Materiali di studio e di lavoro

Mali, Donna Tuareg cieca

Il gallerista tirò fuori dal cassetto altre foto dello stesso fotografo; quello che vidi mi colpì profondamente, specialmente questa immagine, il ritratto di una donna tuareg cieca. Mi commuove ancora fino alle lacrime, anche se la guardo ogni giorno visto che è appesa sopra la mia scrivania. Una cosa l'avevo già capita di questo Sebastiao Salgado: gli importava davvero degli esseri umani. Questo significava molto per me, dopotutto gli esseri umani sono il sale della Terra. (Wim Wenders)

L'indole di Tiao

Tiao era un malandrino, era sempre in viaggio. Mai visto uno viaggiare tanto, mio padre era così: non si fermava mai, sempre in giro, come una trottola. (Il padre)

Sebastiao Salgado

Sebastião Salgado, dopo essersi laureato in economi a, nel 1969 lascia il Brasile del regime militare e si trasferisce con la moglie Lelja in Europa dove inizia a lavorare per l'InternationalCoffee Organization, che gli permette di visitare l’Africa. Poi nel 1973 abbandona una promettente carriera come economista per dedicarsi totalmente alla fotografia.

I progetti fotografici

Il film racconta i suoi grandi progetti fotografici, dagli anni settanta del secolo scorso ad oggi. In Otras Américas (1977-1984), dedicato all’America latina (in particolare Messico, Ecuador, Perù, Bolivia), Salgado ci offre una testimonianza dal vivo di usi, costumi e credenze di alcune popolazioni indigene del continente: i Saraguro dell’Ecuador del Sud, molto credenti e grandi bevitori; i Wichis messicani, per cui la musica è la cosa più importante; i Tarahumara del Messico del Nord, che invece sono dei grandi corridori. Al suo arrivo lo scambiano per un inviato dal cielo, in quanto credono che gli dei sotto l’aspetto di Cristo verranno sulla terra per osservarli e scegliere chi è degno del Paradiso e chi no. Questi popoli hanno lo stesso ritmo del tempo, tutto è lento; hanno un altro modo di pensare, nei loro usi c’è molto fatalismo.

Brasil (1981-1983) è un viaggio nel Nord-est del Brasile. Qui la fotografia si fa mezzo per una denuncia sociale: la mortalità infantile in quegli anni era molto alta e il problema non è ancora stato risolto. Le foto riescono a catturare nell’istante l’anima di quella popolazione: si pensa che i bambini non ancora battezzati non vadano in Paradiso ma rimangano nel limbo. Pertanto li si lascia con gli occhi aperti per far trovare loro la strada. La fotografia di Salgado racconta anche il movimento dei contadini senza terra, gente di grande forza fisica e morale nonostante la loro fragilità fisica dovuta alla cattiva alimentazione.

La sofferenza di cui è testimone lo cambia interiormente, soprattutto dopo l’esperienza in Africa testimoniata da Sahel. The end of the road (1984-1986), in cui racconta una storia sulla fame collaborando con Medici senza Frontiere.

In Etiopia, nel 1984, descrive i campi dei rifugiati di una popolazione di religione copta, la cui indigenza è a suo avviso più un problema politico, legato alla redistribuzione dei beni di prima necessità, che di catastrofi naturali.

Sono le malattie parallele alla fame (come il colera che porta alla dissenteria) che uccidono. La sua fotografia racconta di visi giovani invecchiati dalla sofferenza che muoiono in gran parte di notte per il freddo. Secondo la loro tradizione religiosa il corpo deve arrivare pulito davanti a Dio e lo si deve lavare anche se si ha pochissima acqua a disposizione. La sua voce fuori campo ci dice infatti che ogni persona che muore è una parte di tutti che muore.

Nella Tigray Region i guerriglieri usano la violenza per cacciare la gente (tra cui molte donne incinte) verso il Sudan. La sua fotografia diventa una documento di testimonianza eccezionale sulle condizioni dei rifugiati nei campi-profughi gestiti da Medici senza Frontiere. Per fare un esempio, una volta giunti con i camion sulle rive del Nilo, trovano l’acqua ma niente da mangiare: la gente ha resistito durante la traversata del deserto, ma una volta arrivata non ce l’ha fatta più. La foto qui sotto fissa nell’attimo la dignità di un uomo giunto stremato con il figlio morto tra le braccia.

Un altro grande progetto fotografico, Workers. La mano dell’uomo 1986-1991 , è una vera e propria archeologia dell’era industriale nei vari continenti.

Wenders ha avuto una grande intuizione in sede di montaggio decidendo di aprire il film con le foto in bianco e nero della miniera d’oro brasiliana di Serra Pelada, una massa di 50.000 persone in cui non c’è un solo schiavo, ma soltanto individui di tutte le classi sociali mossi dal desiderio di arricchirsi, di cercare qui una possibilità. La fortuna dipende dal caso, in quanto, trovato un filone d’oro, ognuno sceglie un sacco, in cui può n on esserci niente oppure un chilo d’oro.

