco d'Assisi (Assisi ca. 1182 - ivi 1226). Il padre, Pietro di Bernardone, solito recarsi in Francia per il suo commercio di tessuti, pare avesse condotto dalla Provenza in Assisi la sposa, madonna Pica; per questo avrebbe mutato in quello di Francesco ("francese") il nome di battesimo (Giovanni) del figlio. Francesco, ragazzo, studiò un po' di latino, più e meglio (ma non bene) il francese; imparò anche a scrivere, ma assai male. La sua giovinezza, trascorsa serena e spensierata, lo vide in armi, a difendere Assisi contro Perugia. Fatto prigioniero dopo lo scontro di Collestrada (1204) e caduto gravemente malato dopo la sua liberazione, tentò nuovamente la carriera delle armi, ma, mentre andava a raggiungere in Puglia le truppe di Gualtieri di Brienne, si fermò a Spoleto e tornò indietro. Iniziò così un rivolgimento interiore che culminò nella conversione. "Essendo io in peccato, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi, ma lo stesso Signore mi condusse fra loro ed io esercitai misericordia con loro. E partendomene, ciò che mi era apparso amaro mi fu convertito in dolcezza nell'animo e nel corpo. E poi tardai poco e uscii dal secolo"; così egli stesso alla vigilia della morte descrisse la sua "conversione" che, in lui nato ed educato cattolicamente, consistette nel trovare fonte di gioia spirituale e materiale in quello che la debolezza umana ritiene fonte di vergogna e di dolore. Era, in altri termini, una valutazione di quelli che sono gli obblighi del cristiano verso i propri fratelli. La decisione fu presa davanti al crocifisso della chiesetta di S. Damiano, ai piedi del Subasio (autunno 1206). Dopo un mese di ritiro, invano cercato dal padre, Francesco, ancora incerto sulla via da seguire, ritornò ad Assisi. Qui scoppiò il contrasto con il padre; e poiché il denaro era il pretesto per il quale Bernardone perseguitava il figlio, questi, citato a giudizio davanti al vescovo, si spogliò persino degli abiti che indossava, affermando che da allora non avrebbe più invocato il padre Pietro ma il "Padre nostro che è nei cieli" (apr. 1207). Da allora andò sempre più affinandosi la vocazione e l'esperienza interiore, che portò Francesco a cercare non una pratica di ascetismo e di pura contemplazione, ma dei compartecipi e dei fratelli. Il 24 febbr. del 1209 il sacerdote che nella cappella della Porziuncola celebrava la Messa alla presenza di Francesco, sembrò formulare, con la lettura di Matteo 10, 5 segg. che riferisce della missione affidata da Gesù ai Dodici, il programma al quale Francesco era stato chiamato. Il mondo aveva ancora bisogno di essere riportato a considerare come meta unica e prossima del suo travaglio il Regno dei cieli e Dio ne aveva costituito lui, Francesco, araldo. Ai pochi compagni (Bernardo da Quintavalle, Pietro Cattani, Egidio d'Assisi, Angelo Tancredi, frate Masseo, frate Leone, frate Ginepro), che si raccolsero in breve intorno a Francesco, egli comunicò la missione ricevuta ripetendo le parole di Gesù che lo avevano tanto colpito. Nei pochi incisi del Vangelo che prescrivevano di andar predicando il Regno dei cieli, senza portare con sé oro né argento, né bisacce, né tuniche, né sandali, né bastone e di entrare nelle case salutando col dire "pace a questa casa" (Matteo 10, 7 segg.; 19, 21; Luca 9, 2 segg.), e che costituirono la sostanza della breve regola da Francesco presentata nel 1210 a Innocenzo III, in Roma, è tutto il programma religioso di Francesco. Esso non fu, né volle essere, alle sue origini, che una reincarnazione per gli uomini del sec. XIII, della metànoia neotestamentaria. Francesco ebbe nettissima sensazione dell'importanza eccezionale del compito che gli era stato provvidenzialmente affidato: "io non voglio segnare altra via e foggia di vita che non sia quella misericordiosamente mostratami e donatami dal Signore. Il progetto tuttavia suscitò nella curia romana - resa guardinga dal pullulare dei movimenti "apostolici" eterodossi - difficoltà, superate grazie alla protezione del vescovo di Assisi e del card. Giovanni di S. Paolo. La leggenda attribuì più tardi a Innocenzo III il celebre sogno; comunque il papa impartì a Francesco la tonsura e concesse una prima approvazione. Francesco con i compagni ritornò ad Assisi, fissandosi a Rivotorto, quindi alla Porziuncola, ove diede l'abito a Chiara (1212). Ma già pensava di predicare non soltanto in Italia. Dopo un viaggio a Roma (forse conobbe allora la nobile Iacopa Frangipane, nota anche come Iacopa de' Settesoli), lasciato in Assisi come suo vicario fra Pietro Cattani, s'imbarcò ad Ancona su una nave che salpava per l'Oriente; una tempesta lo gettò sulle coste dalmate (1212-13; secondo altri 1214-15) donde tornò in patria. Né più fortunato fu un tentativo di passare in Marocco (probabilmente 1214-15), perché in Spagna una grave malattia lo obbligò a ritornare. Celebrando nella Pentecoste del 1217 la prima adunanza generale dei suoi religiosi, aveva affermato l'opportunità di allargare il campo del lavoro apostolico, dividendo in province l'Italia e stabilendo missioni nei paesi d'oltralpe e in Siria. L'entusiasmo di Francesco aveva così scosso il cuore di tutti, che nel capitolo dell'anno seguente sei frati minori si recarono in Marocco, dove Bernardo e gli altri subirono il martirio (1220). Francesco stesso, celebrato alla Porziuncola il secondo capitolo generale, nel 1219, si diresse di nuovo alla volta di Ancona per passare in Oriente. In agosto era a Damietta assediata dai Crociati; poi, con frate Illuminato, si presentò al sultano al-Malik al Kāmil, per annunciargli il Vangelo. Non riuscì a convertirlo, ma non subì alcuna persecuzione, anzi