Da Parmenide a... Matrix
Anno: 2016
Autore: Laura Cecchetto e Martina Miccoli
Siamo sicuri che ciò che appare sia ciò che veramente esiste? Ciò che veramente è?
Tutto potrebbe essere una finzione, come nel celebre capolavoro di Peter Weir The Truman Show (1998) o come nella saga di Neo, per cui il mondo reale non è altro che proiezione di sogni di esseri umani ridotti a larve addormentate (Matrix, 1999).
Bisogna scegliere: davanti al bivio, accettare, come Neo, di lasciare le apparenti sicurezze del mondo solo in apparenza reale e infilarsi nella via che ci porta dritti alla verità delle cose che sono; o continuare a lasciarsi ingannare, proseguendo sulla via della menzogna.
Questa trama avvincente era già scritta duemilacinquecento anni fa nel poema Sulla Natura di Parmenide di Elea, di cui possediamo solo alcuni frammenti, ma sufficienti per capire che… era davvero un testo difficile!
In questa ‘pillola’ proviamo a spiegarne qualche passaggio seguendo la lezione tenuta diversi anni fa nel nostro liceo dal Prof. Franco Trabattoni nell’àmbito del percorso su Saggezza e verità nella Grecia antica.
Chi ha studiato filosofia sa che Parmenide è il vero e proprio fondatore della “ontologia”, uno dei primi maestri del pensiero occidentale, a cui il grande Platone dedicò uno dei suoi dialoghi.
Secondo Parmenide, di fronte all’uomo si apre un bivio, due strade fra cui scegliere il proprio cammino.
La prima è il sentiero della ἀλήθεια, della verità rivelata o della luce, della chiarezza logica, che è raggiungibile per mezzo della ragione. La conoscenza della verità è quindi verticale, perché penetra in profondità e ci porta a conoscere l’essere nella sua veridicità. Essa viene descritta da Parmenide nel libro “Sulla natura” come una dea (probabilmente Dike, dea della Giustizia) che svela il senso profondo delle cose, senza voler far sentire l’uomo inferiore, “chinando la testa”: infatti non richiede all’uomo un sapere meccanico, bensì di ragionare con coerenza e comprendere razionalmente la verità.
C’è poi il sentiero della δόξα, delle opinioni ingannevoli o delle tenebre che è basato sui sensi e sull’illusione e quindi viene scelto dalla maggior parte dei “viandanti”. E’ una conoscenza orizzontale, superficiale, che si ferma alle apparenze.
Ma cosa è l’essere? È interessante il fatto che non abbiamo un termine preciso per indicarlo: nei frammenti a noi pervenuti ritroviamo l’espressione τὸ ἐόν, reso in italiano con “ciò che è”, mentre non compare mai τὸ εἶναι, traducibile con “l’essere”. A questo punto ci si potrebbe chiedere quale sia la differenza tra “ciò che è” e l’essere: il primo indica un qualcosa di specifico, mentre il secondo è un termine collettivo e generale per indicare le cose che esistono. Parmenide non parla dell’essere in sé, ma utilizza un participio neutro sostantivato del verbo essere, indicando dunque qualcosa che è, un ente, più che quello che noi chiamiamo “essere”.
Il nodo della questione si trova nel frammento 2 di Parmenide, che afferma:
Εἰ δ’ ἄγ’ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας,
αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι […]
ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι.
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν (οὐ γὰρ ἀνυστόν)
οὔτε φράσαις.
Da queste frasi si evince il principio cardine della filosofia eleatica: una forte distinzione fra essere e non essere. Una traduzione di questo frammento potrebbe essere: “Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili; l’una “che dice” che è e che non è possibile che non sia, è il sentiero della Persuasione (giacché questa tiene dietro alla Verità); l’altra “che dice” che non è e che è necessario che non sia, questo io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile), né lo puoi esprimere, … infatti il pensare implica l’esistere (del pensato)”. (G. Giannantoni)
Si può dedurre che il non essere non è indagabile, non è rappresentabile, non è definibile, dal momento che non ha un nome specifico ma è tratteggiato solamente come la negazione dell’essere.
