Giobbe


"Giobbe ha la lingua del più grande poeta che abbia mai articolato parola umana......Non è la voce di un uomo, è la voce di un tempo. L'accento viene dal più profondo dei secoli ed è il primo e l'ultimo vagito dell'anima, di ogni anima". 


Effettivamente Giobbe costituisce da solo una complessa avventura letteraria e un documento poetico di altissimo valore. È impossibile catturarne il messaggio senza prima passare attraverso un paziente lavoro di analisi letteraria, senza tracciare la genesi dell'opera, la sua struttura, la sua qualità, il rigore e la libertà della sua simbolica. A paragone di questa lirica del dolore dell'uomo ogni lirica posteriore sembra cadere. Il vertice dell'itinerario non è la soluzione umana ma è nel "vedere Dio con i miei occhi" rifiutando tutte le spiegazioni di seconda mano, tutto il "sentito dire" (42,5). Per questo il messaggio dell'opera, anche se si snoda dall'intreccio tra l'uomo, il mondo, il male, la società e Dio, ha come meta ultima Dio, la sua parola, la sua teofania, la sua contemplazione. Giobbe vive la sua prova "come una domanda su Dio ed è solo a Dio che vuole porla". In altri termini: la questione centrale dell'opera non è il male di vivere ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l'assurdo della vita. Giobbe ribadisce la necessità del "temere Dio per nulla" (1,9), cioè della gratuità della fede, e l'esigenza del " vedere" attraverso un'autentica esperienza di fede.


Libro sapienziale della Bibbia, che prende nome dal protagonista del racconto Giobbe, contemporaneo dei patriarchi ebrei (ca. 1760 a.C.).  Il libro di Giobbe è largamente riconosciuto, come uno dei poemi drammatici più belli di tutta la letteratura. La sublimità del suo tema, la maestosità dei suoi schemi di pensiero, l'elevatezza della sua sfera letteraria ne fanno un'opera senza eguali anche se paragonata alle grandi tragedie della storia della letteratura mondiale, da quelle greche alle contemporanee. Archetipo del credente "timorato di Dio" anche se non apparteneva alla progenie di Abramo, Giobbe, che Ezechiele nell'Antico Testamento e l'epistola di Giacomo nel Nuovo lodano per la sua "giustizia" e la sua costanza nella fede è la figura centrale del libro. Proveniva dalla "terra di Uz", forse a sud di Edom ed era dunque Idumeo o Arabo: era un ricco allevatore di bestiame, padre felice di una numerosa famiglia di sette figli e tre figlie, pio adoratore del vero Dio, integro e retto in tutto. Nel momento in cui si trovava all'apice della prosperità e del benessere, Giobbe viene sottoposto a prove terribili per istigazione di Satana: i suoi beni furono dispersi, tutti i suoi figli perirono, infine fu colpito nella sua stessa carne da una malattia ripugnante. Ma dal fondo della sua nuova, estrema miseria, Giobbe esprime inizialmente una suprema rassegnazione per la sorte che gli è stata inflitta: "il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore". Anzi, rimprovera la moglie chiamandola stolta quando questa lo sfidò a "benedire Dio e morire": "Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?". A questo punto vennero da lui per "condolersi e consolarlo" tre vecchi amici, Elifaz, Bildad e Zofar, cui si aggiungerà in seguito il giovane Eliu. Giobbe che stava seduto "in mezzo alla cenere" con un coccio per grattarsi emise amari lamenti sulle sue sofferenze, invocò la fine della persecuzione "immeritata", gemette sull'apparente abbandono e sul silenzio di Dio. E Dio risponde a Giobbe; non gli offre argomenti per conciliare la sofferenza e la propria giustizia al pari dei suoi amici, non dà soluzione ai problemi da lui sollevati, accetta il confronto con Giobbe e gli si rivela. Quel Dio che era un tema di discussione sulla bocca degli amici, ora è colui che Giobbe ha incontrato: "Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono" (Gb 42,5). Dio approva il comportamento di Giobbe, gli ha dato fiducia anche nell'ora delle tenebre, ha accolto quale segno di fede anche le sue domande, ha risposto al suo desiderio di incontrare il vero Dio, che solo conosce il senso delle cose (Gb 42,2-4) La sua protesta è quella di ogni uomo dinanzi al dolore, alla morte, all'ingiusta sofferenza. L'epilogo narra la felice condizione di Giobbe benedetto da Dio e cosi ricorda che non la sofferenza, ma l'amore e la benedizione di Dio sono il destino finale dell'uomo, l'ultima parola sulla sua vita. Giobbe rappresenta la contraddizione tra il giusto che soffre senza colpa e il malvagio che invece prospera: egli è la metafora di una ricerca della giustizia che dovrebbe colpire chi fa il male e assolvere e premiare chi fa il bene. Nel testo biblico di Giobbe si nota come il problema del male viene trattato con una totale assenza di preconcetti di carattere religioso che possono spiegare la convinzione di un giusto che paghi per le colpe di altri. La ricerca di Giobbe non si accontenta di spiegazioni superficiali o di quelle della teologia ufficiale, convinta di poter capire Dio e il suo agire secondo principi razionali e teologici. Il cuore dell'opera si rivela, quindi, come una vigorosa polemica contro la rigidità delle ideologie religiose. Ma né gli amici né Giobbe riescono a risolvere il problema del giusto che soffre fino a quando, alla fine del libro, non appare Dio che mette sotto processo lo stesso Giobbe:«Quando io ponevo le fondamenta del mondo, tu dov'eri?»(Gb 38,4). Dio rivendica la sua onnipotenza rispetto alla miseria dell'umanità: l'uomo può trovare una risposta al dolore e al male solo decidendo di affidarsi a Lui.


In ogni istante della sua storia drammatica, anche di fronte alla sua più cupa disperazione, Giobbe non cessa di essere un credente. Anzi la sua storia è per eccellenza quella della ricerca di Dio, evitando tutte le scorciatoie della teologia codificata e semplificata. Egli non abbandona mai questo filo anche nel silenzio più totale di Dio, anche nell'abisso dell'assurdo ed è per questo che alla fine "i suoi occhi lo vedono".


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