ricevette da lui un salvacondotto, munito del quale visitò indisturbato la Palestina. Ma le notizie che gli giungevano dall'Italia lo indussero a tornare (1220, autunno). Si stava determinando in seno al movimento una crisi di sviluppo che minacciava di snaturare l'essenza del messaggio francescano. D'altra parte la curia aveva compreso che, se immenso vantaggio le sarebbe derivato dal movimento francescano, questo, nato come movimento di apostoli, non legato a sedi fisse e a una norma canonica, privo di regolare disciplina interna, non avrebbe potuto costituire qualcosa di veramente salutare per la vita della Chiesa, se non fosse stato inquadrato nella sua organizzazione. L'ambiente in cui erano stati reclutati i primi seguaci era inoltre assai eterogeneo: laici ed ecclesiastici, uomini di cultura e analfabeti, asceti e uomini di azione erano fatalmente portati a vedere e a interpretare ciascuno a suo modo l'ideale bandito da Francesco. Questo inconveniente aveva già assunto proporzioni allarmanti quando, col moltiplicarsi dei fratelli, Francesco si era visto intorno non più una comunità di pochi entusiasti soggiogati dalla sua personalità religiosa, ma una folla di seguaci che non sapevano distinguere l'ammirazione e la devozione per lui dagli atteggiamenti ad essi istintivamente suggeriti dalla propria personalità. La storia dell'opera sapiente con cui la curia pose a poco a poco l'ordine nascente sotto il suo controllo diretto, mentre Francesco s'induceva ad abbandonare (autunno 1220) nelle mani di un suo vicario (Pietro Cattani, e dopo la morte di questi, dal marzo 1221, frate Elia) la carica di superiore generale pur cercando al tempo stesso di mantenere l'alta direzione del movimento, conservando a questo il carattere autonomo e libero impressogli alle origini, è anche una storia di tribolazioni per Francesco, non sempre capace di intendere gli scopi della curia, benché assistito e, nei rapporti con questa, protetto dal cardinale Ugolino de' Conti (il futuro papa Gregorio IX). Ma Francesco non volle adottare la regola dei benedettini o degli agostiniani e volle darne ai suoi frati una conforme al suo spirito; solo dopo almeno due tentativi (uno dei quali è rappresentato dalla cosiddetta "Regola prima" - in realtà seconda - del 1221 presentata al capitolo di quell'anno, probabilmente quello stesso detto delle stuoie e in cui fu altresì deciso l'invio dei missionari in Germania) egli riuscì nell'intento, compilando una Regola, capace di soddisfare insieme le sue aspirazioni e le esigenze della Chiesa. La Regola fu approvata da Onorio III il 29 novembre 1223, data che può essere assunta come quella di nascita dell'ordine francescano. Ma è anche la data con cui inizia la "passione" di Francesco. Non gli dava pace il dissidio fra quanto aveva sognato e l'evidenza dei fatti; varie malattie minavano quel corpo che le fatiche e le austerità avevano indebolito. Salito, come altre volte, sul Monte della Verna, donatogli dal conte Orlando de' Cattani, là, durante la Quaresima del 1224, mentre in orazione spasimava di sentire il martirio ineffabile di Cristo e di provare insieme l'ardente e fiammeggiante carità, sentì un che di misterioso operarsi in lui: le mani e i piedi mostravano neri chiodi carnosi e nel petto si era prodotta una ferita sanguinante. Ma soffriva anche fisicamente, indebolito da dolori viscerali e dalla malattia agli occhi che lo aveva reso quasi cieco. Pure nella sofferenza - tornato nella valle di Rieti, a Fonte Colombo e a Greccio - egli trovava motivo di dolce serenità: del 1223 è il presepe di Greccio, del 1225 il Cantico delle creature. Tornato, per morire (dopo la permanenza nell'episcopio di Assisi), alla Porziuncola, dopo aver chiamato a sé la sua protettrice Iacopa de' Settesoli ("frate Iacopa"), si congedò dai frati ed espresse nel suo testamento (che volle fosse osservato come supplemento alla Regola, vietando che questa e quello fossero oggetto di glosse o interpretazioni) tutti quei principi che, pur così vicini al suo spirito, non avevano potuto essere espressi nella Regola; morì, circondato dai suoi frati, il 3 ott. 1226, dopo il tramonto. La pratica della povertà non è il fine dell'ideale francescano, né l'unico mezzo per il suo raggiungimento. È piuttosto un corollario dell'affermazione evangelica e francescana che valori essenziali siano quelli che permettono la realizzazione del regno di Dio fra gli uomini. Le condizioni sociali del tempo misero in rilievo la pratica di vita francescana a scapito dell'ideale religioso che la suggeriva; l'ordine francescano, nel suo concretarsi, fu portato ad assumere come ideale quello che dell'ideale non era se non una logica conseguenza. D'altra parte, alle origini la religio francescana non assume esteriormente il carattere di un ordine regolarmente costituito. La breve regola del 1210 era "una regola di vita e non di organizzazione conventuale", era il Vangelo stesso, unica regola per tutti coloro che si sentissero chiamati dalla parola di Francesco a riprodurre nella loro, la vita di Gesù. E la vita evangelii Jesu Christi consiste per Francesco (si parafrasa qui la cosiddetta "Regola prima" del 1221 e il testamento) nel vivere in obbedienza e in carità, nello spogliarsi di tutto, nel non ritenersi primi tra i fratelli, nell'andare apostoli raminghi a predicare la conversione in vista del Regno di Dio, nel domandare i mezzi del proprio sostentamento al lavoro, anche il più umile, e, in mancanza di questo, all'elemosina. Ma, né come compenso al lavoro, né per elemosina, né direttamente, né indirettamente, i fratelli devono chiedere o accettare denaro, bensì devono