Nel 1991 Saddam ordina di incendiare i pozzi di petrolio in Kuwait. Ci sono 500 pozzi che bruciano, senza nessun controllo, soltanto colonne di fumo così dense che il sole non riesce a passare. Di giorno sembra piena notte e la terra resta bollente anche dopo che il fuoco è stato spento e qualche volta si sentono esplosioni violente. Salgado ci lascia una testimonianza eccezionale del lavoro del corpo dei pompieri canadesi di Calgary. Una volta domato l’incendio, è una loro usanza lavare il camion tutte le sere, anche se la mattina dopo lo trovano di nuovo ricoperto di petrolio.

Il racconto per immagini prosegue con Exodus 1993-1999, che testimonia la migrazione di interi popoli da Iraq, Sudamerica, Palestina ma soprattutto dall’Africa per la guerra, la fame, il predominio del mercato globale.

Nel 1994 è testimone dell’esodo della popolazione tutsi dal Rwanda verso la Tanzania (ma anche verso Burundi, Congo, Uganda). Percorre le strade piene di gente in senso inverso, circa 150 Km di strada e di morti per arrivare alla periferia di Kighali. In pochi giorni si forma una gigantesca tendopoli nella savana, che ammassa quasi un milione di persone.

L’esercito hutu al potere è stato sconfitto e a questo punto sono gli stessi hutu (in pochi giorni più di 2 milioni di persone) a fuggire dai tutsi in Congo (Regione di Goma) e la gente comincia a morire per il colera, 12-15.000 morti al giorno. La sua fotografia diventa così testimonianza umana e politica della condizione umana: tutti devono vedere con i propri occhi l’orrore della nostra specie, racconta la sua voce fuori campo.

Nel 1995 ritorna in Rwanda per seguire gli hutu che rientrano in patria obbligati dalle Nazioni Unite. La sua fotografia è un documento storico eccezionale che descrive la banalità del male : ancora tende di rifugiati e morti ammazzati, persino nelle chiese e nelle scuole.

Come esempio di questa condizione umana, racconta che nel 1997 una parte della popolazione è rientrata in Rwanda dal Congo, una colonna di 250.000 persone lascia la città di Goma e sparisce nella foresta del Congo. Riappaiono 6 mesi dopo a Kiragami, ma ne arrivano soltanto 40.000. I guerriglieri cominciano a cacciarli e a ucciderli. Degli altri non si sa più nulla ma quasi certamente sono stati uccisi.

L’esperienza africana lo ha talmente provato che ormai non crede più a niente, è convinto che non ci sia salvezza per la specie umana. Salgado scende nel cuore delle tenebre e si interroga sul suo ruolo di fotografo e di testimone della condizione umana.

La violenza e l’odio si presentano anche in Europa, nella guerra nella ex Jugoslavia (Yugoslavia 1994-1995).

La macchina fotografica di Salgado anche qui ci mostra campi di rifugiati non lontano da Tusla nella Bosnia centrale, dove i serbi ammassano migliaia di persone. Ci sono solo donne, vecchi e bambini, in quanto gli uomini più giovani sono stati per lo più fermati e assassinati. Vede anche l’esodo di gente e di automobili per centinaia di km lungo le strade. Gli esseri umani sono molto feroci, di una violenza estrema; la nostra è una storia di guerre senza fine, che mescola repressione e follia.

Pieno di amarezza e di sdegno per gli orrori di cui è stato testimone, decide di tornare con la moglie in Brasile per occuparsi della fazenda di famiglia, di cui non era rimasto più niente. L’idea di Lelja è di ripiantare la foresta pluviale che c’era prima, la Mata atlantica, su una superficie di 600 ettari. Nei dieci anni seguenti avviene il miracolo: nasce l’Istituto Terra, un parco nazionale aperto a tutti con oltre 2 milioni e mezzo di alberi piantati e mille sorgenti d’acqua. La terra guarisce la disperazione di Salgado e gli offre lo spunto per un nuovo progetto fotografico dedicato all’ambiente, Genesis 2004-2013, che è un omaggio al pianeta. Da fotografo socialmente impegnato diventa fotografo di paesaggi e di animali, per ritrovare la pace in armonia con la natura, perché gli uomini non dovrebbero mai dimenticare di farne parte. Ci offre così splendide foto in bianco e nero di iguane, tartarughe, scimpanzé, leoni marini, balene, pinguini. Genesis riporta il fotografo in giro per il mondo per un decennio, consentendogli di guadagnare una visione più ottimistica del pianeta (non a caso, secondo Wenders, questo lavoro è una lettera d’amore al pianeta).

Nel finale del film Wim Wenders lancia un messaggio di speranza per il futuro dell’umanità e del pianeta...