23 giugno 2020

Il razzismo in America e le sue conseguenze

La morte di George Floyd, ucciso a Minneapolis (Minnesota) da un poliziotto il 25 maggio 2020, ha indirizzato l’attenzione non solo americana ma anche mondiale verso un tema mai sufficientemente discusso tra i cittadini: la discriminazione e la violenza nei confronti delle persone di colore, in modo particolare quella attuata dai poliziotti. Il movimento del Black lives matter, che vuole eliminare i comportamenti discriminatori attuati dai suprematisti bianchi, sta ricevendo sempre più visibilità; lo scopo ultimo è quello di raggiungere un'equità di trattamento delle persone senza discriminazione razziale e non la prevaricazione delle persone di colore, come molti pensano. Il movimento tuttavia riscontra grandi difficoltà nell’imporre questa concezione di uguaglianza, dovute al fatto che le discriminazioni razziali, soprattutto in America, sono frutto di una cultura e un’ideologia imposte alla popolazione nell’arco di secoli e provenienti da una storia segnata da differenze razziali difficilmente valicabili.

La discriminazione dei neri da parte dei bianchi negli States risale all’epoca del traffico di schiavi africani, trasportati e venduti come fossero merci e poi impiegati principalmente nelle coltivazioni nel sud degli Stati Uniti e come domestici nelle case dei ricchi proprietari terrieri bianchi tra il XVI e il XIX secolo. La tratta di schiavi raggiunse una dimensione tale da diventare pilastro portante sia dell’economia americana che di quella africana e parte integrante del sistema economico degli stati del Sud. Quando nel 1865, a seguito della guerra civile americana, fu abolita la schiavitù, fu necessario trovare un “escamotage” per continuare ad avere quella forza lavoro necessaria a non compromettere l’economia. Per questo nel XIII emendamento è presente una specie di “scappatoia”. Esso recita: “Né la schiavitù né il servizio non volontario – eccetto che come punizione per un crimine per cui la parte sarà stata riconosciuta colpevole nelle forme dovute – potranno esistere negli Stati Uniti o in qualsiasi luogo sottoposto alla loro giurisdizione”. La parte centrale di questo emendamento permise di sfruttare criminali come forza lavoro. Si iniziò ad arrestare gli ex-schiavi con qualsiasi pretesto, rendendo perseguibili reati minori come il vagabondaggio e si diede vita al primo incarceramento di massa in America nel 1970. Assistiamo a quella che potremmo chiamare una “nuova schiavitù”, che avviene non nelle coltivazioni di cotone ma nelle carceri. Il documentario di produzione Netflix “XIII emendamento” attraverso commenti di esperti tratta in modo esaustivo e chiaro questo tema e mostra come la schiavitù in America ha continuato ad esistere anche dopo la sua abolizione. La moltiplicazione di arresti, soprattutto di persone di colore, ha fatto in modo che le persone si sentissero giustificate ad attuare comportamenti razzisti. Nel 1815 venne fondato il Ku Klux Klan, setta che portò avanti azioni di razzismo e terrorismo nei confronti dei neri esistente ancora oggi. Nel 1915, inoltre, uscì il film “Birth of a Nation”, che rappresentava l’uomo di colore come un criminale, stupratore e ladro, che andava perseguito e punito. Da allora, più di prima, venne inculcata alla popolazione l’accostamento dell’immagine dell’uomo di colore e quella del criminale per eccellenza. Nello stesso anno della promulgazione del XIII emendamento vennero emanate le leggi Jim Crow, statuti nazionali e locali che avevano come obiettivo principale la segregazione razziale. Vennero negati alcuni diritti fondamentali alle persone di colore, come il diritto di votare, accedere all’istruzione, entrare in alcuni luoghi pubblici e perfino di essere assunti per determinati lavori. In campo giuridico, le persone di colore ricevevano pene più dure rispetto ai bianchi anche davanti a parità di reato. Molti furono gli attivisti contro queste leggi, tra cui Ida Wells, Charlotte Hawkins Brown e Isaiah Montgomery. Figura di spicco nella lotta non violenta per l’uguaglianza delle persone fu Martin Luther King, attivista diventato famoso soprattutto per il suo discorso “I have a dream” e il Nobel per la pace conferitogli nel 1964, anno in cui venne promulgata la Legge sui Diritti Civili (per cui egli si era battuto). Le leggi Jim Crow vennero abolite definitivamente solo nel 1968 con il Fair Housing Act, ma la discriminazione nei confronti dei neri continuò ancora. L’eredità storica di una nazione è difficilmente sradicabile e così le distinzioni razziali hanno fatto fatica ad essere accantonate, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, dove è nata la cultura della schiavitù. Il tema della segregazione razziale è ben ripreso nel film Greenbook (ispirato alla vera storia Tony Lip e Tom Jones): Tony Vallelonga, padre di famiglia di origini italiane, dopo aver perso il suo lavoro come buttafuori viene assunto da Don Shirley, musicista di colore molto famoso ed incredibilmente dotato, come autista tuttofare per il suo tour. Durante il viaggio in Cadillac che segue l’itinerario del Negro Motorist Green-book (una guida scritta nel 1962 da Victor Green in cui erano segnati pub, alberghi, ristoranti, stazioni di servizi che accettavano persone di colore nel sud degli Stati Uniti), i due scoprono diverse sfaccettature di discriminazione razziale da parte della classe benestante di bianchi, che ammiravano e apprezzavano Shriley solo nel momento dell’esibizione – a cui applaudivano entusiasti – ma poi si allontanavano, non gli permettevano di mangiare con loro o utilizzare lo stesso bagno.