seguire l'umiltà e la povertà di Cristo che, figlio del Dio vivente, pose il suo volto sulla pietra durissima. Dovunque si trovino, i fratelli si devono considerare sempre come ospitati, pellegrini e stranieri, mai come padroni, e devono essere pronti a cedere il loro giaciglio a chi lo richiede. Devono accogliere tutti, anche i nemici, i ladri e i masnadieri; non devono resistere al male: se qualcuno li percuote sulla guancia, gli porgano l'altra e se qualcuno strappa loro la veste, gli consegnino anche la tunica. Diano a chi chiede, non richiedano il tolto. Chi digiuna non giudichi chi mangia e a tutti sia lecito mangiar tutto. Quando si è malati non si desideri alleviare il tormento del corpo prossimo a morire, che è nemico dell'anima. Perciò il movimento francescano, nell'aspirazione e nei fini squisitamente religioso, investì necessariamente tutti gli aspetti della vita, implicando nei suoi presupposti una valutazione di essi radicalmente sovvertitrice, con vastissime risonanze di carattere sociale, nell'Europa agitata da una terribile crisi (la Chiesa impegnata nella lotta contro l'Impero; l'affermarsi dei Comuni italiani, con le loro lotte interne e il conseguente enorme spostamento di interessi economici e sociali). Ma proprio allora, con l'eloquenza di un esempio mai visto prima, Francesco predicò l'amore verso Dio e tutte, indistintamente, le sue creature, il completo distacco dalla ricchezza e dalla potenza, considerate come unico ostacolo a raggiungere la vera meta: la pace nell'attesa del Regno, l'eguaglianza vera che si conquista non sentendosi primi fra i fratelli, ma veramente "minori" (minores era la denominazione con cui era nota la parte popolare assisana) e sottomessi a tutti. È dunque altrettanto eccessivo vedere il movimento francescano quasi esclusivamente come la fondazione di un nuovo ordine religioso, inquadrato nell'organizzazione ecclesiastica (come quello che pure ne derivò), quanto volerne fare un movimento religioso a fondo schiettamente laico. L'una e l'altra concezione trascurano troppo la meravigliosa personalità e l'attività del fondatore. E va tenuto presente anche un altro elemento. Anche il movimento valdese, l'umiliato, l'arnaldista e altri, si erano presentati, come quello francescano, quali tentativi di compiere la purificazione della società con la predicazione della povertà evangelica. Ma laddove questi movimenti erano animati tutti da una netta opposizione alla Chiesa di Roma ritenuta fonte di ogni male, Francesco professò sempre verso la Chiesa rispetto e sottomissione mai venuti meno; essa è per lui l'unica fonte di disciplina e di dottrina, centro di tutta la vita religiosa.




XIV-XV SECOLO

Alla fine del XIII secolo, il papato aveva vinto l'impero e dopo il grande interregno (1250-73), la Germania cadeva nell'anarchia feudale; ma di fronte alle ambizioni universalistiche del papato si levò una nuova potenza: la Francia capetingia. Filippo il Bello rivendicò l'indipendenza dello stato di fronte a Bonifacio VIII (1230-1303) che invano lanciò contro di lui le bolle Clericis Laicos (1296) e Unam Sanctam (1302) prima di venire moralmente stroncato dall'affronto di Anagni (07.09.1303). La sua morte segnò la fine della teocrazia papale che doveva soccombere di fronte alle nuove monarchie nazionali. Mentre la cristianità si divideva, il trasferimento del papato ad Avignone (1309-76) e gli eccessi del fiscalismo papale minarono gravemente il prestigio della Chiesa. Le miserie della guerra, la peste nera, la propaganda delle sette eretiche e degli illuminati, portarono confusione negli spiriti. Alla morte di Gregorio XI, il grande scisma d'Occidente (1378-1417) portò il caos al colmo: due papi, uno a Roma, l'altro ad Avignone, poi dal 1409 tre papi si levarono l'uno contro l'altro. L'unità fu finalmente ristabilita al concilio di Costanza, con l'elezione di Martino V (1417), ma l'avvilimento della Santa Sede era testimoniato dal successo della teoria conciliare che, diffusa soprattutto dall'università di Parigi, affermava apertamente la supremazia del concilio sul papa; questa tendenza si affermò particolarmente al concilio di Basilea (1431-49). Ancora più radicali, John Wycliff (1331-1384) in Inghilterra, Jan Hus (1371-1415) in Boemia, misero in discussione non solo il papa ma la gerarchia ecclesiastica, i sacramenti, la tradizione della Chiesa e, preludio della Riforma, lasciarono sussistere come unica base della fede la Sacra Scrittura. Di fronte alle nuove correnti la Chiesa esitò tra la tolleranza e la repressione. Nella decadenza dei costumi che accompagnava il ritorno, più o meno riconosciuto, degli spiriti migliori all'antichità pagana, i papi sembravano aver dimenticato troppo spesso il significato spirituale della loro missione: quali sovrani temporali si intromettevano nelle guerre italiane, come Giulio II (1503-13); esteti fastosi, come un Sisto IV, ricorrevano a qualsiasi espediente per procurarsi denaro (indulgenze, cumulo di benefici) e praticavano un detestato nepotismo; lo scandalo della corte romana raggiunse il culmine con Alessandro VI Borgia (1492-1503). Pur tuttavia si fecero strada aspirazioni a una riforma della Chiesa: un Savonarola (1452-98), pur con i suoi eccessi, testimoniava la profonda inquietudine degli spiriti, ma il concilio laterano (1512-16) si limitò a provvedimenti insufficienti. Nel momento in cui le grandi esplorazioni marittime aprivano l'Asia e l'America all'evangelizzazione, la chiesa era minata al suo stesso centro: la Riforma, che i suoi capi non avevano avuto il coraggio di intraprendere, sarebbe stata portata avanti al di fuori di essa e contro di essa.



