Dark Room

Dune. Scritture su moda, progetto e cultura visuale

Vol. 001 n. 001, marzo 2020

semestrale

editoriale

p. 124

La nostra è una delle epoche in cui l’idea dell’interpretazione è generalmente reazionaria e soffocante. Come le esalazioni dell’automobile e dell’industria pesante inquinano l’atmosfera, così le emanazioni delle interpretazioni artistiche avvelenano oggi le nostre sensibilità. In una cultura dove il problema ormai endemico è l’ipertrofia dell’intelletto a scapito dell’energia e della capacità sessuale, l’interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte. È anche qualcosa di più. È la vendetta dell’intelletto sul mondo. Interpretare è impoverire, svuotare il mondo, per instaurare un mondo spettrale di ‘significati’. È trasformare il mondo in ‘questo’ mondo. (‘Questo mondo’, come se ce ne fossero altri). Questo mondo, il nostro mondo, è già fin troppo svuotato e impoverito. Basta con tutti i duplicati, fin quando non torneremo a fare un’esperienza più immediata di ciò che abbiamo.[1]

Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio.[2]

Dune è una rivista che vuole essere spazio di riflessione e raccolta scritta e visiva. Territorio estetico, espressione del gruppo di lavoro che all’Università Iuav di Venezia si dedica alla moda, al progetto e alla cultura visuale. Questa sorta di precisazione degli ambiti di interesse non vuole chiudere Dune dentro dei confini, ma diventa esplicitazione di come questi argomenti possano essere volano di rimandi per attraversare la contemporaneità nelle sue declinazioni più controverse e interessanti.

Una rivista è il formato ideale per radunare intuizioni, riflessioni, ricerche, scarabocchi, privilegiando un approccio interrogativo mai impositivo. Plasmata dalla complessità, senza fissare convinzioni e preconcetti, perché ogni numero può contraddire il precedente.

Il titolo rimanda all’opera fantascientifica epica, filosofica e religiosa in forma di romanzo, di Frank Herbert, pubblicata nel 1965, e al film diretto da David Lynch nel 1984 (prima dell’arrivo del digitale). Il romanzo di Herbert, e più in generale il ciclo pubblicato dagli anni sessanta agli anni ottanta, è il motore che spinge Lynch a realizzare un film in controtendenza con le produzioni del periodo, poiché rinuncia a certi effetti speciali per recuperare la filmografia storica mitologica degli anni sessanta spingendosi anche più indietro. Inizialmente poco apprezzato dalla critica e dal pubblico, il film, come l’immensa opera di Herbert, ha lasciato tracce profonde nell’immaginario collettivo tanto che quest’anno uscirà un remake, diretto da Denis Villeneuve. >>>

Ma la parola “dune” è anche una sorta di amplificatore: rimanda ai paesaggi infiniti e dilatati dei deserti. In italiano è un sostantivo plurale, in inglese è singolare. Si contraddice ma conferma. Ci introduce a quelle visioni che sono i miraggi o la fata morgana. E così si ritorna a quel testo mistico che è Dune. In un futuro in cui la spezia, una droga che amplifica i sensi e permette di viaggiare attraverso lo spazio superando ogni limite, diventa motore e causa di ogni azione.

Dune allora è un invito ad alzare lo sguardo e a guardare oltre. Attesa e imprevisto sono parole che potremmo usare come statement di una rivista che riflette sulla moda, ma che evidenzia soprattutto un’idea di moda che si allontana da quelle forme che siamo tradizionalmente abituati ad attribuirle, per indagare la sua pervasività nelle discipline del progetto, nelle pratiche immateriali, nei processi e nelle ossessioni che generano immagini e immaginari, nelle pieghe del pensiero analogico che muove le pratiche artistiche.

La moda matura, ormai radicalmente trasformata dai nuovi autori e dalle nuove traiettorie che ne hanno aperto i confini nella sua dimensione culturale e progettuale, è il nostro lavoro, il nostro interesse, il centro delle nostre relazioni, la conoscenza che condividiamo. In una dimensione che assume tutte quelle trasformazioni culturali, politiche, sessuali che stanno determinando cambiamenti – nel linguaggio, nella geopolitica, nei rapporti tra gli individui – di cui non conosciamo ancora gli esiti.