Può però sorgere un’altra domanda: “In che modo si può affermare ciò che non è?” Secondo la concezione parmenidea, se noi predichiamo qualcosa in senso negativo, senza accorgercene affermiamo il non essere. Ma bisogna fare attenzione: il non essere non coincide con il vuoto. L’essere, al contrario, è la realtà, il pensiero che la concepisce, il linguaggio che esprime il pensiero stesso. Parmenide afferma che non è possibile dire e pensare il “non essere”, ma intorno a noi vi è sia “l’esistere” sia il “non esistere”. Il problema resta dunque aperto e ancora oggi gli studiosi si interrogano sul senso delle riflessioni di Parmenide.
Quando il romanzo incontra se stesso
Anno: 2016
Autore: Alice Pirotta e Margherita Cipolla
In questa fredda città nascevano due dei più grandi scrittori di tutti i tempi, che hanno rivoluzionato la narrativa europea: Tolstoj e Dostoevskij.
Questi due grandi autori hanno da sempre affascinato la critica mondiale e risultano molto interessanti per quanto riguarda i temi trattati, le loro riflessioni e la nuova concezione di uomo.
Abbiamo avuto il piacere di ascoltare la professoressa Ghidini durante il percorso Romanzo e romanzi, che ci ha fatto apprezzare l’eccezionale novità e bellezza di opere come Guerra e Pace e Anna Karenina.
Se ci volete seguire oltre, potrete leggere la breve recensione che abbiamo fatto per voi dell’incontro. Speriamo vi piaccia e vi sia utile per un prossimo futuro.
La professoressa Ghidini ha preso in considerazione in primo luogo l’opera più celebre di Tolstoj, Guerra e Pace, scritta fra il 1863 e il 1869; considerato da sempre come uno dei romanzi più importanti della storia della letteratura, quest’opera è stata definita dall’autore stesso non come un romanzo, ma come un semplice libro, in cui egli afferma di aver oltrepassato la struttura della fiction, mantenendo come soggetto la figura umana. Egli, infatti, era dell’idea che non si potesse chiudere entro le mura di uno schema così rigido come quello del romanzo l’immensa varietà delle vicende umane, ognuna unica nel suo genere. Di conseguenza i personaggi in Guerra e Pace continuano a vivere oltre il romanzo, non hanno un inizio né una fine, “sfondano” i limiti del libro e sono inseriti all’interno di una realtà quotidiana.
Partendo dalle affermazioni dello stesso Tolstoj, Henry James, critico letterario statunitense, ha definito Guerra e Pace come un “budino molliccio”, riferendosi alla consapevolezza dell’autore di non aver scritto un vero e proprio romanzo.
I romanzi di Dostoevskij invece seguono il canone della tragedia classica, rientrano dunque in un’unità di spazio e di tempo, e la contemporaneità degli eventi narrati fa coesistere i personaggi in uno stesso istante. Il suo stile di scrittura è poco curato e contorto, tuttavia questa è una precisa scelta dell’autore improntata a rendere il moto vorticoso delle vicende. Nei suoi romanzi emerge spesso l’elemento autobiografico, in particolare il riferimento alla condanna ai lavori forzati in Siberia, che ritroviamo ne L’Idiota e in Delitto e Castigo, e attribuisce ad alcuni personaggi dei tratti della sua vicenda personale, caratterizzata da diversi eventi traumatici, come ad esempio l’esecuzione mancata della propria condanna a morte. Ciò rende i romanzi più realistici.
Dostoevskij sostiene infatti che la realtà sia più fantastica della fantasia e più letteraria della letteratura.
Salta subito all’occhio la notevole differenza con Tolstoj: il protagonista non è più il quotidiano ma l’eccezionale.
Tolstoj e Dostoevskij, seppur in maniera diversa, cercano di raccontare storie che vadano oltre le pagine del libro, restrittive rispetto all’universale dell’uomo: il primo prende in considerazione la totalità delle vite umane, basate su un ciclico ripetersi delle stesse esperienze, il secondo invece cerca di spiegare l’universale partendo dalla descrizione di momenti particolari.
Data la diversità degli autori, non è possibile racchiudere le loro opere nell’unico termine “romanzo”, che non è in grado di comprendere al suo interno tutte le sfaccettature dei loro scritti.