XVI SECOLO

Le vicende della Riforma protestante sono inizialmente compendiate negli avvenimenti personali e spirituali di un monaco agostiniano nato nella città sassone di Eisleben nel 1483: Martin Lutero (1483-1546). Spirito inquieto, egli aveva scoperto nella Lettera ai Romani di Paolo il testo che, fondando la salvezza sulla fede, doveva diventare la base teologica, morale e mistica di tutte le chiese riformate. In origine Lutero si servì del principio della salvezza sola fide (per la sola fede) specialmente per combattere la predicazione e la vendita delle indulgenze: egli espose le sue teorie in novantacinque tesi affisse alla porta della cattedrale di Wittenberg (31 ottobre 1517: data d'inizio della Riforma). A quest'epoca Lutero non intendeva ancora ribellarsi all'autorità del papa, ma semplicemente proclamare la necessità di una reformatio Ecclesiae (“riforma della Chiesa”) contro gli abusi del clero, ecc. Il processo di distacco di Lutero da Roma, sancito definitivamente nel 1520 quando diede alle fiamme la bolla con cui Leone X l'aveva scomunicato, si protrasse per circa due anni e culminò nel momento in cui l'ex monaco agostiniano giunse a negare alla Chiesa l'autorità di interpretare le Sacre Scritture. Ciò non implicava affatto, come poi si volle sostenere, che Lutero introducesse il principio del “libero esame”, cioè della libera interpretazione della Bibbia; ma significava che Lutero indicava come di per sé evidente il significato vero delle Scritture per gli illuminati dallo Spirito. Quel suo richiamarsi costante alle Scritture contro la gerarchia ecclesiastica, quel suo contrapporre alla scolastica la teologia di Paolo o di Agostino lo avvicinavano agli erasmiani; ma tutto il suo atteggiamento spirituale era agli antipodi da quello degli umanisti, e si risolveva in una negazione di qualsiasi capacità dell'uomo di operare il bene, in una riaffermazione radicale della corruzione della natura umana in conseguenza del peccato originale. Ciò non impedì che il movimento iniziato da Lutero, proprio perché corrispondente a un'aspettazione universale di rinnovamento religioso ed ecclesiastico, si innestasse e si mescolasse variamente con le preesistenti tendenze dell'umanesimo religioso europeo. Lutero ebbe così l'appoggio di tutto un gruppo di teologi umanisti, che in parte condizionarono il successivo sviluppo dottrinale della Riforma; tra essi, Melantone (1497-1560); Ulrich von Hutten, che assicurò a Lutero l'appoggio dei cavalieri renani e svevi; lo stesso Erasmo (1466-1536), che procurò a Lutero la protezione dell'elettore Federico di Sassonia (ma presto tra Lutero ed Erasmo si sarebbe verificata la rottura, sulla questione del libero arbitrio, negato dal teologo tedesco). Fu proprio l'appoggio di alcuni principi tedeschi che incominciò a mostrarsi decisivo per le sorti della Riforma: ciò apparve dall'episodio del finto rapimento di Lutero per opera dell'elettore di Sassonia, che lo mise al sicuro nel castello della Wartburg nel 1521 (e qui Lutero portò a termine la traduzione tedesca del Nuovo Testamento, da diffondere tra il popolo). A tale protezione politica dei principi fece riscontro il progressivo costituirsi del luteranesimo in chiesa, con una propria ortodossia, i propri sacramenti (ridotti di numero rispetto ai sette dei cattolici), i propri riti, una propria disciplina e una gerarchia ecclesiastica, sorta nonostante la proclamazione del principio rivoluzionario del sacerdozio universale dei fedeli. Così la chiesa luterana cominciò a guardare con sospetto e poi a combattere le altre correnti della Riforma che erano rapidamente pullulate, dopo la prima e decisiva rottura con Roma attuata da Lutero. Carlostadio (1480-1541), uno dei suoi più vigorosi collaboratori, organizzatore della chiesa luterana di Wittenberg, finì per essere espulso dalla Sassonia perché giudicato troppo radicale. Thomas Müntzer (1489-1525), che aveva creato le prime comunità di anabattisti largamente diffusesi tra i contadini tedeschi e percorse da aneliti di ribellione contro i principi (guerra dei contadini, 1524-1525), fu combattuto e perseguitato con tutti i suoi seguaci dai principi tedeschi, sollecitati da Lutero a una sanguinosa repressione. Il luteranesimo tendeva ormai a configurarsi come chiesa di Stato: infatti esso mostrò maggiore capacità di presa nelle zone a struttura feudale, dove un monarca o principi con autorità quasi monarchica aspiravano ad affrancarsi dall'autorità dell'Impero e della Chiesa, annettendosi i beni di quest'ultima: la Germania centrosettentrionale e i paesi scandinavi offrirono il miglior campo alla diffusione luterana. Il caso più clamoroso fu quello della secolarizzazione e del passaggio alla Riforma del potentissimo ordine dei