Elogio della manutenzione: leggere il Manifesto di Mierle Laderman Ukeles nel 2020 di Stella Bottai parte dal lavoro di questa artista per “offrire strumenti pratici per andare avanti”. Anna Franceschini, affrontando la fantascienza distopica della saga di Frank Herbert Dune, scrive nel proprio incipit di “obblighi e restrizioni che hanno intercettato la dimensione dell’apparire e l’ordine vestimentario il cui tratto simbolico più manifesto è diventato il ‘facciale filtrante’ o mascherina”. È nello spazio in sottrazione, articolato dalla mancanza delle relazioni, che Elisa Frasson riflette sul No Manifesto della danzatrice americana Yvonne Rainer. Il manifesto del corpo di Hervé Guibert devastato dall’AIDS, trasformato in film dallo stesso Guibert, ci costringe nel saggio di Michele Maltauro al confronto con il contagio che cancella relazioni, amori, amicizie.

Fare una rivista a più voci significa manifestarsi ma anche manifestare. Così il numero raduna molteplici interpretazioni del suo tema, inseguendo un’idea di trasversalità che è alla base del progetto editoriale. La parola “manifesto”, indagata a partire dalle sue relazioni con le culture progettuali e visuali, ha innescato, nel mese di apertura della call for papers, uno scambio di idee nel comitato editoriale che si è tradotto in una sequenza di post quotidiani sull’account Instagram @dunejournal.

Un manifesto, per dirla come la direbbe Tristan Tzara, ha sempre ragione, è forte, vigoroso e logico; è un formato che permette una comunicazione rapida e combattiva: siamo partiti da connotazioni come queste per tratteggiare con i nostri post una costellazione di indizi. Gli statement d’impronta ecologista sulle t-shirt di Katharine Hamnett; “The mask as a cut between visible and invisible” sulla maglia di Alessandro Michele per Gucci; “We Should All Be Feminists” di Chimamanda Ngozi Adichie sulla t-shirt come manifesto indossabile di Maria Grazia Chiuri per Dior; le “D.P.” (Doppie Pagine) di Anna Piaggi su Vogue Italia; i molti volti di Cate Blanchett in Manifesto di Julian Rosefeldt; lo S.C.U.M. Manifesto (Manifesto for the Society for Cutting Up Men) di Valerie Solanas riattivato attraverso la performance di Chiara Fumai; la collezione Manifest Destiny di Hussein Chalayan; l’intimità del letto sfatto di Félix González- Torres stampata su cartelloni ed esposta allo sguardo pubblico; le proteste pacifiste a letto di John Lennon e Yoko Ono e quelle mascherate delle Guerrilla Girls: sono soltanto alcune delle sollecitazioni che, in attesa di ricevere gli abstract, il gruppo di lavoro ha messo in fila sul social network per rendere conto della tensione ibrida di questo journal. La risposta è stata multiforme, a tratti imprevedibile, e il risultato è un numero che tiene insieme contributi testuali e visivi di studiosi, ricercatori e artisti con percorsi eterogenei che si sono focalizzati su argomenti laterali e poco approfonditi oppure su temi cruciali della contemporaneità.

In questo numero introduciamo e sperimentiamo modalità di scrittura nuove rispetto al volume precedente (una rivista è un confronto aperto e uno strumento di ricerca su se stessa), affiancando ai saggi testi più brevi, in forma di pronunciamento pubblico o lettera. La moda, il progetto e la cultura visuale mantengono una posizione centrale ma in dialogo aperto e costante con altri linguaggi e altre forme espressive.

Il reazionario self-fashioning dei futuristi, l’arte del ricamo, un faxtestamento dell’artista e designer Cinzia Ruggeri sono soltanto alcuni degli argomenti ulteriori innescati in questo numero, illuminazioni che danno origine e profondità ad analisi e riflessioni.

