1 maggio 2020

Essere o non essere?


Sai chi sei? Sai cosa vuoi?


Guardo uno specchio senza volto, sono io che cerco annaspando di trovare in quella lastra vitrea un’immagine di me? Sono io che, nuda, annebbiando la riflessione cerco di infrangere con lo sguardo quello che dicono siano i miei occhi, ma sono grigi di tempesta o azzurri di sereno? Azzurri nella tempesta e grigi nel sereno. Quel naso conduce a un cervello che pensa. Questo, lo do per assodato. Sto riflettendo ora, su di me e, allo stesso tempo, me.

Esiste questo me stesso? Esiste l’io, esisto io? Nuvole di pensieri infranti da una consapevolezza di un presente e di un passato che sia più o meno remoto. Conosco chi sono perché mi vivo in ogni situazione. Sono il protagonista indiscusso della mia vita. Ma alle volte, interrogandomi su cosa gli altri possano vedere di questo me stesso, che tanto faticosamente costruisco giorno per giorno, interazione per interazione, sono punto a capo. Chi sono io? Sono il flusso ininterrotto di pensieri concentrici ad un unico attore in scena che riceve visite da altri attori, più o meno importanti per lo svolgimento della storia, o sono scena per scena una maschera differente che definisce ai miei occhi una figura a tratti compresa? Quando prima della messa in scena, entrando nel foyer del mio amato teatro, osservo i collaboratori, o addirittura solo, preparo la prossima interazione, io, davvero chi sono?

Pirandello ci ha parlato in tutta la sua letteratura di maschere, matrioske sempre più complesse e dettagliate verso un esterno che ci pare veritiero, oggettivo, ma dentro, nel profondo interno, che volto c’è? Sotto a tutte quelle maschere, quelle plastiche facciali perfettamente congruenti, cosa posso trovare? Forse lo sguardo di un neonato che non conosce nulla della sua esistenza se non un cambiamento da uno stato liquido a solido, forse la meraviglia e inconsapevolezza. Immagino la faccia come un vuoto ovale di carne senza pensiero, sono io quella cosa? Pirandello scompone i suoi personaggi fino alla pazzia, una maschera ci uccide, una maschera è limitazione di un essere che è in continuo mutamento, ma non è l’unico a pensarla in questo modo. Il sociologo canadese Erving Goffman dedicò gran parte del proprio studio alla comprensione delle interazioni sociali elaborando un pensiero che prese in considerazione il modello teatrale. Per Goffman ogni interazione si svolge all’interno di una scena e i personaggi sono coloro che interagiscono, dotati di una maschera differente per ogni scambio previsto. Il personaggio è alla continua ricerca di riflettere un’immagine positiva di sé, di avere un ruolo confortevole e stimato, ma deve fare i conti con la maschera che gli altri personaggi gli propongono e incollano alla faccia. Così come tutti, il personaggio, alias “noi”, riceve il ruolo di figlio, fratello, padre, amante o amico, conoscente, estraneo e indossa la maschera che gli permetterà di svolgere quel ruolo al massimo delle proprie capacità, adeguandosi alle scene ripetute su un palcoscenico dal quale, non uscirà fino alla fine dello spettacolo, lo spegnimento perenne di quell’occhio di bue tanto inseguito. C’è quindi anche qui la mancanza del sé, della “vera” faccia, di un noi che pare futile e inesistente, come se la matrioska non finisse mai il proprio imbroglio, un’apertura dopo l’altra fino a un nulla dato dal troppo piccolo, dal troppo vuoto. Un’interazione non è tale senza il costume che essa porta con sé, così pare volerci dire Goffman. Ma il cambio della maschera è reale, non porta alla pazzia come in Pirandello, forse il continuo cambio salva dallo stato mentale confusionale che colpisce ogni personaggio pirandelliano, ma la pazzia non è inesistente in Goffman, no. La pazzia non è altro che quella imprecisione non trascurabile che l’altro, colui che osserva un personaggio, nota nella scelta sbagliata di una maschera, la più inadeguata per una scena simile a quella che si sta verificando. Quando il mondo intersoggettivo nel quale tutta la scena si svolge è completamente differente rispetto alla presa di costume di un personaggio, ecco che la pazzia è conclamata, rimarcando un’inadeguatezza senza un colpevole.

Tutto questo sì, riduce l’io a un’infinità di facce differenti, durante un dialogo, un’interazione, una condivisione, e se l’uomo è un essere sociale, come può non essere ciò che mostra agli altri? Come può non essere l’insieme di ciò che lui vede di sé e di quello che appare agli altri? Ma nel profondo, oltre tutte quelle matrioske e dietro alle quinte di velluto del teatro che lo ospiterà per tutta la vita, c’è un io? C’è l’io che può essere anche l’insieme di tutto quello che ha mostrato, glorificato e sconfitto sul palcoscenico? Ma per lo meno c’è?, esiste?

Sai chi sei? Sai cosa vuoi?

Cogito ergo? Cogito. Intanto penso, forse mi basta pensare di esistere per esistere davvero, forse mi basta comprendere che in quegli occhi azzurri e grigi, la tempesta e il sereno li decido io, all’interno della matrioska, nel profondo del me stesso che non so, o che forse solo io, conosco. Forse non sono limitata alla faccia che provo a scorgere allo specchio, perché di facce me ne appioppano mille, ma nella maggior parte delle situazioni, decido io, quale faccia mi sta meglio. In fin dei conti, sono io perché compio le mie scelte, sono io perché, a discapito di quello che gli altri vedono, decido di essere me stessa.


Letizia Chesini


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letizia.chesini.ilcardellino@gmail.com