Cavalieri Teutonici, che sotto la guida di Alberto di Brandeburgo dettero vita al ducato di Prussia (1525). Intanto, attraverso la mediazione di Carlostadio, la Riforma luterana faceva proseliti e suscitava nuove forze innovatrici anche in Svizzera. A Zurigo nel 1525 e a Berna nel 1528 si affermava la Riforma di Ulrich Zwingli (1484-1531), umanista di fama, il quale radicalizzava le tesi luterane, rifiutando l'idea stessa di sacramento e semplificando al massimo la liturgia. Nel 1529 Ecolampadio (1482-1531), contro i cattolici e la stessa autorità di Erasmo, rimasto fedele a Roma, introdusse a Basilea lo zwinglianesimo, che si estese poi anche a Strasburgo per opera di Bucer (1491-1551). Ma i rapporti tra zwingliani o sacramentari e luterani “ortodossi” furono subito molto difficili: quando alcuni principi tedeschi, capeggiati dall'elettore di Sassonia, presero la guida di una “lega evangelica” (1526), i sacramentari ne furono esclusi. Nel frattempo un nemico più potente si profilava per la Riforma: l'imperatore Carlo V. Questi all'inizio, impegnato nei conflitti europei che l'avevano opposto al papato, aveva concesso una certa libertà d'azione ai principi riformati; ma nel 1529, alla dieta di Spira, sposò più decisamente la causa cattolica, contro i principi e le città riformati; il che provocò la “protesta” del partito luterano (cui resterà da allora il nome di protestante). Un tentativo di pacificazione tra Lutero e Zwingli fallì al colloquio di Marburgo del 1529. Ma subito dopo l'imperatore, preoccupato dal duplice pericolo francese e turco, fece un nuovo tentativo per riportare la pace religiosa nell'Impero, invitando alla dieta di Augusta del 1530 cattolici e riformati. Melantone fece varie concessioni ai cattolici, ma né questi né gli zwingliani erano disposti all'accordo e la rottura fu irrimediabile. I protestanti si raccolsero dal 1531 nella lega di Smalcalda; dopo la morte di Zwingli, avvenuta in quello stesso anno, fu conclusa tra sacramentari e luterani la concordia di Wittenberg, che prevedeva un reciproco silenzio sulle questioni più controverse (come la presenza reale di Cristo nell'eucaristia). L'alleanza conclusa nel 1531 tra Francesco I di Francia e la lega di Smalcalda costrinse Carlo V a una politica più moderata, mentre una minaccia ancor più grave si andava profilando per la compagine dell'Impero: quella portata dalle comunità degli anabattisti, ribelli nello stesso tempo all'imperatore e ai principi. Un esercito dei principi prese d'assalto Münster, il centro dell'anabattismo, che, qui debellato dopo atroci rappresaglie, sopravvisse più o meno modificato in altre zone dell'Europa centrale e orientale. Un esiliato, Guillaume Farel (1489-1565), aveva fondato a Neuchâtel una chiesa d'ispirazione zwingliana; nel 1535 egli riuscì a introdurre la Riforma a Ginevra, che si era liberata dalla dominazione del duca di Savoia e del proprio vescovo. 


Contemporaneamente un altro esiliato francese, Giovanni Calvino (1509-1564), sospettato per aver ispirato in senso protestante il discorso d'inaugurazione dell'anno accademico del 1533 tenuto dal rettore Cop, si rifugiava a Basilea e aderiva alla dottrina di Ecolampadio: nel 1536 pubblicava l'Institutio christianae religionis, definendo più rigidamente di Lutero la funzione della Grazia e la dottrina della predestinazione e respingendo la nozione di sacramento. La sua autorità si estese e crebbe a Ginevra, dove Farel l'aveva invitato nel 1536. Egli riassunse nel Catechismo l'Institutio, mentre Farel presentava al consiglio della città il 10 novembre 1536 la professione di fede obbligatoria per tutti i cittadini. Ma né la borghesia libertina, né gli anabattisti rifugiati nella repubblica ginevrina, né i teologi razionalisti si adattarono a una tale costrizione. Una vigorosa opposizione ottenne che Farel e Calvino fossero esiliati. Calvino ricostituì a Strasburgo la chiesa evangelica, finché nel 1540 i suoi adepti ottennero una schiacciante vittoria a Ginevra dove si tennero le elezioni; ciò permise a Calvino di rientrare nella città in trionfo nel settembre 1541: le Ordonnances ecclésiastiques del novembre 1541 dettero a Ginevra la struttura di una “repubblica teocratica”, nella quale gli organismi formati dai ministri del culto controllavano la condotta dei privati e le magistrature pubbliche. Vari processi debellarono l'opposizione: quello a Michele Serveto (1511-1553), un antitrinitario aragonese condannato al rogo nel 1553 per le sue idee religiose radicali, provocò qualche reazione nelle correnti protestanti più liberali; tuttavia ormai la logica delle chiese istituzionalizzate e intolleranti era stata abbracciata anche dal calvinismo ginevrino.  