È stato il Manifesto di Rivolta Femminile, redatto e affisso a Roma nel luglio 1970 da Carla Lonzi, Carla Accardi e Elvira Banotti, a suggerirci di coinvolgere in questo numero il collettivo

Claire Fontaine, che in più occasioni ha dedicato il proprio lavoro a Carla Lonzi e al gruppo Rivolta Femminile. Al collettivo, invitato a occupare sei doppie pagine della rivista, così come all’artista Kensuke Koike, che ha concepito il progetto di copertina, è stata data piena libertà espressiva e di azione.

Dune è un progetto che cerca di rispondere alle esigenze di sedimentazione, trasformazione ed evoluzione di un pensiero sulle pratiche progettuali e visuali, impegnandosi a cogliere dinamiche ampie e profonde della contemporaneità. Non era nel suo programma farsi coinvolgere dalla contingenza (dalla contemporaneità più contingente, per così dire) ma quanto di “accidentale” si è imposto in questo numero ci ha tanto sorpresi quanto ci è sembrato naturale. La ragione è ovvia: la contingenza che si ritrova tra queste pagine non è meno profonda e significativa di quanto lo siano eventi e fenomeni di ampio periodo culturale (cioè, al momento, di più ampio periodo culturale). Pur prodotto nell’anno e dall’anno (straordinario) della pandemia, questo numero di Dune non è nato da una composizione di discorsi straordinariamente dislocati su livelli differenti di osservazione e di riflessione.


note

[1] Susan Sontag, Against Interpretation (New York: Farrar, Straus and Giroux, 1966), trad. it. di Ettore Capriolo, Contro l’interpretazione, (Milano: Mondadori, 1967), p. 17.

[2] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, (Roma: Nottetempo, 2008), p. 13.

indice

Judith Clark

Dark room. Un paradigma di spazio espositivo

pp. 125-128

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ESSAYS 001.001

Il saggio riesamina una mostra curata con Adam Phillips nel 2010 intitolata The concise dictionary of dress, installata nel deposito del Victoria and Albert Museum di Londra, la Blythe House. La mostra solleva domande sulla conservazione degli abiti e sulle “best practice” – gli standard sulla base dei quali i musei producono le loro linee guida. La mostra era strutturata sulla base di undici definizioni – scritte dallo psicanalista Adam Phillips – composte da parole in cui risuonano echi spaziali, sartoriali e psicologici; le definizioni sono poi diventate il punto di partenza per le installazioni di Judith Clark. Questo testo esplora il significato della luce e del buio in relazione a quelle definizioni, e a questioni più ampie relative alla curatela e all’allestimento di mostre.

keywords

Exhibition-making, Conservazione, Gaston Bachelard, V&A Museum, Mostre di moda

bio >>>

Judith Clark è fashion curator ed exhibition-maker. Ha aperto la prima galleria sperimentale di moda (1997-2002). Da allora ha curato mostre importanti al V&A di Londra, al ModeMuseum di Anversa, del Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, a Palazzo Pitti a Firenze, al Palais de Tokyo a Parigi, al Simone Handbag Museum di Seoul, a La Galerie Louis Vuitton di Parigi, e al Cristobal Balenciaga Museum di Getaria. La sua mostra The Vulgar: Fashion Redefined, commissionata dalla Barbican Art Gallery, si è tenuta anche al Winter Palais, Vienna, e al ModeMuseum di Hasselt.

j.clark@fashion.arts.ac.ukons

London College of Fashion

Paolo Di Lucente

L’attesa

p. 129

STUDIES 001.002

Nel maggio 2019, a partire dal tema Dark Room, Paolo Di Lucente realizza sei immagini a Roma e a Monaco di Baviera. Ne seleziona poi quattro dal proprio archivio personale, per svolgere una narrazione che mette al centro il tema dell’imprevisto. Il suo sguardo illumina scene quotidiane in apparenza trascurabili e le fotografie sono il risultato di un’attesa. A proposito della penultima immagine del saggio visivo, racconta: “Ero a Mosca e stavo per scattare una foto di un portone e di un citofono. Improvvisamente, una donna con i capelli rossi è entrata nel mio frame”. Courtesy e © Paolo Di Lucente.

