28 dicembre 2019

La "bellezza" del concetto

confine tra arte e idea


Un tocco delicato solcò con estrema decisione la tela bianca. Prese il taglierino e segnando brutalmente ciò che già esisteva, creò un mondo oltre. Interconnessione di più spazi.

Il concetto di bellezza, così sopravvalutato e, spesso, futile, smise di “piacere” agli artisti fin dai primi anni del secolo scorso. Non più la rappresentazione dell’oggettivo come perfetta forma artistica, che, se con qualche dettaglio esteticamente migliorato, dava all’artista la potenzialità della fama assoluta, ma la liberazione di un gesto creativo, di un’idea, concetto ingiustamente trascurato. L’excursus itinerante della percezione artistica è cambiato nei secoli: basti pensare alla piacevolezza delle cosiddette misure perfette adottate per le rappresentazioni umane degli antichi greci, la maestosità, creare ciò che poteva spingere l’uomo alla sfida contro sé stesso e le proprie potenzialità. Un continuo perfezionamento del reale, imitazione di un occhio in grado di percepire attraverso centinaia di milioni di fotorecettori. La mano dell’artista doveva rimandare un’immagine allo stesso livello della natura.

La ricerca della somiglianza non fu garantita fino agli studi della prospettiva, messi in pratica durante il Rinascimento, dove la perfezione fu sfiorata da pennelli esperti come quelli di Leonardo o di Tiziano. Da lì al realismo, l’estetica ha superato il concetto e ritratto il vero per mostrare una società che l’artista poteva vedere con occhio sensibile, magari usando una lente di ingrandimento su ciò che aveva notato, senza però modificarla. Il linguaggio dell’artista era identico a quello di chiunque altro fosse in grado di captare i particolari del reale. Con la rivoluzione impressionista, l’interpretazione del pittore ebbe il primo passaggio all’indipendenza: le raffigurazioni rispetto alla luce e alla percezione dell’uomo creativo, che si vide finalmente come vero “creatore dell’opera d’arte”. La natura forniva l’immagine, l’artista il sentimento. Questo primo moto derivò dall’avvento della fotografia, a cosa serviva rappresentare il reale se c’era una macchina che poteva riportarlo su carta?

“Bisogna scegliere: una cosa non può essere vera e verosimile nello stesso tempo”, così Braque si espresse riferendosi all’arte passata che, avendo scelto di essere verosimile, non era mai stata autentica. Dipingere il reale è però soggettivo. Se si tratta di realismo è diverso. Ma il vero cos’è in fondo? Non è forse la soggettività dell’interpretazione di un singolo?

L’arte contemporanea non piace alla maggior parte di chi ne può fruire, non si parla di critici e intellettuali, ma delle persone comuni, nelle quali, almeno in linea teorica, l’arte dovrebbe trovare il pubblico di maggior rilevanza. Questa sgradevole sensazione di mancanza artistica si riassume nelle classiche frasi del tipo “Un taglio sulla tela, lo potevo fare anche io”, “A quanto l’ha venduto? Adesso anche io mi metto a fare il pittore”. Ma come mai? Cos’ha questa “nuova” espressione che non convince il pubblico? A differenza di un’opera di un Michelangelo nel periodo Rinascimentale, dove il bello raggiungeva paradossalmente l’aggettivo di oggettivo, con l’arte dal Novecento in poi si punta al concetto. Il bello diventa l’idea, genialità di una mente capace di vedere oltre. Di interpretare ciò che vive e vede attorno a sé. L’artista è il protagonista, un filosofo, una figura tanto trasgressiva da potersi permettere un’opera a prima vista insignificante e criticata, perché la chiave fondamentale diventa la comprensione, connessione. E non è banale questo concetto, soprattutto se riportato all’interno di una società che vede costantemente impegnato ogni individuo in operazioni di comunicazione. L’importanza della connessione non può essere trascurata. Poter parlare a chilometri di distanza, comprendere più lingue, avere accesso a miliardi di informazioni in pochi secondi e guardare le stesse cose in televisione o sui social crea reti invisibili ma persistenti, agglomera la ricerca di comprensione ed è il forte segno di un bisogno di avvicinamento umano. In un quadro simile l’artista non può tralasciare l’aspetto comunicativo, l’emozione. Le immagini esteticamente gradevoli compongono il nostro background quotidiano, pubblicità, manifesti, la ricerca dell’”aesthetic” che se comparati a un’opera sono in grado di sminuirla. Ma se l’arte diventa concetto e richiede comprensione, da un lato si avvicina alla società, ricercando come essa la comunicazione, dall’altro se ne allontana richiedendo qualcosa di prezioso e sempre meno scontato, il tempo. Un’opera contemporanea proprio per le sue caratteristiche concettuali non può essere compresa senza un lavoro di interpretazione accurato o di spiegazione da parte dell’artista, per non parlare della soggettiva visione esposta dai critici che rende relativo ogni riferimento visivamente espresso, che spesso stupisce gli stessi creatori dell’opera - e così potremmo aprire una parentesi infinita sulla vera intenzione dell’artista.

