Legalità e legalismo
Il concetto di legalità costitutivo della sensibilità occidentale è strettamente legato alla metafisica kantiana dei costumi. Com'è noto, per Kant il legale si distingue dal morale; nella morale, infatti, l'azione è dettata dalla pura ragione, mentre dal punto di vista legale questa è determinata da un'entità esterna. Nella prima il dovere è coestensivo all'impulso d'agire, mentre nella seconda c'è tra essi una divergenza fondamentale. È stato Kelsen a ribaltare giuridicamente questa dimensione, arrivando infine a sostenere che la legalità è la morale del diritto: la giustizia sarebbe allora un sinonimo della legalità, quid juris e quid ius coincidono. Questo perché, in Kelsen, viene a cadere la concezione del diritto come forza coercitiva e, di conseguenza, lo sdoppiamento della sfera delle azioni tra interno ed esterno. Facendo ciò, però, Kelsen elimina la legittimità della resistenza. Come nota Schmitt, infatti, «un sistema di legalità chiuso», quindi diametralmente opposto all'apertura alla trascendenza che invocava in luogo del cristallo di Hobbes, «fonda la pretesa all'ubbidienza e giustifica il fatto che venga abbandonato ogni diritto alla resistenza». (N.B. Schmitt, questo, lo scriveva nella Germania del '32.) Arrivando a noi e a quello che per noi sono stati gli incontri con l'Associazione e gli esperti, riteniamo che la complicazione del concetto di legalità sia oggi, quantomai, urgente, ed essa non può essere posta al di fuori di un coinvolgimento radicale ed esistenziale dell'individuo, al quale è richiesto di mettersi in gioco integralmente. Affrontare la mafia nel Nord-Est, il processo avvenuto qui al vicino della porta accanto non può non problematizzare la nostra capacità di porci all'altezza del presente, al grado di un'attualità politica il cui cuore nero va anche ricercato in quell'accordo che segnò una sorta di resa dello Stato italiano e a cui, purtroppo, tristemente, dobbiamo anche parte della nostra democrazia. Affrontare queste tematiche, riflettere in tal senso a nostro avviso era necessario, com'era necessario farlo attraverso un'associazione, Libera appunto, che trova nel tessuto sociale la possibilità stessa di una resistenza alla criminalità organizzata e rimettendo la lotta alla mafia alla sua propria dimensione sociale, perché la lotta alla mafia è una lotta sociale. Così facendo si scardina dal fondamento il dilemma kantiano tra morale e legale, e questo in senso spinoziano. Spinoza si chiede: cosa può un corpo? Non si tratta più di agire in vece della determinazione esterna, sia questa la legge dello Stato o la legge di Dio. Ciò che è buono o e ciò che è cattivo non è misurato prima e non si misura dall'alto, ma è radicato nell'esistenza specifica del corpo particolare che s'incarna nell'agire di quell'azione. “Io nasco per incarnare questa ferita”, dirà Bousquet. La spontaneità e lo splendore di Libera, ci pare, rimandano a questo, e su questa base ci è parso opportuno affrontare l'argomento, sulla scorta cioè della domanda che Libera fa circolare: non il generico «che fare» ma «cosa possiamo fare»—e ciò nelle particolarità specifiche e irripetibili dei nostri corpi, nella stringenza concreta del quotidiano.