bio >>>

Paolo Di Lucente è un fotografo nato a Roma nel 1984. Si trasferisce a New York nel 2008 e dopo alcuni anni a Londra, dove vive e lavora. Il suo sguardo è rivolto a scene tra realtà e finzione. Ha pubblicato su diverse testate internazionali tra cui Interview Germany, Document Journal, Mémoire Universelle, Dust, The Gourmand e Wallpaper magazine.

www.paolodilucente.com

Antonella Huber

Chiuda gli occhi per favore! Conoscenze sensibili in camera oscura

pp. 130-134

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ESSAYS 001.003

Lo spazio nero, all’interno del quale si registra e si materializza la proiezione della realtà, non è solo uno strumento tecnico ma un vero e proprio “apparato”, capace di codificare e di svelare ciò che avviene nel segreto della mente prima ancora che questo si definisca in un’immagine. La costruzione della visione, dunque, attraverso la diffusione e la gestione degli strumenti ottici, si accompagna a una costante ridefinizione del soggetto osservatore, del suo ruolo e della sua posizione come parte della rappresentazione.

keywords

Apparato, Evidenza, Artificio, Visione, Spettatore

bio >>>

Antonella Huber è docente di Museologia del Contemporaneo presso la Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. La costante attività di ricerca, nell’ambito della museologia, della museografia contemporanea e della pratica del display, nell’azione culturale di istituzioni pubbliche e private, è supportata da una proficua esperienza sul campo come consulente alla progettazione di mostre e musei.

antonella.huber@gmail.com

Luca Ruali, Louis De Belle

Cruising Pavilion. Desiderio e territorio

pp. 135-137

REVIEWS 001.004

Presentazione

Il primo episodio del Cruising Pavilion è stato montato a Venezia nei giorni di apertura della 16a Biennale di Architettura. L’espressione cruising descrive dalla metà degli anni settanta un movimento di natura particolare, provocato dalla ricerca di possibili partner omosessuali maschi nell’ambito di spazi e rituali specifici. Cruising Pavilion ha occupato Spazio Punch alla Giudecca, nel complesso delle Ex Birrerie Dreher, seguendo dinamiche latenti rispetto al tema della mostra – FREESPACE – con lo studio e la riproduzione dei luoghi di pratiche sessuali non conformiste secondo un progetto indipendente di Pierre-Alexandre Mateos, Charles Teyssou, Rasmus Myrup, e Octave Perrault.

bio >>>

Luca Ruali, architetto e autore, realizza progetti e disegni dedicati alla seduzione reciproca tra natura, strutture e figure femminili, nonché pubblicazioni e ricerche dedicate al territorio italiano. Nel 2012, è stato invitato a partecipare al Padiglione Italia nell’ambito della 13a Biennale di Architettura di Venezia. Nel 2019 ha pubblicato Il paese nero / Black Italy, un archivio di azioni e ricerche dedicato all’abbandono dell’entroterra italiano.

www.lucaruali.net

Louis De Belle ha studiato al Politecnico di Milano e all’università Bauhaus di Weimar. I suoi lavori sono stati pubblicati da testate come The Washington Post, Libération e The Independent. Le sue fotografie sono state esposte in festival internazionali, gallerie e musei tra cui The Royal Albert Hall e il KIND Centre for Contemporary Art di Berlino. Ha pubblicato Failed Dioramas (2015), Besides Faith (2016) e Disappearing Objects (bruno, 2018). Vive e lavora tra Milano e Berlino.

www.louisdebelle.com

Elda Danese

Le emozioni del buio

pp. 138-141

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ESSAYS 001.005

Il tema di questo numero solleva la questione sensoriale, che nell’articolo viene brevemente introdotta allo scopo di evidenziare una gerarchia dei sensi che tende a privilegiare la visione e l’udito, mentre tatto, gusto e olfatto sono comunemente considerati “bassi”. Da qui il riferimento alla performance ideata da Tino Sehgal per la tredicesima edizione di Documenta a Kassel, che introduce il tema di numerose presenze umane in un luogo buio e del rapporto con l’inquietudine e con il disorientamento che ne derivano. Il parallelo con la dark room – intesa come luogo di incontro con l’ignoto e con l’attività omosessuale – sta nell’intensità dell’emozione e nella modifica l’atto performativo artistico con l’incisività del tatto nel rapporto carnale. Le dark room sono prevalentemente dedicate agli omosessuali: a partire da questo dato il testo si sposta – perché dettato dalla specificità del tema – al dibattito sulle questioni di genere e alla dimensione aperta del queer.

