14 agosto 2020

Un paese ci vuole ...


Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, forse perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione. Così scrisse Cesare Pavese ne La luna e i falò, uno dei suoi romanzi più famosi e senza dubbio il più acclamato dalla critica. Il protagonista dell’opera, Anguilla, questo è il suo soprannome, torna dopo molti anni di assenza nel paese dove è cresciuto ma sente, tuttavia, di non appartenervi, di non avere legami con quel luogo. Egli, difatti, è un orfano e non sa esattamente dove sia nato, non sa come sia arrivato in quel villaggio fra le Langhe; l’unico elemento che lo lega a quel posto è il suo passato, dove si rifugia costantemente nel corso del romanzo. Più avanti l’autore scrive: Un paese vuol dire non esser soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Avere delle radici, infatti, è fondamentale per ogni essere umano; tutti sentono il bisogno di appartenere ad un luogo, di poter dire “qui sono nati i miei avi”. In un mondo cosmopolita e globalizzato come quello di oggi, tuttavia, il discorso sulle radici si fa più complesso, sia per la maggior velocità e frequenza dei fenomeni migratori sia perché è sempre più comune trovare persone con multiple cittadinanze. Sentire di appartenere ad un determinato luogo è stato fondamentale nel corso della storia poiché ha dato vita al sentimento nazionale, su cui si è fatto leva per creare gli stati moderni. Non bisogna dare per scontato, dunque, poter dire di avere una patria, poiché alle spalle di questo senso di appartenenza vi sono secoli di evoluzione.

La parola “patria” ha, com’è facilmente intuibile, la stessa radice di “padre”, “paterno”, ecc., in quanto ai tempi dei Romani essa stava a significare il proprio luogo natìo e il luogo di origine dei propri antenati. Il termine “nazione”, invece, deriva dal latino natio, che di solito veniva utilizzato per indicare i popoli stranieri, alleati o sottomessi a Roma. Esso, inoltre, aveva connotazioni diverse, le quali indicavano che i vincoli di appartenenza erano basati su legami territoriali o di sangue ma che non vi era un ordine politico complesso come quello Romano, tant’è che, per indicare l’Urbe, natio veniva sostituita da parole come civitas, patria o res publica. Il concetto di nazione come lo intendiamo noi oggi si è affermato, in particolare, nel corso dell’Ottocento grazie al Romanticismo e al Risorgimento; tuttavia, già nel XVI secolo fenomeni come l'accentramento del potere politico nelle mani dei sovrani hanno fatto sì che si consolidassero, man a mano, un sentimento collettivo e una coscienza unitaria di sempre più vaste comunità, le quali hanno cominciato da qui ad assumere un'identità nazionale. Niccolò Machiavelli vi accennò nella sua celeberrima opera Il Principe, scritta nel 1513, pochi anni dopo che l’Italia perse l’indipendenza in seguito all’invasione del re di Francia Carlo VIII. Lo scopo del trattato, come viene rivelato nell’ultimo capitolo, oltre a rivelare cosa significasse davvero conquistare e conservare il potere, era di stimolare la nascita di un sentimento nazionale e di creare un unico stato italiano; ciò si può anche dedurre anche dal fatto che i destinatari dell’opera non fossero i principi stessi, ma le persone comuni, che non erano a conoscenza di quali trame si celassero dietro alla politica. Quella di Machiavelli, però, era solo un’utopia ed era irrealizzabile nella sua epoca: ciononostante, quello che conta è l’eredità che ha lasciato ai suoi successori, che è stata raccolta nel Risorgimento e che è stata (quasi) realizzata dai fondatori del Regno d’Italia.

Ritornando a La luna e i falò, nel romanzo si legge che Anguilla, dopo aver scoperto di essere un bastardo e di essere stato accolto nella sua famiglia solo perché l’ospedale dava loro cinque lire al mese, si è sentito come sradicato: egli non sapeva chi fossero i suoi genitori, quale fosse il luogo in cui era nato, e ciò lo ha sempre diviso dagli altri. Nonostante nel corso del romanzo non vada mai alla ricerca di risposte alle sue domande, egli soffre comunque della sua condizione, tant’è che, sentendosi fuori luogo nel suo paese, non appena compie vent’anni decide di trasferirsi negli Stati Uniti. Una volta qui, però, si accorge che le Langhe gli mancano, che ovunque vada non riesce a dimenticarsi di quei luoghi e vede di continuo elementi che glieli ricordano. Nemmeno in America riesce a trovar pace, a sentirsi a casa, ma non perché lui abbia messo radici nel suo paese ma perché il suo paese ha messo radici in lui, e Anguilla non ce la fa, a liberarsene. Anche quando vi fa ritorno, il protagonista non riesce a sentirsi parte di esso: ogni luogo che rivede, che sia cambiato o rimasto uguale, lo porta a ricordare la sua infanzia e la sua adolescenza ed egli, dunque, si dimostra incapace di vivere il paese nel presente poiché ogni campo, ogni collina e ogni casa non fanno altro che riportarlo al suo passato. Lo suggerisce anche il suo soprannome: Anguilla è uno che sguscia via, che non sa stare hic et nunc, ma ha bisogno di evadere, sia attraverso lo spazio, come quando se n’è andato via dal suo paese negli Stati Uniti, sia attraverso il tempo, come quando vi è tornato, ha visto che non era come prima e ha preferito limitarsi a vivere nei ricordi.

Nel suo romanzo Pavese dimostra, attraverso lo smarrimento di Anguilla, quanto sia importante sentire di appartenere ad un luogo e avere delle radici. Oggi il mondo è sempre più veloce e movimentato: se fino a qualche decennio fa era inusuale trasferirsi in un’altra città, se non in un altro stato, adesso è molto diffuso ed è considerato normale. Ci sono innumerevoli aspetti positivi nel conoscere tante persone provenienti da contesti diversi, tuttavia rimane sempre difficile abbandonare i propri luoghi d’origine e i propri cari per trasferirsi altrove, così come non è semplice integrarsi e gestire la nostalgia. È proprio in questi momenti, in realtà, che si scopre quanto sia utile e benefico essere legati a qualche luogo, perché vuol dire che esso ci sarà sempre ad attendere il nostro ritorno, non importa quanto siamo lontani o dopo quanto tempo ci torneremo.



Caterina Sartori

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