Il filosofo con i piedi per terra
Anno: 2017
Autore: Alice Pirotta
Sebbene sia difficilmente separabile dal contesto storico in cui è stata elaborata, la riflessione filosofica di Platone per certi aspetti è comunque in grado di influenzare il nostro modo di pensare, al punto da sollevare numerose obiezioni fino ai giorni nostri. Una riflessione su queste diverse interpretazioni di Platone è stata offerta da Franco Trabattoni nel percorso Saggezza e verità nella Grecia antica.
Ad esempio, celebre è la lettura di Platone proposta da Martin Heidegger (1889-1976), il quale ha sviluppato una grande parte del suo pensiero per demolire quella che ai pensatori precedenti era sembrata essere la nascita della metafisica. Egli ritiene che Platone abbia preteso di conoscere una verità assoluta intuitivamente e sulla base di questa abbia voluto promuovere una prassi politica di carattere totalitario e antidemocratico.
Anche un filosofo di orientamento assai diverso come Karl Raimund Popper (1902-1994), nel saggio Platone totalitario, in La società aperta e i suoi nemici, vol. I, 1945 (trad. it. Armando, Roma 1973) ritrova in Platone le radici del totalitarismo del ‘900, sia di destra sia di sinistra, dai regimi fascisti e nazisti a quelli comunisti.
Un altro importante filosofo di posizione antiplatonica è l’americano Richard Rorty (1931-2007), che, nel libro La filosofia e lo specchio della natura, 1979 (trad. it. Bompiani, Milano 1986), identifica nel platonismo la pretesa che il pensiero rifletta la realtà come in uno specchio. Se tu hai l’occhio chiaro vedi l’essere. Ma chi ha l’occhio chiaro? I filosofi. I filosofi quindi sarebbero quel gruppo elitario capace di decidere per tutti.
Ecco perché questo discorso è contro Platone. In un mondo come quello di oggi, in cui la verità appare come problematica e approssimativa, in cui non c’è nessuno che possa avere una visione così chiara da imporla alla società e allo Stato, il platonismo è il nemico da demolire dal punto di vista filosofico.
Il filosofo americano di origine ebraica Richard Bernstein (1932-vivente) suggerisce una soluzione di compromesso, affermando che esistono due Platone: uno perentorio, violento, che è considerato sostanzialmente un ‘cattivo’; un secondo che appare invece del tutto diverso: è quello di Socrate, del dialogo, in un certo senso il ‘buono’.
Infine un grande filosofo del Novecento, discepolo di Heidegger, Hans-Georg Gadamer (1900-2002), ci narra esclusivamente di un Platone buono. In particolare stupisce una sua affermazione: “Platone non era un platonico”, che ci suggerisce il colossale equivoco formatosi sulla figura di Platone, alimentato soprattutto da varie imprecisioni lessicali, che hanno causato l’allontanamento del termine “platonico” dal vero significato della filosofia di Platone.
A questo punto potrebbe sorgere una domanda ovvia: chi era davvero Platone? Perché si dedicò alla filosofia? Qual era il suo vero obiettivo?
Ce lo racconta lui stesso: in realtà egli voleva fare politica, non filosofia, o almeno… avrebbe voluto. Ricordiamo che Atene e molte altre città della Grecia antica nel V-IV secolo a.C. erano soggette a frequenti rivolgimenti politici e conflitti interni. Franco Trabattoni sostiene che Platone non aveva inizialmente intenzione di prendere una strada filosofica, ma si rese conto che essa era necessaria per poter influire effettivamente sull’amministrazione e sulla vita della città, sull’attività politica del tempo, in modo da ricostruire una pacifica convivenza civile.
Quali sono le basi della sua filosofia così utili per una buona politica? L’idea di un “bene universale”, ossia di una giustizia che deve necessariamente essere non solo condivisa da tutti i cittadini, ma anche corrispondente alla verità, non semplice frutto di opinioni. Una simile idea di giustizia, infatti, è indispensabile per creare un terreno comune per confrontarsi con chi abbia idee diverse.
Ed è proprio su questo che insiste Platone: fare passi avanti verso l’universale. E sebbene della verità possediamo soltanto una reminiscenza, ciò che compete all’uomo, ossia il dialogo con l’altro, deve mirare all’universale.
Il tendere all’universale permette, secondo Platone, di creare uno stato buono, in cui il Bene e il Giusto siano tali per tutti. In questo si nota come la filosofia platonica non sia semplice contemplazione, ma sia finalizzata all’azione.