Nel calvinismo la Bibbia occupa una posizione assolutamente centrale come fonte del pensiero e dell'azione del cristiano. Dall'insegnamento biblico deriva ciò che potremmo chiamare il principio materiale del calvinismo, cioè la sovranità di Dio. Il calvinista crede che il pensiero centrale nelle Scritture sia che il dio trino, un dio in tre persone, sia totalmente indipendente e assolutamente autosufficiente. Nell'ambito del rapporto intercorrente fra le tre persone dell'essere di Dio, Dio è espresso completamente e pienamente. L'essere umano non può in alcun modo comprendere ciò che questo significhi, se non che Dio è completamente e pienamente sovrano su quanto si pone fuori da lui. Non esiste alcunché che gli sia comparabile: egli è totalmente e completamente assoluto. Tutto ciò che si pone nell'universo spazio-temporale, inclusi lo spazio e il tempo stessi, quindi, esiste solo grazie alla decisione creativa e all'azione provvidenziale di Dio. Egli ha fatto ogni cosa. Questo significa che tutto ciò che esiste è diverso da lui e subordinato a lui. Il calvinista non può in alcun modo accettare l'idea che l'universo spazio-temporale sia un'emanazione del divino o parte di Dio stesso. Né crede che una volta creato (come sostengono i deisti) questo funzioni automaticamente in base a delle leggi naturali innate. L'esistenza continua e l'operatività dell'universo, incluse le azioni libere delle creature umane, sono sostenute e determinate, istante dopo istante, dalla provvidenza misteriosa e onnipotente di Dio. Per poter comprendere veramente le scienze naturali e la Storia, quindi, è il dio sovrano a dover essere il punto di riferimento ultimo, in riferimento al quale queste devono essere interpretate. Secondo Giovanni Calvino tutte le cose devono essere guardate sub specie aeternitatis ("nella prospettiva dell'eternità"). Nel realizzare i suoi propositi ultimi Dio permette alla creatura umana di peccare, sebbene essa commetta peccato per propria volontà e desiderio, alienandosi da Dio. Al tempo stesso Dio, nella sua grazia, si propone di redimere l'essere umano dal peccato e portarlo alla gloria. Dall'inizio della Storia, quindi, vi sono due princìpi che esistono in maniera conflittuale: il peccato e la redenzione, ovvero l'alienazione e la riconciliazione. Questi due princìpi sono rivelati molto chiaramente nell'Antico Testamento e giungono a compimento nell'opera redentrice di Gesù Cristo, il figlio incarnato di Dio, sul calvario. Da quel tempo in poi il conflitto si è esteso nel tempo: lo Spirito Santo chiama efficacemente il "suo popolo" fuori dal "regno di questo mondo" nel Regno di Dio per essere il "suo popolo sulla Terra". Il "suo popolo" sono coloro che Dio ha eletto tramite Gesù Cristo per l'eternità, non perché prevedesse la loro fede o la loro giustizia, ma solo a causa della sua grazia e del suo amore. Nessun uomo si volgerebbe con ravvedimento e con fede a Dio a causa della corruzione della sua natura peccaminosa se lo Spirito Santo prima non lo rigenerasse per poterglielo permettere. Cristo, quindi, muore e risorge affinché i suoi eletti siano riconciliati con Dio. Dio accorda loro il dono dello Spirito Santo ed essi irresistibilmente e sicuramente giungono alla fede in Gesù Cristo e in questa vita si conformano sempre di più a sua immagine. Per il calvinismo la riconciliazione con Dio dipende interamente da Dio e dalla sua grazia eterna e sovrana. È questo il motivo per cui l'eletto non potrà mai andare perduto o scadere dalla grazia, ma persevererà fino alla fine. Il fine ultimo o principio ultimo del calvinismo è la gloria di Dio. Creazione e redenzione non hanno per fine ultimo la soddisfazione e il piacere dell'essere umano. L'evangelizzazione, il servizio sociale e attività simili non devono essere intese per il beneficio ultimo della creatura umana, ma per dare gloria al dio trino. A servizio di Dio sulla Terra, il cristiano si prefigge di manifestare la maestà, la potenza e la grazia di Dio, glorificare Dio in ogni cosa. Il cristiano non guarda alle cose che fa come qualcosa che gli sia richiesto, come semplici attività terrene, ma come qualcosa che deve tornare a credito della lode di Dio per l'eternità. Il 28 aprile 1564 Calvino salutò i pastori col suo Discours d'adieux aux ministres, dove ricordò i travagli della sua vita di «povero e timido studioso», spesa al servizio dell'Evangelo, nella quale - disse - subì anche minacce e insulti, e rivendicando di non aver scritto mai nulla «per odio verso qualcuno ma [di aver proposto] fedelmente ciò che [aveva] creduto potesse servire alla gloria di Dio». Morì la sera del 27 maggio: conformemente al suo desiderio, venne sepolto in una tomba anonima, in modo che le sue spoglie non potessero essere oggetto di un culto che egli aveva sempre deprecato.



