di Anna Turrini

BREXIT: IL DIFFICILE RAPPORTO TRA REGNO UNITO ED UNIONE EUROPEA

Il 31 gennaio 2020 è una data che rappresenta una svolta epocale nella storia del Regno Unito. Il Consiglio dell’Unione Europea dopo l’approvazione del Parlamento conclude l’accordo di recesso tra lo Stato e l’Unione. L’indomani, a Bruxelles la bandiera britannica viene ammainata, il paese non è ufficialmente più uno Stato membro dell’UE e la Brexit si è compiuta. Ha inizio un periodo di transizione in cui i due attori dovranno negoziare i termini di nuovi accordi internazionali, mentre fino alla fine dell’anno rimarranno in vigore i trattati comunitari. Negoziazioni che ad oggi sembrano rivelarsi più che mai difficoltose, soprattutto in materia di intese commerciali, dove il rischio è quello di un “no deal”, ipotesi che tuttavia sembra non spaventare il Primo Ministro Johnson.

Dopo più di 4 anni dal referendum popolare, la Brexit diviene una realtà effettiva, grazie alla clausola di recesso, di cui all’art. 50 TUE, introdotta dal trattato di Lisbona del 2009 ha consentito di realizzare la volontà del 51,9% dei cittadini britannici, che nel giugno 2016 si erano espressi a favore del leave. È il primo caso di recesso di uno Stato membro nella storia dell’Unione Europea. Un esito che tuttavia ha sollevato sin da subito varie controversie, tanto da ipotizzare in più di un’occasione una nuova consultazione popolare sulla base dei presunti ripensamenti di molti cittadini e delle numerose proteste avanzate oltremanica nel corso dei mesi successivi al voto. Manifestazioni e malumori che però non hanno mai scalfito le posizioni del governo, il quale, nonostante le dimissioni della Premier Theresa May, che aveva guidato la Gran Bretagna subito dopo l’esito referendario, si ricompatta nel nuovo leader Boris Johnson che traghetta il Paese verso il compimento dell’impresa.

Il Regno Unito abbandona l’Unione dopo 47 anni dal suo ingresso nell’allora Comunità economica europea (CEE), un’adesione parsa sin da subito dettata prevalentemente da interessi di carattere economico-commerciale piuttosto che da un reale sentimento europeista. La posizione geografica dell’isola ha infatti spesso favorito la conservazione di un certo grado di indipendenza politica ed economica dal resto del continente nel corso dei secoli, una sorta di integrità culturale e territoriale che ha alimentato nel tempo la vocazione diplomatica del Regno, capace di tessere relazioni internazionali solide e proficue anche e soprattutto al di fuori dell’Europa. È per tale ragione che dopo la fine della Seconda guerra mondiale, mentre nel cuore del continente venivano poste le prime basi al progetto di un’istituzione comune europea, il Regno Unito pensava a rafforzare i rapporti transatlantici con la Potenza statunitense, osservando da lontano i progressi della CECA, appoggiando l’impresa senza però prenderne formalmente parte.

Un’ ambivalenza mantenuta anche dopo il 1973, quando caduto il veto del presidente francese De Gaulle che aveva ostacolato le bendisposte intenzioni britanniche già nel 1963 e poi nel 1967, il Regno Unito diventa ufficialmente uno Stato membro. Accantonata l’esperienza nell’EFTA (Associazione europea di libero scambio, progetto di integrazione economica, alternativo alla CEE) lo Stato può finalmente beneficiare dei vantaggi del neonato mercato comune europeo ma l’opinione pubblica è divisa, tanto da accogliere la proposta laburista di un referendum consultivo sulla permanenza nella CEE. Tuttavia, in questa occasione si registra una netta vittoria per il remain (67%) soprattutto in Inghilterra e nel Galles, aree dove paradossalmente 40 anni più tardi sarà invece il fronte del leave a convincere gli elettori.

Lo scetticismo non si esaurisce però nel plebiscito del 1975, e durante gli anni 80’ il governo Thatcher si scontra ripetutamente con la Comunità. La questione al centro della controversia riguarda precipuamente i contributi versati nelle casse europee. Lo scontro si risolve con la concessione di un rimborso pari al 66% delle spese totali sostenute annualmente dal Regno Unito, è solo il preludio ad un tema più spinoso, forse il più critico nella storia dei rapporti euro-britannici: l’unione monetaria. La firma del trattato di Maastricht nel 1992 e il ritorno di un governo laburista ed europeista nel 97 non sradicano il paese dall’attaccamento alla propria moneta, l’euro non riesce a rimpiazzare la sterlina mentre invece lo scetticismo verso l’Unione Europea inizia a trasformarsi lentamente in vero e proprio antieuropeismo.

In conclusione, la Brexit è il simbolo di una Stato che non si è mai veramente sentita parte di un progetto comune e che ha sempre posto condizioni alla sua partecipazione, preferendo al sentimento di appartenenza uno spirito di prudente cooperazione, oggi forse compromessa dalle spinte nazionalistiche riemerse non solo tra i britannici ma anche nel resto d’Europa.