Ed è erroneo affermare che secondo Platone i filosofi siano gli unici in possesso del sapere. Dalla stessa etimologia della parola filosofo, “amante del sapere”, risulta evidente che egli non la possiede affatto. L’unico che veramente ha il sapere è Dio, mentre il filosofo è forse, fra gli uomini, quello che è più consapevole di questa verità.
Platone continua ad essere una figura affascinante per moltissimi studiosi, ognuno dei quali ha avuto la possibilità di suggerire una diversa interpretazione. E forse la lettura di Franco Trabattoni ci aiuta a comprendere quanto questo filosofo abbia ancora da dire al nostro tempo, afflitto da problemi di convivenza civile e di incontro fra popoli e visioni del mondo spesso radicalmente diverse se non fra loro contrapposte. La sua ricerca di principi universali mira a fornire strumenti efficaci per confrontarsi con i problemi concreti della convivenza quotidiana.
Alla ricerca del bello
Anno: 2017
Autore: Marco Niccolini
Ma che cosa è bello? E’ bello ciò che piace, come spesso si sente dire? Oppure esiste una bellezza universale, che si impone all’evidenza?
Può essere molto interessante intraprendere un viaggio indietro nel tempo e considerare le riflessioni che su questo tema ha espresso uno dei più grandi filosofi della storia: l’ateniese Platone, il discepolo di Socrate fondatore dell’Accademia (IV secolo a.C.), a cui è stato dedicato il percorso Eros e bellezza nel Simposio e oltre.
Per Platone la il concetto di Bellezza in sé non si esaurisce nelle cose belle di questo mondo, ma esiste come pura idea, che può essere contemplata al culmine di una ricerca filosofica. Per natura l’uomo tende alla ricerca di questo “bello in sé” spinto da una potente forza attrattiva, che per Platone è eros, l’amore.
L’argomento è trattato nel Simposio, il celebre dialogo nel quale numerosi personaggi riuniti a banchetto si confrontano sul tema di eros. Socrate, nel punto culminante del dialogo, interviene con le seguenti parole
καὶ αὐχμηρὸς καὶ ἀνυπόδητος καὶ ἄοικος, χαμαιπετὴς ἀεὶ ὢν καὶ ἄστρωτος, ἐπὶ θύραις καὶ ἐν ὁδοῖς ὑπαίθριος κοιμώμενος, τὴν τῆς μητρὸς φύσιν ἔχων, ἀεὶ ἐνδείᾳ ξύνοικος. κατὰ δὲ αὖ τὸν πατέρα ἐπίβουλός ἐστι τοῖς καλοῖς καὶ τοῖς ἀγαθοῖς, ἀνδρεῖος ὢν καὶ ἴτης καὶ σύντονος, θηρευτὴς δεινός, ἀεί τινας πλέκων μηχανάς, καὶ φρονήσεως ἐπιθυμητὴς καὶ πόριμος, φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου, δεινὸς γόης καὶ φαρμακεὺς καὶ σοφιστής· καὶ οὔτε ὡς ἀθάνατος πέφυκεν οὔτε ὡς θνητός, ἀλλὰ τοτὲ μὲν τῆς αὐτῆς ἡμέρας θάλλει τε καὶ ζῇ, ὅταν εὐπορήσῃ, τοτὲ δὲ ἀποθνῄσκει, πάλιν δὲ ἀναβιώσκεται διὰ τὴν τοῦ πατρὸς φύσιν, τὸ δὲ ποριζόμενον ἀεὶ ὑπεκρεῖ· ὥστε οὔτε ἀπορεῖ Ἔρως ποτὲ οὔτε πλουτεῖ.
