1 maggio 2020

Quando le aspettative sociali prendono il sopravvento


Sin da piccoli siamo stati abituati a vedere la società non come formata da singoli individui, ma piuttosto da categorie di persone, da gruppi a cui corrispondono non solo caratteristiche (fisiche e caratteriali) ma vere e proprie mansioni da compiere, traguardi da raggiungere, aspettative da soddisfare, le cosiddette “etichette sociali”. In qualsiasi momento della nostra vita dobbiamo svolgere dei compiti assegnati esplicitamente o implicitamente, dalla società, obblighi sociali e morali, a breve o lungo termine, che esercitano una certa pressione su tutti noi, che viviamo una vera e propria ansia da prestazione. Se non riusciamo a raggiungere gli obiettivi imposti dalla società, oltre a una sensazione di sconforto proveremo paura, terrore di fallire e di conseguenza vergogna perché non rispettiamo i canoni sociali.

In una società così esigente e assillante, un ragazzo che non è in grado di soddisfare tutte le aspettative che la società ripone in lui è considerato un inetto, un outsider che non potrà mai integrarsi. Un ragazzo che a scuola ha la media più bassa tra tutti i suoi compagni, che nello sport non raggiunge i risultati dei suoi amici e che fa fatica a socializzare verrà bollato come quello che gli inglesi chiamano weirdo, “strano”; questo non migliorerà di certo la situazione, anzi lo porterà a convincersi che non potrà mai essere “come gli altri”.

Davanti a momenti così difficili, dove tutto sembra peggiorare di giorno in giorno, molti ragazzi trovano la forza di chiedere aiuto e superare gli ostacoli a testa alta, altri invece prendono l’altra via, quella più facile, ovvero scappare: molti adolescenti smettono di andare a scuola, di vedere gli amici e di parlare con i genitori, molti di loro arriva a chiudersi in camera e a troncare ogni rapporto sociale. Sono i cosiddetti “hikikomori”.


Hikikomori (引きこもり) è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte, vivere isolati” e viene utilizzato per indicare da una parte tutte le persone (senza distinzione di età, sesso o classe sociale) che praticano l’isolamento sociale per un tempo prolungato, dall’altra l’isolamento stesso. Queste persone rimangono generalmente nella loro stanza, trascorrendo molto tempo online (tant’è che molti scambiano l’hikikomori con la dipendenza da internet, cosa non vera), oziando o leggendo. Evitano poi qualsiasi tipo di contatto umano, arrivando a farsi lasciare gli alimenti davanti la porta per consumare i pasti da soli nella propria camera, non escono neanche per lavarsi.

Se i comportamenti degli hikikomori sono abbastanza chiari e conosciuti, più difficile è capire qual è la causa di questo fenomeno: spesso questo comportamento è associato a disturbi e patologie psichiatriche, come la fobia sociale, la schizofrenia e la depressione, ma ciò è una banalizzazione del fenomeno e non è che una visione superficiale della realtà; l’ipotesi più plausibile è che l'hikikomori sia causato dalla pressione generata dalle aspettative sociali di cui parlavo prima, ma anche questa spiegazione è riduttiva.

Cercando di fare chiarezza, nel 2013 il governo giapponese definì l’hikikomori come l’isolamento sociale volontario e il rifiuto di recarsi a scuola o al lavoro per più di sei mesi, escludendo le persone che mantengono delle relazioni offline. Se da una parte questa definizione risulta accettabile perché giustamente non comprende tutte le persone affette da patologie psichiatriche, dall’altra è limitante perché non considera coloro che soffrono e lottano contro il desiderio di isolarsi pur non arrivando all’hikikomori.

Sempre nel 2013 il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) ha considerato il fenomeno hikikomori come “sindrome culturale” limitata al Giappone e intesa come raggruppamento di indicatori di sofferenza psicologica.

