22 maggio 2020

Noi, dissipatori dei dolori

Oh come mi rimproverò lungo la via del ritorno dicendomi che partecipavo a tutto con troppa passione, che dovevo risparmiarmi, che così avrei finito col rovinare me stesso! scrisse Goethe nella sua celeberrima opera “I Dolori del Giovane Werther”. Il protagonista del romanzo, infatti, è caratterizzato da una fortissima sensibilità che lo porta a sentire ogni emozione a pieno, a farsi pervadere completamente da ogni sensazione e, purtroppo, anche a soffrire tanto. È il motivo per cui i suoi lettori lo hanno amato e lo continueranno ad amare, è il motivo per cui è diventato iconico nella storia della letteratura, ma sono proprio la sua emotività e il dolore causato da un amore non corrisposto che lo portano, alla fine del romanzo, a porre fine alla sua vita. Dopo questa premessa, viene spontaneo chiedersi: sentire tanto, forse troppo, è un bene o, a lungo andare, porta solo all’infelicità? E il dolore, al contrario di ciò che si crede, può davvero essere utile?

Della sofferenza umana si è sempre parlato, fin dai tempi più antichi: Eschilo, uno dei più famosi tragediografi Greci, attribuiva al dolore (o, in generale, ai sentimenti, dato che pathos ha un significato più ampio) una funzione didascalica, poiché riteneva che fosse l’unica via per conoscere davvero il mondo. Due millenni e mezzo dopo, tuttavia, l’opinione riguardo a questo argomento è totalmente diversa: il dolore non ha più un ruolo così fondamentale, non ci insegna più come affrontare la vita, né ci rende più forti. Oggi ci sentiamo obbligati a portare una maschera felice, a nascondere sempre il nostro lato più fragile per far credere che siamo perfetti, che il dolore nella nostra vita non trovi spazio. Sui social postiamo solo le foto dei momenti più belli perché gli altri pensino che per noi esistono solo gioia e spensieratezza. Eppure, se tutti soffrono, perché ci sentiamo in obbligo di nascondere il nostro dolore? D’altronde, se si pensa all’arte, alla letteratura o alla musica, si possono trovare innumerevoli esempi di persone che hanno saputo trasformare questa emozione, a detta di tutti, negativa in opere magnifiche. Come affermò lo scrittore britannico Cyril Connolly, possiamo creare soltanto grazie a ciò di cui soffriamo, perché nell’arte, in fondo, sono il dolore, i propri sentimenti e, più in generale, ciò che si ha vissuto le più grandi fonti d’ispirazione.

La storia della letteratura, in particolare, è ricca di autori che hanno avuto una sensibilità forte come Werther e che hanno preso spunto dai momenti più bui delle loro vite per arrivare al cuore dei propri lettori. Partendo dai tempi più remoti, uno dei primi esempi che viene in mente è sicuramente Saffo: poetessa originaria di Lesbo, dove gestiva una specie di collegio per le ragazze delle famiglie più abbienti, divenne celebre anche fra i suoi contemporanei non solo per la musicalità e la leggerezza della sua lingua, ma soprattutto per come riusciva a descrivere i suoi tormenti amorosi, tant’è che fu definita la decima fra le Muse. Raggiunse una fama tale che, qualche secolo dopo, anche il poeta latino Catullo riprese alcuni suoi versi. Questi, inoltre, dopo aver realizzato che la sua storia d’amore con Lesbia era finita, nel carme VIII si autodefinì miser, l’aggettivo che per eccellenza descrive chi soffre pene d’amore. Gli alti e i bassi della sua relazione con Lesbia furono i principali argomenti delle sue poesie; erano dei sentimenti e delle passioni talmente forti che lo portarono addirittura ad amare e contemporaneamente ad odiare questa donna. Andando avanti nel tempo, più precisamente nel XVI secolo, si può trovare un’altra poetessa che ricorda ai suoi lettori quanto sia importante il dolore: Gaspara Stampa, seguace del petrarchismo, scrisse nel sonetto “Se ’l cibo, onde i suoi servi nutre Amore” che la sofferenza e la disperazione erano il suo pane quotidiano e che, senza di esse, si sarebbe sentita come un pesce fuor d’acqua. Aggiunse, inoltre, che non temeva il dolore, poiché esso era il cibo con cui Amore nutriva i suoi servi e che quindi lei, per questo, non poteva morirne. Sempre in Italia, ma circa due secoli più tardi, visse Giacomo Leopardi, poeta conosciuto universalmente per la sua concezione pessimistica del mondo. L’ambiente familiare in cui crebbe era molto difficile a causa della rigidità dei genitori e dei sacrifici economici che furono costretti a compiere, e ciò segnò profondamente il poeta, fornendogli, tuttavia, una forte sensibilità che gli consentì di diventare uno degli autori più celebri e acclamati del mondo. Con le sue poesie e i suoi scritti lasciò un segno nell’animo di tutti i suoi lettori: il suo amore non ricambiato per Silvia, la sua inquietudine, il senso di piccolezza che provava di fronte all’immensità del cielo furono, e sono tuttora, i motivi per cui fu così amato dal suo pubblico di tutti i tempi, forse perché queste “fragilità”, in fondo, non hanno epoca. Nel Novecento, una delle poetesse dall’animo più tormentato fu senza dubbio Alda Merini. La sua vita fu sconvolta da un’infanzia difficile, dalla Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, da un disturbo bipolare che la costrinse a trascorrere un periodo all’Ospedale Psichiatrico "Paolo Pini" di Milano. Le sue poesie, per questo, trasudavano ansia, malinconia e alle volte disperazione; per l’autrice esse erano un mezzo attraverso cui dialogare con i propri demoni e con le persone che facevano parte della sua vita. Ne “Il grido della morte” scrisse: Qui non si sente nulla di nulla, nemmeno il grido/ della morte, il paradosso oscuro che scivola via dalla vita/ quell’ingorgo che può far presagire il passato, quel vuoto/ di memoria assoluto che porta al compimento di ogni parola; una sola lettura è sufficiente per percepire lo strazio che provava e che si riflette anche nel suo linguaggio.

Il dolore non è piacevole, e su questo sono tutti d’accordo, eppure è fondamentale: non solo perché senza sarebbe impossibile apprezzare i momenti felici, ma anche perché grazie ad esso si diventa più capaci di empatizzare con le altre persone, di comprenderne i limiti e di interagire con loro. Ciò lo affermò anche Carlo Cassola ne “La Ragazza di Bube”: è cattiva la gente che non ha provato il dolore […] perché quando si prova il dolore, non si può più voler male a nessuno; come se, dopo aver sofferto e aver saputo come ci si sente, non si volesse più infliggerlo ad anima viva. Insomma, alla fine non è tutto male quello che vien per nuocere, perché dai momenti bui si può trarre spunto per creare opere d’arte che superino i limiti del tempo e che siano di conforto anche ad altri, proprio come hanno fatto Saffo, Catullo, Gaspara Stampa, Giacomo Leopardi, Alda Merini e tanti altri ancora.

Caterina Sartori

Articolo di aprile 2020

L'emergena Coronavirus ha messo in difficoltà le scuole che hanno risposto più o meno prontamente con la didattica a distanza. Può funzionare davvero questo sistema? Socrate probabilmente risponderebbe di no.

caterina.sartori.ilcardellino@gmail.com