C’è in ogni opera un significato pungente, quasi sempre riferito alla società, alla cultura, politica, problematiche attuali, è qui che l’arte diventa attivismo, alle volte celato, altre meno, ma si prende un impegno di tipo sociale. Uno degli esempi eclatanti è il “Dropping a Han Dynasty Urn” di Ai Weiwei che con la sequenza di tre fotografie mostra la distruzione di un vaso antico della dinastia cinese Han, reperto storico e culturale per eccellenza. Le letture possono essere diverse: la dissacrazione della storia, del mondo culturale, che si propone come vero e proprio atto vandalico, per una causa che ha tutta la foga di una rivoluzione politica e sociale, la denuncia del regime comunista di Mao e della sua idea che per costruire un nuovo mondo bisogna distruggerne un altro. Ecco che il reperto di oltre duemila anni diventa schegge, frammentazione, nulla. No, nulla mai. Diventa così potente da far rovesciare lo stomaco, provocando scalpore, rabbia e rivendicazione per l’artista che creò il vaso, ma allo stesso tempo comprensione della crudezza di un’ideologia, un messaggio così potente proprio perché ottenuto grazie allo scandalo. L’idea, il concetto, più potente della forma d’arte in sé. E come conferma di ciò non si può non citare l’opera dell’artista Gino De Dominicis “Cubo invisibile”. La semplice cornice di carta di un quadrato posata per terra, grazie al titolo, crea l’idea di un cubo vero e proprio, spazio invalicabile, spazio dedito all’opera. L’aria che diventa un oggetto, un oggetto che diventa perché l’artista ha deciso che esiste e lo spettatore osserva ammutolito senza provare a “scalfire” l’opera, non più horror vacui ma consacrazione del vuoto. Ma per comprendere a fondo i significati potenzialmente infiniti ci vuole tempo, curiosità, profondità, la reazione di pancia è solo il primo step per un lavoro interiore, interrogativo, rivoluzionario.

Così diventa difficile apprezzare un’opera a prima vista, perché non è “l’occhio che vuole la sua parte”, ma la mente, un background culturale che si dà per scontato ma che scontato non è. Certo, è complesso pensarlo di fronte a certi lavori, gli stessi artisti ci hanno scherzato in alcune occasioni (Merda d’artista – Pietro Manzoni, 1961), ma l’arte è cambiata, come ha fatto la società, e se la comprensione viene meno, verificare il vero valore di qualcosa diventa impossibile; anche un Picasso, che oggi apprezziamo come uno dei maggiori artisti della storia, lasciò perplessa la società non intellettuale dell’epoca, eppure scoprì il concetto della relatività dello spazio in forma grafica. A ogni cosa il suo tempo, ma le persone riusciranno mai a stare al passo?

Letizia Chesini


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