Sotto la direzione di Teodoro di Beza (1519-1605) l'Accademia di Ginevra, fondata nel 1559, divenne in Europa il massimo centro culturale del protestantesimo. Ginevra diventava così la capitale della Riforma militante d'ispirazione calvinista, ciò che Wittenberg non era riuscita a diventare per il luteranesimo. Rispetto a quest'ultimo, infatti, il calvinismo poté diffondersi prevalentemente in paesi economicamente e socialmente più sviluppati, e mostrò di avere larga presa presso la borghesia mercantile dell'Europa occidentale. Lungo il Reno e fino ai Paesi Bassi il calvinismo ridiede vigore alla Riforma, perseguitata da Carlo V. In Francia il calvinismo s'innestò in parte sulla precedente tradizione evangelica di tipo umanistico, che aveva avuto in Lefèvre d'Etaples il suo massimo esponente e nel vescovo di Meaux, Briçonnet, il suo interprete e realizzatore. Nonostante la persecuzione del partito riformato, messa in atto già da Francesco I nel momento in cui aveva suggellato un'alleanza con il papa Clemente VII, le istanze riformatrici si erano diffuse anche presso la nobiltà: sicché in breve tempo alcune delle più cospicue famiglie dell'aristocrazia francese divennero ugonotte, cioè calviniste. La Riforma aveva ormai largamente superato i confini dell'Impero. Gustavo I Vasa, liberando la Svezia dalla dominazione danese (1523), aveva secolarizzato i beni del clero e organizzato una chiesa di Stato luterana (1529). Anche in Danimarca, rovesciato il re Cristiano II da una rivoluzione, il luteranesimo era divenuto religione ufficiale sotto Federico I. La stessa sorte toccò alla Norvegia, legata alla Corona danese. Ma il caso più clamoroso di distacco da Roma di un intero grande regno fu quello dell'Inghilterra. Qui Enrico VIII (1491-1547), risolutamente ostile al luteranesimo, aveva tuttavia preso qualche iniziativa nel senso di una riforma disciplinare del clero, secondo la tradizione della monarchia inglese che aveva sempre aspirato a intromettersi direttamente nelle vicende della chiesa nazionale. L'episodio della mancata concessione al re da parte del papa di divorziare da Caterina d'Aragona, zia di Carlo V, indusse però Enrico VIII a far votare dal parlamento la subordinazione della chiesa inglese alla Corona (1531): anzi, dopo che il re, consigliato da un teologo di Cambridge, Thomas Cranmer, si fu risposato con Anna Bolena provocando la scomunica papale (1533), si verificò la definitiva sanzione dello scisma anglicano con l'Atto di supremazia del 1534 che proclamò il sovrano capo della chiesa inglese. I difensori dell'unità con Roma furono perseguitati: tra di essi Tommaso Moro (1478-1535), ex cancelliere di Enrico VIII, e il cardinale Giovanni Fisher (1469-1535) furono messi a morte. Il Book of Articles nel 1537 definiva i contorni di un culto riformato, ma ancora assai ricco di elementi cattolici. I beni della Chiesa furono incamerati, mentre il Bill dei sei articoli (1539) organizzava la persecuzione delle eresie con processo inquisitoriale. Dopo la parentesi di Maria Tudor, figlia primogenita di Enrico VIII, che con l'aiuto dell'imperatore restaurò per pochi anni il cattolicesimo inglese (1553-1558), la chiesa anglicana assunse definita fisionomia grazie all'opera di Elisabetta, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena; essa ristabilì la completa supremazia della Corona inglese sulla Chiesa (1559), ritoccò in senso calvinista e luterano il culto anglicano, e insieme intraprese le prime persecuzioni contro i gruppi di riformati cosiddetti “non conformisti”, avversi a qualsiasi chiesa ufficiale e di Stato, i quali avevano cominciato a diffondersi in Inghilterra. Il papato sperava ancora di poter contare contro Elisabetta sulla monarchia scozzese, tradizionalmente cattolica: ma l'ardente predicazione di John Knox (1513-1572), in senso calvinista, aveva fatto in Scozia molti proseliti, i quali ebbero il sopravvento, fino al punto di cacciare la regina cattolica Maria Stuarda. La metà del XVI sec. vide quasi ovunque il consolidamento della Riforma: in Germania, dove essa aveva conquistato quasi due terzi del paese, il luteranesimo ebbe riconoscimento ufficiale con la pace di Augusta del 1555, che sancì il principio del cuius regio eius religio. In Boemia, Polonia, Ungheria i vari rami della Riforma sembravano vicini alla vittoria; in Olanda iniziava la rivolta delle Province Unite calviniste contro la dominazione spagnola; in Francia gli ugonotti si diffondevano in tutti gli strati sociali. Tuttavia questi stessi anni videro una reazione assai più agguerrita da parte della Chiesa cattolica, che iniziò, alleandosi ad alcuni dei maggiori sovrani europei, l'opera della Controriforma. Dai sanguinosi conflitti che ne sarebbero seguiti per la durata di un secolo, culminati nelle guerre di religione francesi e nella guerra dei Trent'anni, l'Europa intera sarebbe uscita profondamente mutata, da un punto di vista territoriale, politico, spirituale e religioso. Dopo l'esposizione delle novantacinque proposizioni (o tesi) di Lutero (1517), le idee innovatrici, in meno di venti anni, avevano guadagnato alla Riforma più della metà della Germania e della Svizzera, l'Inghilterra e la Scandinavia; esse erano inoltre penetrate in Francia e nell'Europa orientale; neppure l'Italia e la Spagna, paesi tradizionalmente fedeli a Roma, sembravano essere al riparo da questa rivoluzione religiosa.