keywords

Sensi, Arte, Buio, Queer, Identità

bio >>>

Elda Danese, dottore di ricerca in storia dell’arte contemporanea con una tesi dedicata alle riviste di moda come fonte iconografica per l’arte figurativa degli anni sessanta, si occupa di cultura visiva contemporanea, di storia della moda e del tessile. Dal 2005 a oggi è docente a contratto nel corso di laurea in Design della moda presso l’Università Iuav di Venezia.

danese@iuav.it

Università Iuav di Venezia

Bruce LaBruce

Desire in the Dark

p. 142


STUDIES 001.006

Presentazione

Le fotografie di questa serie sono state in gran parte scattate sul set di due cortometraggi che ho scritto e diretto per due diverse case di produzione di cinema pornografico: Fleapit per Cockyboys e Scotch Egg per Erika Lust. Fleapit, una sezione di un film omnibus più lungo intitolato It Is Not the Pornographer That Is Perverse, è stata girata in uno squallido cinema a Moabit, una parte vagamente dimenticata di Mitte, a Berlino. È un omaggio ai miei film preferiti che mostrano seduzioni e movimenti licenziosi in sale cinematografiche tenebrose, tra cui Last Summer di Frank Perry, Midnight Cowboy di John Schlesinger e Demons di Lamberto Bava, tra gli altri. Gli attori coinvolti sono sia professionisti del cinema hard che gente comune. Scotch Egg è stato girato in un leather/fisting bar a Barcellona. È stato scritto appositamente per il mio amico e attore porno scozzese AJ Alexander (che appare anche in Fleapit) e segna il debutto della sorprendente pornostar Candy Flip. Il film è prodotto in maniera sperimentale, dato che ho chiesto ad AJ, che è gay, di fare sesso con una donna per la prima volta in un film. È stata un’esperienza molto liberatoria!

Bruce LaBruce

bio >>>

Bruce LaBruce è un regista, fotografo, scrittore e artista con base a Toronto, ma attivo a livello internazionale. Oltre ad aver diretto numerosi cortometraggi, ha scritto e diretto undici lungometraggi, tra cui Gerontophilia, film vincitore del Grand Prix al Festival du Nouveau Cinema di Montreal nel 2013. Il suo lavoro fotografico è stato esposto in gallerie in tutto il mondo, tra cui nella mostra fotografica Obscenity alla Galleria La Fresh di Madrid, che ha causato tumulto in Spagna. Il suo lungometraggio L.A. Zombie è stato bandito in Australia. Il suo ultimo film, Saint-Narcisse, uscirà entro la fine dell’anno.

www.brucelabruce.com

Francesco D’Aurelio

Toward the Dark Room

pp. 143-148

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ESSAYS 001.007

Il testo tratta del problema della rappresentazione della dark room. Per farlo vengono attraversati tre ambienti: il primo è quello della città contemporanea nella quale gli interessi politici sono orientati all’esclusione dei locali gay/queer/lgbt, segue una collezione di alcuni degli atti di resistenza, provenienti dalle discipline dell’arte e dell’architettura, che rappresentano in forma grafica e visuale lo spazio della sessualità. Infine, attraverso la forma narrativa del racconto e quella della riflessione teorica, rappresento lo spazio darkoom come “atmosfera”.