(Platone, Simposio, 203de)
“(Eros) anzi è ruvido, squallido, scalzo, e senza casa, uso a giacere sempre in terra e senza coltri, dormendo all’aperto davanti alle porte e nelle strade e, avendo la natura della madre, sempre accasato con l’indigenza. Per parte del padre, invece, è insidiatore dei belli e dei buoni, essendo coraggioso, ardito e impetuoso, cacciatore abilissimo, intento sempre a tessere artifici, bramoso di saggezza e pieno di risorse, amante della sapienza per tutta la vita, abilissimo ammaliatore e preparatore di filtri e sofista. E non è per natura né come un immortale né come un mortale, ma talora nello stesso giorno fiorisce e vive, quando riesca nei suoi espedienti, talora muore, ma poi riprende di nuovo vita a causa della natura del padre, e ciò che si procura coi suoi espedienti, sempre gli sfugge di mano, cosicché né è privo mai di risorse Eros né ricco”
(Trad. di Giovanni Reale)
Eros è dunque un daimon: ha una natura né divina né umana, ma intermedia, abita tra cielo e terra, tra uomini e dèi.. Infatti, secondo il mito della sua genesi, è figlio del dio Poros, il quale simboleggia la completezza e la sapienza, e di Penìa, che rappresenta la vuotezza e la mancanza: il demone è un flusso bidirezionale tra il terreno e il divino. Ma Eros è amante, non amato, di conseguenza non è già esso stesso “bello”. Amare significa infatti desiderare le cose belle (τὰ καλὰ) e buone (τὰ ἀγαθὰ), di cui eros è privo e che pertanto ricerca e desidera.
Gli uomini infatti non cercano nient’altro che il Bene, e sono in grado di possederlo con un “parto nel bello” (τόκος ἐν καλῷ καὶ κατὰ τὸ σῶμα καὶ κατὰ τὴν ψυχήν). Tutti gli uomini infatti sono gravidi sia secondo il corpo sia secondo l’anima, e, quando giungono ad una certa età, la nostra natura brama di partorire. Ma partorire nel brutto non può, nel bello invece sì. L’unione dell’uomo e della donna è un parto. Nell’essere vivente, che è mortale, vi è questo di immortale: la gravidanza e la procreazione, le quali avvengono in modo armonico. Per questo quando l’essere che è gravido si avvicina al bello, si allieta, e, rallegrandosi, partorisce e genera; “Eros è amore della generazione e del parto nel bello”.
Dunque la conoscenza del bello è la più elevata delle qualità. E la procreazione garantisce immortalità; spinge gli umani a essere immortali, caratteristica che, appunto, non possiedono. La generazione del bello riguarda ovviamente anche le idee, i pensieri e la memoria: i veri filosofi partoriscono nell’anima la saggezza, la giustizia e la temperanza, ideali concepibili solo intorno al bello. Infatti Platone ritiene di maggior valore la bellezza nell’anima, attraverso la quale si arriva in primo luogo a contemplare il bello che è nelle attività umane e nelle leggi. In seguito si procede fino all’amore per la bellezza della conoscenza nella sua vastità, e, ammirandola, si partoriscono magnifici pensieri in un amore senza limiti.
Ma il culmine della scala è la rivelazione del “bello in sé”:
“ὃς γὰρ ἂν μέχρι ἐνταῦθα πρὸς τὰ ἐρωτικὰ παιδαγωγηθῇ, θεώμενος ἐφεξῆς τε καὶ ὀρθῶς τὰ καλά, πρὸς τέλος ἤδη ἰὼν τῶν ἐρωτικῶν ἐξαίφνης κατόψεταί τι θαυμαστὸν τὴν φύσιν καλόν, τοῦτο ἐκεῖνο, ὦ Σώκρατες, οὗ δὴ ἕνεκεν καὶ οἱ ἔμπροσθεν πάντες πόνοι ἦσαν, […] ὅταν δή τις ἀπὸ τῶνδε διὰ τὸ ὀρθῶς παιδεραστεῖν ἐπανιὼν ἐκεῖνο τὸ καλὸν ἄρχηται καθορᾶν, σχεδὸν ἄν τι ἅπτοιτο τοῦ τέλους. τοῦτο γὰρ δή ἐστι τὸ ὀρθῶς ἐπὶ τὰ ἐρωτικὰ ἰέναι ἢ ὑπ᾽ ἄλλου ἄγεσθαι, ἀρχόμενον ἀπὸ τῶνδε τῶν καλῶν ἐκείνου ἕνεκα τοῦ καλοῦ ἀεὶ ἐπανιέναι, ὥσπερ ἐπαναβαθμοῖς χρώμενον, ἀπὸ ἑνὸς ἐπὶ δύο καὶ ἀπὸ δυοῖν ἐπὶ πάντα τὰ καλὰ σώματα, καὶ ἀπὸ τῶν καλῶν σωμάτων ἐπὶ τὰ καλὰ ἐπιτηδεύματα, καὶ ἀπὸ τῶν καλῶν ἐπιτηδευμάτων ἐπὶ τὰ καλὰ μαθήματα, καὶ ἀπὸ τῶν μαθημάτων ἐπ᾽ ἐκεῖνο τὸ μάθημα τελευτῆσῃ, ὅ ἐστιν οὐκ ἄλλου ἢ αὐτοῦ ἐκείνου τοῦ καλοῦ μάθημα, καὶ γνῷ αὐτὸ τελευτῶν ὃ ἔστι καλόν.”