Questi avvenimenti storici hanno avuto una portata tale che col tempo la discriminazione è sfociata nella violenza, visibile nelle azioni non solo della popolazione comune ma anche dei poliziotti, e l’imposizione di pene molto dure da parte dei giudici. Esempio lampante di mala giustizia è il caso è quello chiamato Central Park Five del 1989, da cui è tratta la miniserie Netflix When they see us. Davanti allo stupro e l’aggressione di Trisha Meili, 28enne newyorkese, la polizia arrestò cinque ragazzi di colore che si trovavano nel parco quella sera. Vennero interrogati, obbligati a dichiarare il falso e condannati, nonostante non ci fosse prove reali, a pene che andavano dai 6 ai 13 anni di prigione. Vennero liberati dalle accuse e pagati con un risarcimento solo nel 2012, quando il reato venne confessato da un violentatore seriale.

Le discriminazioni razziali nel campo giudiziario sono visibili anche dalle statistiche ufficiali: la BJS - Bureau of Justice Statistics – ha stimato la probabilità per i cittadini americani di finire in prigione nel corso della loro vita. Nonostante si possa essere portati a pensare (o almeno sperare) che questo dato sia indipendente rispetto al colore della pelle, è stato dimostrato il contrario. Infatti, in media 1 bianco su 17 finisce in prigione durante la sua vita mentre per le persone di colore la media è di 1 su 3 (quasi 6 volte tanto). Secondo le statistiche, la popolazione di colore forma più o meno il 6,5% di quella americana, tuttavia costituisce il 40,2% dei prigionieri americani.

Come è possibile? Una base storica che da secoli divide bianchi e neri e vede quest’ultimi come “razza inferiore”, un popolo di criminali spietati da cui difendersi e contro cui è possibile utilizzare la violenza è sicuramente una delle risposte a questa domanda. Teniamo presente però che la maggiora parte della popolazione di colore è a tutti gli effetti americana e di “straniero” ha solo il tris nonno emigrato due secoli prima, così come moltissimi europei. Questo come prova del fatto che spesso l’unica differenza tra persone discriminate e non è il colore della pelle. I pregiudizi e gli stereotipi razziali che portano a una maggior persecuzione e probabilità di incarcerazione delle persone di colore non finisce di avere conseguenze nel momento in cui l’individuo ritorna in libertà: una volta uscito dal carcere, egli sarà obbligato ad affrontare grandi difficoltà nel reinserimento nella società (per un ex carcerato è più difficile trovare lavoro) e aumenta la probabilità che queste ultime prendano strada illegali e quindi sono più propense ad essere arrestate di nuovo, dando vita a un circolo vizioso da cui difficilmente è possibile uscire.

È giusto quindi considerare la comunità nera inferiore a quella americana? Dopo tutto, la cultura afro ha influenzato quella americana in moltissimi ambiti, dalla musica ai film, dalla moda alla danza. Generi musicali come l’hip-hop, il rap, il blues, il R&B sono nati da immigrati di colore, così come il charleston.


Carolina Broll


FONTI:

https://blacklivesmatter.com/

https://www.netflix.com/watch/80091741?trackId=13752289&tctx=0%2C0%2Cbc01b9cd9bc0425ac00d1662f4c1a096ce4483e7%3A5f908c95b0a8a900f41c00c1abbc379f59f98947%2Cbc01b9cd9bc0425ac00d1662f4c1a096ce4483e7%3A5f908c95b0a8a900f41c00c1abbc379f59f98947%2C%2Chttps://www.history.com/topics/early-20th-century-us/jim-crow-laws#section_11

https://www.history.com/topics/early-20th-century-us/jim-crow-laws#section_6

https://www.unitiperidirittiumani.it/voices-for-human-rights/martin-luther-king-jr.html

https://www.wired.it/play/televisione/2019/05/31/when-they-see-us-miniserie-recensione/

https://hotcorn.com/it/film/news/green-book-vera-storia-film-peter-farrelly-con-viggo-mortensen-e-mahershala-ali/

https://www.crresearch.com/black-history-month-pop-culture


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carolina.broll.ilcardellino@gmail.com