Nonostante la difficoltà nel trovare una definizione, i ricercatori in questo settore sono riusciti a classificare i giovani hikikomori dividendoli in tre gruppi in base ai fattori psicologici, sociali e comportamentali:

  • quelli che, causa la famiglia ultraprotettiva, non raggiungono mai una situazione di autonomia e fiducia nelle persone (gli ultradipendenti);
  • coloro che crescono in una famiglia disadattiva e quindi non riescono a conformarsi alle regole sociali (gli interdipendenti disfunzionali);
  • per ultimi, tutti quelli che sono sotto stress per la famiglie con aspettative troppo alte e si ritrovano schiacciati dalla pressione nella vita accademica e lavorativa (i controdipendenti).


Questo fenomeno si è sviluppato in Giappone, ma recentemente si è espanso anche in molte altre aree del pianeta, tra cui l’Italia. Nel nostro Paese infatti sarebbero migliaia (le stime parlano di 100mila casi) i ragazzi che praticano l’isolamento sociale. Davanti a questo problema in espansione, Marco Crepaldi fondò nel 2017 l’Associazione “Hikikomori Italia Genitori”, per i familiari dei ragazzi in isolamento. Ed è proprio Marco Crepaldi che nel suo libro "Hikikomori, i giovani che non escono di casa" espone i risultati del primo studio su questo fenomeno in Italia, condotto da lui stesso. Si è dimostrato che l’87,85% degli hikikomori sono maschi (davanti a un 63,3 % in Giappone), che l’isolamento dura solitamente tra i 3 e i 10 anni e inizia in media a 15 anni (a differenza che in Giappone, dove generalmente inizia post-laurea, quindi tra i 20 e i 29 anni).


Per concludere, vorrei soffermarmi su una domanda che forse è venuta in mente a molti di voi: come aiutare gli hikikomori? Cosa si può fare per migliorare la situazione (partendo dal presupposto che si tratta di un problema certamente non risolvibile a breve termine)?

Anche in questo caso citerei Marco Crepaldi, che fornisce dei consigli su cosa fare e cosa non fare quando ci si relazione con un hikikomori. Innanzitutto - afferma Crepaldi - bisogna riconoscere questo fenomeno e intervenire il prima possibile, non opprimendo e pressando il ragazzo (che già vive un momento di tensione) con un comportamento iperprotettivo, ma piuttosto invogliandolo al confronto costruttivo e rasserenante, agendo non in modo coercitivo ma in modo sistematico, con un lavoro su tutti i fattori (sociali, scolastici o familiari) che hanno contribuito all’isolamento. Bisogna essere il più possibile trasparenti con il ragazzo, che va il più possibile responsabilizzato, facendoli capire innanzitutto che non viene considerato come un bambino malato da curare, ma piuttosto come un adulto, i cui comportamenti hanno delle conseguenze sulle persone. Dal punto di vista concreto si possono proporre agli hikikomori azioni nuove, che lo aiutano a spezzare la routine dell’isolamento e a focalizzarsi sul proprio benessere prima di tornare alla vita di prima (non possiamo forzare un ragazzo a tornare subito a scuola se prima non abbiamo risolto i problemi alla base del suo abbandono scolastico), senza però rinunciare al benessere di chi lo aiuta. In ogni caso, la cosa importante è non giudicare il ragazzo e aiutarlo a sentirsi “normale” e compreso, magari con l’aiuto di professionisti o attraverso il confronto con persone che hanno lo stesso problema, cercando di alleviare il fardello d’ansia generata dalle aspettative sociali.

Carolina Broll


Fonti:

https://www.hikikomoriitalia.it/2018/01/la-paura-un-inganno-mentale.html

https://culturaemotiva.it/2018/hikikomori-prigionieri-delle-aspettative-perche-scelgono-lisolamento-sociale-perche-non-malati-mentali/

https://www.hikikomoriitalia.it/2018/06/buone-prassi-hikikomori.html

https://www.hikikomoriitalia.it/2019/02/dati-statistici-fenomeno-hikikomori.html

https://www.stateofmind.it/tag/hikikomori/

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