(Platone, Simposio, 210e; 211cd)
“Chi invero fino a questo punto nelle cose d’amore sia stato educato, contemplando di seguito e rettamente le cose belle, pervenendo ormai al termine delle cose d’amore, all’improvviso scorgerà qualcosa di inverosimilmente bello per natura, proprio quello, o Socrate, in vista del quale erano anche tutte le precedenti fatiche: […] E quando uno dalle cose di quaggiù, attraverso l’amare rettamente i ragazzi, salendo in alto cominci a scorgere quel bello, egli non sarebbe lontano dal toccare il termine. Questo è, infatti, il procedere rettamente nelle cose d’amore o l’esservi condotto da un altro: cominciando dalle cose belle di quaggiù, in vista di quel bello salire sempre più, come usando dei gradini, da uno a due, e da due a tuti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e dalle attività umane ai begli apprendimenti, e dagli apprendimenti terminare a quell’apprendimento che non di altro se non di quello stesso bello è apprendimento, e così conosca, giungendo al termine, ciò che è bello in sé”.
(Trad. di Giovanni Reale)
Dunque un uomo, partendo dall’amare rettamente le cose di natura terrena e innalzandosi come di gradino in gradino alle belle virtù umane, e da esse ai begli apprendimenti che comportano conoscenza, giunge a una condizione di pura contemplazione del bello in sé. Questo è il momento della vita più degno di essere vissuto da un uomo: contemplare il “bello in sé”.
Esso non è né oro, né pranzi luculliani, né bei fanciulli (nella Grecia antica era moralmente accettato un rapporto erotico tra il maestro e l’allievo), ma si raggiunge all’improvviso, con meraviglia, non per via dialettica e razionale (ἐξαίφνης κατόψεταί τι θαυμαστὸν τὴν φύσιν καλόν).
Tutto ciò che precede è una preparazione ad una contemplazione arazionale della massima espressione di bellezza, ad un’intuizione che non può avere né una forma né un’immagine accostabile.
In conclusione “Eros” è il mezzo, la tensione presente nell’uomo che gli consente, se ben indirizzata, di giungere all’immortalità. Platone ritiene che il fine della ricerca sia il Bello in sé, svincolato dai sensi, e che a questa ricerca si debba dedicare il filosofo, mentre al giorno d’oggi si considera ‘bella’ qualsiasi cosa solleciti il piacere dei sensi: si pensa che non sia necessaria una definizione universale, ma debbano prevalere i gusti personali o, peggio, quelli indotti dalla pubblicità o dall’opinione comune. Platone invece conferisce minore importanza agli oggetti sensibili, che pone come primo gradino della scala, forse per il motivo stesso che partecipano solo in misura limitata dell’idea del bello e dunque non possono attirare allo stesso modo tutti. Egli tratta con più riguardo le belle virtù umane e i begli apprendimenti, i quali possono essere più universalmente condivisi attraverso gli usi e i costumi di un singolo popolo. Ma Platone compì anche viaggi in Sicilia per tentare di mettere in pratica la propria visione politica; inoltre non rinunciò ad andare oltre la tradizione ateniese, proponendo una visione critica verso (criticando) il patrimonio culturale, le leggende e i miti del popolo greco e producendo una nuova letteratura tramite i suoi dialoghi.
Dalla visione di Platone traspare che la contemplazione del bello in sé è una condizione non raggiungibile con l’intelletto e con gli apprendimenti, che tuttavia costituiscono una preparazione necessaria, anche se non sufficiente. Il bello si manifesta al termine del percorso in modo arazionale, per mezzo di una sorta di intuizione intellettiva, poiché non è riducibile ad alcun concetto o confronto con immagini della mente. È proprio l’anima che ha una visione più pura del bello in sé, che resta del tutto universale e nient’affatto diverso da individuo a individuo.
