Recensione del libro

pubblicata su
Rassegna di Teologia anno LXII n.2
aprile/giugno 2021
pp. 403-409
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Franco Manni, Herbert McCabe: Recollecting a Fragmented Legacy, Forword by David B. Burrel

Cascade Books, Eugene, Oregon 2020, pp. 289

Probabilmente Tommaso d’Aquino dal cielo avrà sussultato vedendosi ritratto sulla copertina di un libro con un suo confratello domenicano davanti a un boccale di Birra al The King’s Arms pub di Oxford. La biografia dell’Aquinate non permette di prevedere frequentazioni di pub, come invece quella di Herbert McCabe (1926-2001), un pensatore di origine irlandese tanto originale quanto sconosciuto almeno nella filosofia e nella teologia del continente europeo, in particolare in Italia. Si deve al Prof. Franco Manni la prima presentazione “sistematica” di un pensiero che non ha mai trovato una esposizione organica. McCabe preferiva tenere conferenze e conversazioni anziché scrivere. Del resto il pub concilia la conversazione, ma non la scrittura ordinata. In effetti, obiettivo fondamentale di questo filosofo-teologo, che si dichiara non tomista, benché in sintonia con molti aspetti del pensiero del suo confratello medievale, ragionatore senza essere teologo sistematico, educatore del pensiero e non uomo di preghiera, è quello di provocare a pensare. Si può solo immaginare la fatica che F. Manni ha dovuto sobbarcarsi per costruire una presentazione ordinata e coerente di idee sparse (il sottotitolo del libro lo lascia intendere) e cogliere connessioni con pensatori con i quali McCabe si misura. Tra questi un posto singolare occupano Tommaso d’Aquino e Ludwig Wittgenstein. Il collegamento tra i due può apparire paradossale. In verità lo è meno di quanto appaia a prima vista, poiché i due pensatori lontani nel tempo mostrano sintonie notevoli almeno per due aspetti, sui quali Manni ritorna più volte: l’apofatismo e l’attenzione al linguaggio. Il volume si sviluppa in quattro parti: la biografia intellettuale di un uomo dallo stile di vita alquanto fuori dagli schemi di un religioso domenicano, la filosofia teologica, la filosofia degli esseri umani, la teologia rivelata. Ci si trova così confrontati con i temi tipici della filosofia e della teologia di ogni tempo ma riletti nel contesto della drammatica esperienza del Novecento, o più in generale nell’orizzonte di una visione tragica della vita umana e della storia. Disponendo il materiale secondo una scansione che dalla “filosofia naturale” giunge alla teologia rivelata, Manni cerca di riprendere il filo rosso di tutta la riflessione di McCabe, che ruota attorno all’espressione God matters. In questa espressione si trova il senso di una ricerca che vuole mostrare la pertinenza dell’esistenza di Dio per dare ragione del mondo. Il problema fondamentale riguarda però che cosa si possa dire di Dio. L’originalità del pensatore irlandese si mostra nella sua inattualità: egli non paga alcun tributo alla koinè filosofica e teologica della seconda metà del Novecento che propone un Dio coinvolto nel mondo, quindi in processo, che soffre con l’umanità. L’apofatismo di McCabe sembra però essere tributario più a Wittgenstein che non a Tommaso, il quale, pur riconoscendo che di Dio sappiamo più ciò che non è che non ciò che è, si lascia guidare dalla rivelazione e quindi permette a Dio di dirsi, pur senza che il nostro dire (anche quello della Bibbia) possa pretendere di esaurirne il mistero. Certamente il nostro non sposa totalmente l’apofatismo di matrice wittgensteiniana, ma vi tende, fino a mantenere una differenza tra il Dio (s)conosciuto dalla filosofia e YHWH. In questo Tommaso avrebbe qualcosa da eccepire. Sembra infatti che McCabe, preoccupato di non cadere nei “luoghi comuni” della teologia contemporanea – alla quale peraltro non sembra prestare particolare attenzione, almeno a quella dell’Europa continentale – non riesca a superare il gap tra filosofia e teologia: è la prima che comanda la seconda. Ciò non toglie che nella sua riflessione cristologica egli rimarchi come mediante Gesù, in verità pensato prevalentemente come esempio di vita («egli ci manifesta l’umano che è nascosto in noi, egli è l’essere umano che noi non osiamo essere» [p. 231]), Dio apra il nostro mondo alla speranza, benché neppure in Gesù Cristo noi possiamo conoscere che cosa sia Dio (di Cristo conosciamo l’umanità, ma non la divinità, che continua a restare un mistero). Per questo anche la sua dottrina trinitaria lascerebbe perplessi molti teologi contemporanei che a lui appaiono triteisti (a differenza di Tommaso – e in questo più vicino ad Agostino, Barth e Rahner – McCabe diffida dell’uso del termine persona in dottrina trinitaria).

Lo studio di Manni permette di capire come un domenicano, che vuole essere rivoluzionario senza essere riformatore, riesca a mettere in connessione la tradizione propria del suo Ordine con il pensiero contemporaneo di lingua inglese. Uno dei vantaggi è la citazione di numerosi passi delle opere di McCabe, alcune delle quali sono apparse postume (a cura del confratello Brian Davis) e raccolgono conversazioni, conferenze, corsi; sicché il lettore può venire a contatto direttamente anche con lo stile espositivo del domenicano. Si deve essere grati a Manni di essersi assunto il compito di far conoscere in forma ordinata un pensiero provocatorio. Perché non pensare a una traduzione in italiano di questo studio? Sia permessa una piccola notazione critica: a p. 259 si riferisce l’opinione di Papa Francesco circa l’inferno, che non sarebbe una condizione di sofferenza dell’anima che ha rifiutato l’amore di Dio, bensì annichilimento. La fonte di questa affermazione indicata nella nota 44 è un articolo di Scalfari. Forse è troppo poco!