La risposta data dalla Chiesa cattolica a questo sommovimento se, almeno all'inizio, si presentò come volta essenzialmente alla difesa, ben presto si configurò anche come movimento di riconquista, attuata con nuovi metodi e in un nuovo spirito. In realtà la componente difensiva e quella per così dire offensiva nell'opera della Controriforma non tardarono a mostrarsi inevitabilmente connesse. Così nella controversia dottrinale con il protestantesimo si assistette al passaggio da una confutazione dei singoli errori dei riformati, alla produzione e larga diffusione di manuali controversistici (sino alle Controversie di Bellarmino), mentre sempre più acuta si faceva l'esigenza di precisazioni dogmatiche: il concilio di Trento, anche per questo aspetto, raccolse i frutti di una vasta produzione teologica, giungendo a basilari definizioni sui punti messi in dubbio dalla Riforma: sui sacramenti (loro azione ex opere operato, presenza reale di Cristo nell'eucaristia, ecc.), sulla Chiesa e sulla sua struttura gerarchica, sul primato papale, sulla giustificazione non per la sola fede, sulla validità della tradizione affiancata alle Sacre Scritture (il cui testo latino, detto Vulgata, fu dichiarato versione autentica). Contemporaneamente la Chiesa reagì sul piano disciplinare, sia eliminando, grazie all'opera del concilio di Trento (fissazione dell'obbligo di residenza per i vescovi; divieto di cumulo dei benefici, ecc.), secolari abusi su cui più facilmente si erano appuntate le critiche degli eretici e ponendo le basi della formazione di un clero più colto, disciplinato, aggiornato (creazione dei seminari, ecc.), sia dandosi un assetto generale di lotta, di cui lo spirito informatore della Compagnia di Gesù rappresentò una delle più esplicite incarnazioni. Non fa meraviglia che l'esaltazione dello spirito battagliero nella Chiesa andasse a detrimento delle correnti umanistiche ireniche ed erasmiane, che sin dall'inizio avevano ricercato una pacifica composizione dell'eresia e che furono travolte dall'estremizzarsi della lotta. In funzione di essa la Chiesa, sotto la guida di rigide figure di pontefici (Paolo III e IV, Pio IV e V, ecc.), non esitò a ricorrere ai mezzi di costrizione ecclesiastica di cui disponeva e all'appoggio delle autorità temporali. L'opera di riconquista delle popolazioni e dei territori passati al protestantesimo aveva ormai i suoi strumenti essenziali: essa si appoggiava a organismi tutti rigidamente dipendenti dalla Santa Sede: la Congregazione tedesca, fondata nel 1568 e in piena attività durante il pontificato di Gregorio XIII; le nunziature apostoliche, divenute espressione degli interessi cattolici nei territori minacciati; alcuni ordini religiosi, come i cappuccini e specialmente i gesuiti. Questi ultimi, dedicatisi specialmente alla formazione religiosa e culturale delle classi dirigenti degli Stati cattolici, iniziarono una lenta, ma efficace opera di penetrazione. La data della fondazione dei loro collegi segnò in molti paesi l'inizio della riconquista cattolica, che prese forza in Austria (collegio di Vienna, 1551), e in Baviera (collegio d'Ingolstadt, 1556), paesi che furono poi, all'inizio del  XVII sec., sotto la guida di Ferdinando di Stiria e del duca Massimiliano di Baviera, i più solidi punti d'appoggio del cattolicesimo contro gli Stati riformati, nel quadro della guerra dei Trent'anni. Appoggiati dagli Absburgo di Spagna, i gesuiti s'insediarono nei Paesi Bassi meridionali nel 1559, eliminandone facilmente le comunità protestanti e progettarono di fare di quella zona il trampolino della riconquista cattolica delle Isole Britanniche, facendo perno sul collegio-seminario inglese di Douai (oggi in Francia), fondato da William Allen. Grazie a essi il cattolicesimo riprese vigore nei paesi renani (collegi di Treviri, 1560, e di Magonza, 1561), in Svizzera, e arrestò per sempre, sotto la guida di Pietro Canisio (1521-1597), i progressi della Riforma in Polonia a partire dal 1574, e nell'Impero a partire dal 1578. Ma quest'opera di riconquista è inscindibile da una parallela azione di “consolidamento” all'interno del mondo cattolico, cui si accompagnò in molti casi una genuina rinascita religiosa. Mentre si apprestavano i nuovi testi d'istruzione e liturgici, in seguito ai deliberati del concilio di Trento (Catechismo romano, 1566; Breviario romano, 1568; Messale romano, 1570), si alimentarono nuove forme di pietà popolare, che facevano presa soprattutto sugli aspetti umani, sensibili o sentimentali della religione (sviluppo del culto della Vergine, del Sacro Cuore, ecc.): in questa rinascita religiosa, che, se non andò priva di certe esasperazioni dell'esteriorità e dell'irrazionalità, contribuì indubbiamente a una ripresa della devozione popolare e delle opere di carità sociale, ebbero molta parte, insieme con alcune personalità di vescovi di grande rilievo, come Carlo Borromeo (1538-1584), alcuni ordini o congregazioni (di religiosi e di laici), dediti all'insegnamento, alla formazione del popolo, all'assistenza della gioventù abbandonata, ecc. (teatini, 1524; somaschi, 1528; barnabiti, 1530; oratoriani, 1575; scolopi, 1617; ecc.). Accanto a questo generale rinsaldarsi della disciplina ecclesiastica, a una tale rinascita della religiosità, alla riacquisizione di vaste zone europee sfuggite al cattolicesimo, accanto alla vigorosa ripresa culturale culminante nell'opera dei grandi scolastici dei secc. XVI-XVII (Mariana, Vitoria, Suárez, Bellarmino, Sánchez, ecc.), alla fioritura di nuove forme artistiche, che ben si addicevano all'esuberante e corale religiosità controriformistica e che ebbero la loro formulazione nei canoni del barocco, va considerata l'eccezionale spinta evangelizzatrice e missionaria messa in opera dai nuovi ordini religiosi nelle terre americane e dell'Estremo Oriente (Cina, Giappone), la quale ripagava parzialmente la Chiesa delle dolorose perdite subite in Europa. Insieme con questi aspetti della riforma cattolica si manifestarono però, sin dal XVII sec., i rischi impliciti in un'eccessiva accentuazione della rigidezza dottrinale, che tendeva a estendersi ben oltre gli ambiti dogmatici, in un'esasperazione della concezione gerarchica e giuridica della Chiesa, nei cedimenti alle pretese assolutistiche degli Stati proclamantisi cattolici, nel lassismo, nell'esteriorità devozionale: a tutto ciò la Chiesa sarebbe stata chiamata nei secoli successivi a fare decisamente fronte.