Indubbiamente la concezione della bellezza di Platone ci provoca e ci induce ad una maggiore attenzione, ad un approccio meno superficiale a quanto ci circonda, ad andare oltre le apparenze per cogliere una idea di “bello” che possa essere universalmente condivisa, ammesso che sia possibile (Platone stesso ci mette in guardia sul fatto che il percorso è molto impegnativo…). Un insegnamento ancora attuale soprattutto nell’epoca della globalizzazione e del confronto fra culture diverse, in cui sembra difficile trovare punti di riferimento comuni.
Νόμος e φύσις, semafori rossi
Anno: 2018
Autore: Fabio d’Aguanno
È notte. Sei in macchina. Stai tornando a casa dopo una cena. Sul sedile del passeggero un amico. Per strada neanche un’anima viva.
Arrivi ad un incrocio. Semaforo rosso. Nessuna traccia di altre automobili per chilometri e chilometri. La strada è un deserto.
Eppure, ti fermi. “Cosa aspetti?” ti chiede l’amico. “Vai. Non c’è nessuno. Nessuno ti vede. Nessuno ti multerà. Non succederà assolutamente niente. Che ti importa del semaforo?”. E invece no: tu ti fermi, e aspetti finché non scatta il verde.
Diciamolo: per comportarti così devi davvero essere un idiota. Oppure un genio.
Questo semplice racconto attualizza, con le dovute proporzioni, un tema filosofico assai caro agli antichi Greci. Un tema vecchio di millenni eppure sempre vivo: nell’Atene classica si sarebbe parlato di “νόμος καὶ φύσις”, noi oggi, più prosaicamente, diremmo “contrasto tra istinti naturali e leggi positive”. Espressione poco affascinante, che non rende appieno la profondità di significato dell’originale greco.
Cosa è il νόμος? È la “legge”. Legge nel senso di principio regolatore della convivenza, di norma che presiede alle relazioni, di insieme di imposizioni all’interno di una comunità. Sin dalla notte dei tempi, laddove c’è stata un’aggregazione di uomini, ci sono state delle leggi che ne salvaguardavano la sopravvivenza ed il funzionamento. Tali νόμοι, tali prodotti della mente umana, hanno da sempre come obiettivo quello che potrebbe essere chiamato “bene comune”, il raggiungimento di una situazione da cui l’intera comunità trae benefici.
Cosa è la φύσις? È la “natura”. Natura nel senso di indole umana, di istinto, di innata disposizione. In che cosa consista la φύσις umana e se essa sia buona o cattiva è una delle domande più care alle filosofie di ogni tempo, e le risposte sono le più svariate. C’è chi nell’uomo ha visto un essere buono per natura, che viene corrotto dalla società. C’è chi invece ha visto una belva selvaggia e feroce, pronta ad azzannare il prossimo. Ed è questo il caso di alcuni pensatori tra i più intriganti e controversi di tutta la storia greca: i sofisti. E in particolare di filosofi quali Trasimaco, Antifonte e Callicle.
Questi tre autori, seppur con qualche significativa differenza, affermano la stessa tesi: che l’uomo tende per sua natura a perseguire il proprio interesse e a sopraffare il prossimo. Che quindi, in un mondo in cui ogni uomo è per natura incline a sbranare il suo vicino, il solo vero criterio regolatore dello stare insieme è costituito dai rapporti di forza: il pesce grande mangia quello piccolo. E che è non solo inevitabile, bensì giusto e naturale che le cose stiano così.
Ed è quindi facilmente comprensibile, in quest’ottica, il sorgere di un conflitto tra νόμος e φύσις: se la prima è tesa al bene comune, la seconda spinge inesorabilmente l’uomo all’affermazione personale. Homo homini lupus: è questo il vero stato delle cose. Ed è così che Trasimaco teorizza che la giustizia è l’utile del più forte; Antifonte afferma che la convivenza civile impedisce all’uomo di perseguire i suoi interessi ed assecondare la sua vera natura; Callicle sostiene che la sola legge che conta nella vita e nella natura è la legge del più forte.
Trasimaco, Antifonte e Callicle sono l’amico sul sedile del passeggero che dice di trasgredire la legge e passare col rosso: è la mia natura che mi dice di comportarmi così. Che importa se c’è un pedone? Noi non ci faremo niente. Sarà lui ad avere la peggio.