Keywords

Sex, Policy, Measure, Senses, Atmosphere

bio >>>

Francesco D’Aurelio è laureato in Architettura all’Università Iuav di Venezia e si interessa alle attività di allestimento e al fare mostre. Svolge collaborazione accademica e professionale con la direzione Iuav Moda dove è stato coinvolto come set designer del Fashion at Iuav per le edizioni 2017-2019 e come exhibition maker. I suoi temi di ricerca riguardano principalmente le relazioni tra l’architettura e la sessualità, la città e l’ambiente del cantiere e i risvolti che questi hanno in ambito progettuale.

franc.daurelio@gmail.com

Università Iuav di Venezia

Marta Franceschini

Fori stenopeici. Sulla creatività spuria dello stilista

pp. 149-154

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ESSAYS 001.008

Il contributo recupera alcuni episodi dell’epoca degli stilisti e ne accosta le caratteristiche agli elementi meccanici alla base della costruzione delle più basiche camere oscure – scatola oscurata; foro stenopeico; piano di proiezione. Mescolando elaborazioni teoriche, testimonianze di creativi e riflessioni scientifiche sulla creatività e le sue componenti, l’obiettivo del testo è riflettere proprio sullo stilista come creatore e equilibrista, che condivide tecniche della scienza e dell’arte ma le applica a un campo d’azione privilegiato e particolare, quello della moda riproducibile, del prêt-à-porter.

Keywords

Fori Stenopeici, Fabbrica, Stilista, Creatività, Camera Oscura

bio >>>

Marta Franceschini è dottoranda in Scienze del Design all’Università Iuav di Venezia. Consegue un MA in History of Design al Royal College of Art and Victoria and Albert Museum. La sua ricerca si muove tra la riflessione sull’archivio, l’identità nazionale e di genere, e la moda come sistema di produzione e comunicazione. Ha contribuito alla costituzione dell’archivio digitale di Armani/Silos, e collaborato a progetti di mostre e libri come Bellissima: L’Italia dell’alta moda, 1945-1968 (Villa Reale, Monza e NSU Art Museum Fort Lauderdale), Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001 (Palazzo Reale, Milano), e Il Maschile. Mente androgina corpo eclettico (Gucci Garden Galleria, Firenze). Con Mario Lupano, ha curato il libro Uomini all’Italiana. La confezione Zegna dalla sartoria all’industria (Venezia, Marsilio, 2018).

mfranceschini@iuav.it

Università Iuav di Venezia

Nicola Brajato

Dancing in the Dark: Sui confini corporei e vestimentari nell’esperienza del clubbing

pp. 155-159

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ESSAYS 001.009

Il saggio si pone l’obiettivo di trattare l’esperienza del clubbing come luogo spazio-temporale all’interno del quale le barriere sociali che definiscono i confini corporei e vestimentari vengono rinegoziate a favore di una più libera sperimentazione e autodeterminazione del soggetto. Nello specifico, la discoteca verrà definita in termini foucaltiani come eterotopia, uno spazio intrinsecamente anarchico all’interno del quale il corpo rivestito, grazie alle capacità trasformative della moda, può essere considerato un corpo grottesco, in continuo divenire. Oltre a offrire una prospettiva teorica sul ruolo e i significati del corpo grottesco nello spazio eterotopico del clubbing, il saggio vuole criticare l’approccio normativo al corpo rivestito a favore di un ripensamento dell’autodeterminazione vestimentaria, per un’idea di moda che possiamo definire a tutti gli effetti queer, in quanto contraria a una giuridificazione forzata dell’identità.

keywords

Clubbing, Moda, Eterotopia, Grottesco, Queer

bio >>>

Nicola Brajato è dottorando in Fashion and Gender Studies all’Università di Anversa (Facoltà di Scienze Sociali – Dipartimento di Scienze della Comunicazione) con un progetto di ricerca sul ruolo della moda belga nella ridefinizione del concetto di mascolinità dal punto di vista estetico, corporeo e identitario. Recentemente ha iniziato a sviluppare il suo profilo accademico partecipando a convegni internazionali e tenendo conferenze sul rapporto tra moda, corpo e identità in collaborazione con il MoMu (Museo della moda di Anversa), l’Antwerp Queer Arts Festival e l’A* Antwerp Gender and Sexuality Network.

nicola.brajato@uantwerpen.be

Università di Anversa