23 ottobre 2020

Alghe che si piegano sotto la spinta del mare


Una delle frasi più dette riguardo al Covid-19 è che non conosce barriere geografiche né tanto meno sociali, tuttavia alcuni studi dimostrano che le persone economicamente svantaggiate sono più a rischio, dato che l’accesso alla sanità è più complesso, e che i tassi di mortalità più elevati sono proprio fra i gruppi degli emarginati. Come se tutto ciò non bastasse, un’altra novità che il 2020 ha portato è stata l’aumento delle ricchezze dei miliardari: si stima, infatti, che da marzo a settembre negli Stati Uniti il patrimonio di 643 persone sia cresciuto di 845 miliardi di dollari. Quello di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del pianeta, è aumentato del 40% (e continua ad ampliarsi), quello di Mark Zuckerberg del 61% e quello di Elon Musk addirittura del 312%. Oggi nel mondo ci sono 2153 persone che hanno più denaro del 60% della popolazione globale, ossia di 4,6 miliardi di esseri umani. Tutti questi miliardari si sono arricchiti in modi più o meno legali, e tuttora continuano a farlo, senza farsi scrupoli se, nel corso di questo processo, sfruttano o meno persone, danneggiano o meno l’ambiente e se pagano o meno le tasse. La disparità è lampante, il divario fra chi ha sempre più e chi ha sempre meno continua a crescere, e, per migliorare la situazione, la OXFAM (Oxford Committee for Famine Relief) ha proposto una soluzione: che i miliardari siano tassati di più, ma leggermente, dello 0,5%, e fare in modo che non paghino le tasse dove gli conviene, come spesso accade. D’altronde, le aziende del web, che sono quelle che si sono arricchite maggiormente in quest’ultimo periodo, versano pochissimo, intorno al 12%. Tassando soltanto dello 0,5% in più, secondo la OXFAM, si potrebbero creare 117 milioni di posti di lavoro. Cosa stiamo aspettando allora, viene da chiedersi. Se risolvere le disparità è così facile perché queste esistono fin dall’alba dei tempi? La risposta può darla uno scrittore siciliano del secolo scorso, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di un unico romanzo, ormai classico della letteratura italiana, il celeberrimo Il Gattopardo.


Secondo Tomasi di Lampedusa, infatti, il cambiamento non è possibile, poiché, anche quando tutto muta, ogni cosa, in fondo, rimane uguale. Per spiegare meglio questo suo pensiero, egli, dividendolo in episodi indipendenti, ambientò Il Gattopardo nella Sicilia del tramonto borbonico e come protagonista vi mise una famiglia dell’alta aristocrazia dell’isola, i Salina: come in ogni romanzo storico che si rispetti, alla vita dei suoi componenti si intrecciano gli eventi dell’epoca, come l’impresa di Garibaldi e dei Mille e la stessa Unità d’Italia, che promettevano l’arrivo di tempi nuovi. L’opera si concentra, in particolare, sulla figura del principe, Don Fabrizio, che è anche il capo della famiglia Salina. Egli, nonostante abbia i propri figli, è più affezionato a suo nipote Tancredi, nel quale vede il suo degno successore e crede in lui per mantenere la gloria della casata. È proprio a questo personaggio che Tomasi di Lampedusa mette in bocca la celeberrima, e troppo spesso fraintesa, frase Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: secondo Tancredi, infatti, per tenersi stretto il potere è necessario cambiare metodo, stare dalla parte dei garibaldini, i quali, a primo acchito, sembrano i loro nemici, perché un’alleanza con loro può essere utile alla famiglia Salina. Anche più avanti nel romanzo egli non desisterà dal compiere scelte poco convenzionali, infatti, invece di sposare la cugina Concetta, figlia di Don Fabrizio, preferisce prendere come moglie la bellissima Angelica, figlia del sindaco di Donnafugata. La famiglia di questa ragazza fa parte di una classe sociale che, nel corso dell’opera, diventerà la nuova aristocrazia, sottomettendo la vecchia nobiltà: quest’ultima, infatti, anche secondo Don Fabrizio, non potrà mai morire, perché, se dovesse scomparire, se ne costituirebbe un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi difetti e perché la nobiltà è un ceto difficile da sopprimere perché in fondo si rinnova continuamente e perché quando occorre sa morire bene, cioè sa gettare un seme al momento della fine.


Don Fabrizio, tuttavia, è più disilluso del nipote. Sa di far parte di una generazione di mezzo, a cavallo fra i vecchi tempi e quelli nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due, ma, forse proprio per questo motivo, è il personaggio che ha la visione più lucida degli avvenimenti. Ciò viene messo in evidenza quando un messo da Torino gli propone di diventare Senatore: il Principe, contro ogni aspettativa, rifiuta e, come risposta, fa un discorso riguardo alla cosiddetta “sicilianità”, che è pure considerato una delle scene più importanti del libro. Secondo Don Fabrizio, infatti, il popolo siciliano è da venticinque secoli che è colonia e si adatta al suo invasore, ma senza cambiare; rimangono, difatti, attratti dalle novità solo quando sono defunte e desiderano soltanto vivere nel “sonno”, odiando sempre chi li vorrà destare. Insomma, il Principe, incapace di illudere sé stesso, è consapevole che la storia non porterà mai gli uomini verso sorti magnifiche e progressive, ma al fallimento.


La parte più amara del romanzo, però, rimane sempre il finale: Don Fabrizio è morto e a portare avanti il nome della famiglia Salina sono rimaste solo Concetta e le sue sorelle. L’antico splendore della casata è ormai un lontano ricordo e, come avevano predetto Il Principe e Tancredi, sono cambiate molte cose, eppure è rimasto tutto uguale: ci sono sempre potenti e sottomessi, vincitori e vinti, cambiano solo gli interpreti dei vari ruoli. Insomma, Tomasi di Lampedusa si dimostra fortemente disilluso e scettico riguardo alla prospettiva di un cambiamento in positivo. Questo non vuol dire che sia impossibile, ma che è altamente improbabile, poiché, come i Siciliani descritti dal Principe, noi esseri umani siamo incapaci di mutare, e il cambiamento, d’altronde, dovrebbe partire da ogni singolo individuo. Sempre ne Il Gattopardo, l’autore scrive che noi uomini viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare. Può sembrare un controsenso, considerando l’immobilità di cui è intriso il romanzo, ma questa frase, in realtà, è in piena linea con lo spirito dell’opera, perché, come le onde del mare, così anche l’umanità, alla fine, tornando sempre nel punto da cui è partita, rimane sempre immobile.

Caterina Sartori


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