Ma davvero le cose stanno così? Già all’epoca queste tesi avevano fatto scalpore. Vari pensatori hanno tentato di fornire una risposta a questa concezione così individualista e per certi versi meschina dell’essere umano. E proprio un altro sofista, Protagora, pensatore “controcorrente”, è fautore di una visione dell’uomo molto meno radicale e più rassicurante. Una visione che ha qualcosa di interessante da dire riguardo il contrasto tra νόμος e φύσις. Essa viene raffigurata con tratti suggestivi ed evocativi nel celebre mito di Prometeo, il cui racconto si trova nel dialogo platonico intitolato appunto “Protagora”.
Si narrava che Zeus, dopo aver creato tutti gli esseri viventi, avesse affidato ad Epimeteo il compito di assegnare loro le caratteristiche e le qualità che sarebbero servite per la sopravvivenza della specie. Chi riceveva zanne e artigli, chi zampe rapide e agili, chi una folta pelliccia, chi una pelle coriacea: sembrava che Epimeteo avesse fatto un ottimo lavoro. Ma si era dimenticato dell’uomo. L’uomo era rimasto nudo ed inerme davanti alle minacce dei predatori.
Ed è così che entra in scena Prometeo, il fratello intelligente di Epimeteo. Non a caso “Prometeo” è colui che πρὸ μανθάνει, “che capisce prima” – al contrario del fratello, “che capisce dopo”. Nella versione tradizionale del mito egli dona all’uomo il fuoco rubato agli dei, ovvero, fuor di metafora, la τέχνη, l’abilità manuale. Gli uomini iniziano a riunirsi in comunità e grazie al fuoco possono difendersi dalle belve.
Ma per Protagora non è abbastanza. In quel mondo ipotetico gli uomini hanno sì il fuoco, ma non possono convivere. Se si riunissero, inizierebbero a sopraffarsi l’un l’altro, si distruggerebbero a vicenda. La comunità umana imploderebbe. Ed è così che interviene Zeus, che fa all’uomo il più grande regalo possibile: la αρετὴ πολιτική, la “virtù politica”, la capacità di stare insieme. Una virtù di cui tutti gli uomini sono fatti partecipi. Ed è così che si formano le prime aggregazioni umane.
Come ogni bella favola, anche questo mito ha una morale. E il senso è che l’uomo è un “animale politico” – “ἂνθρωπος ζῷον πολιτικόν”, dirà Aristotele qualche decennio più tardi. Che ogni essere umano è naturalmente portato ad associarsi con dei suoi simili. Che da soli non c’è salvezza, non c’è realizzazione, non c’è felicità. In questo mito troviamo una suggestiva eppure convincente sintesi tra νόμος e φύσις: l’uomo crea la legge per natura. Non è un caso se νόμος, prima ancora che “legge positiva”, vuol dire “abitudine, usanza, sentire comune”.
Ciò vuol forse dire che la natura umana è totalmente buona? Probabilmente no. Esistono istinti buoni così come istinti cattivi. E più volte nel corso della storia l’uomo ha dimostrato di essere in grado di abbandonarsi agli istinti peggiori se lasciato libero da qualsiasi legge. Trasimaco, Antifonte e Callicle si sbagliano solo in parte. Ma la φύσις umana è, almeno parzialmente, “buona”, perché è stato proprio l’uomo a creare con la sua razionalità delle leggi tese ad una convivenza pacifica. Leggi che non possono essere in totale contrasto con la natura umana perché proprio quest’ultima ne è in qualche misura la fonte.
A questo punto sorge spontanea una domanda: perché perseguire attraverso le leggi il bene comune prima che il bene individuale? Perché obbedire al νόμος e rinunciare a un interesse privato in nome della comunità? Non solo perché “è giusto così”, non perché ce lo dicono i libri di scuola o la Costituzione. Perché in quanto “animali politici” siamo membri di una società, siamo tutti sulla stessa barca, e se questa barca affonda, affondiamo anche noi. Non c’è salvezza fuori dalla comunità.
E allora, la prossima volta che tornerai a casa in macchina di notte e troverai un semaforo rosso, fermati. Avrai il tempo di riflettere e potrai raccontare di aver capito perché il rispetto delle leggi rende l’uomo veramente uomo.
[1] Questo racconto è una libera reinterpretazione di una frase di Gianni Vattimo