Una paresi di piacere
di
Aurora Gambacorta
Benvenuti nel libro che vi invita a leggere l’ultima pagina di un opuscolo informativo, le postille di una pubblicità, le controindicazioni e gli effetti collaterali nel bugiardino dei farmaci: tutto questo, prima di salpare sulla “Nadir”. Ecco, nell’America dell'opulenza sfacciata e delle più sfavillanti ed esagerate promesse e proposte, il mercato turistico spadroneggia, nella satira di Wallace, come emblema del divertimento di massa della società contemporanea. Ci si muove in gregge come pecore, ci si impila in code come cavalli con paraocchi verso un’unica direzione: lo sfavillante obbligo di divertimento, ozio, lusso, vizi viziosi e viziati, come vittime e artefici di scelte vacanziere dettate dalla ricerca di divertimento garantito, fragili caproni imboccati e deliziati dall’inclusive a 5 stelle.
Ecco il nostro protagonista che ci fa ridere delle esagerazioni umane, ancor più ridicole perché volute e cercate, anzi: pagate! Così una crociera di lusso di una settimana ai Caraibi diventa la metafora del fenomeno sociologico dell’extra, dell’ultra, del di più, una menzogna dell’oggi, un imperativo della classe agiata, un sogno per tutti gli altri. Le esagerazioni a cui tutti noi almeno una volta nella vita aspiriamo come “coppie benestanti abbronzate e bloccate in una paresi di piacere” ci fanno ridere, sorridere, abilmente descritte con un umorismo che personalmente apprezzo.
E poi? Vogliamo andare oltre e leggere amarezza o vergogna per ciò che diventa un nostro identificativo di divertimento privo di qualsiasi spontanea semplicità?
Il pamper, protagonista della lussuosa crociera sulla “Nadir”, non è altro che il nome con il quale l’autore definisce il puro vizio. Tale denominazione, è evidente, risulta assai ambigua.
Aggiungiamo a ciò lo stile fluido, descrittivo e pungente di un autore decisamente irriverente: lo testimonia il modo in cui si ironizza sulla frivolezza della società contemporanea.
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Un adolescente in rivolta
di
Antea Bisicchia
Per parlarvi de Il giovane Holden di J. D. Salinger, vorrei cominciare da due curiosità: la prima riguarda la concezione rivoluzionaria dell’autore a proposito delle copertine dei libri. Se possedete una copia del Giovane Holden, noterete che non c’è alcuna immagine di copertina, proprio perché Salinger non voleva che i lettori fossero spinti ad acquistare il libro da essa.
La seconda curiosità riguarda il titolo: quello originale sarebbe The catcher in the rye, ma, visto che la traduzione letterale risulterebbe essere “Il raccoglitore nella segale”, si è deciso di chiamarlo Il giovane Holden, ottenendo così un risultato ben più accattivante.
Ma passiamo alla trama.
Siamo alla fine degli anni ’40 del Novecento e la storia è quella di un ragazzo di 16 anni, che, per via del suo carattere sovversivo, viene cacciato dal college. Il racconto copre solo un fine settimana, vicino al periodo natalizio.
Il protagonista racconta la propria vicenda in prima persona.
Quando uscì negli Stati Uniti, nel 1951, il libro fece molto scalpore: quello che più aveva sconvolto i lettori non consisteva tanto nelle azioni compiute da questo ragazzo, quanto piuttosto in quello che pensava e in come lo esprimeva. La narrazione in prima persona deve aver contribuito non poco al raggiungimento di questo effetto.
Ciò che più segna le vicende di Holden sono due incontri che gli trasmettono profonda delusione e tristezza; saranno addirittura motivo di esaurimento per il protagonista e lo porteranno a scappare di nuovo dal campus, per tornare dalla sua famiglia a New York.
Quello che caratterizza il ragazzo è il suo continuo bisogno di trovare qualcuno in cui rivedersi, ovvero qualcuno con cui poter ridere della vita e rifiutare l’ipocrisia da cui è circondato.
Il suo ritorno a casa è molto significativo, poiché, dopo una lunga serie di incontri che lo hanno lasciato amareggiato, fa ritorno dalla sua famiglia, che, simbolicamente, rappresenta la culla di ognuno, cui poter fare affidamento nei momenti più bui.
Per quel che riguarda il finale, preferisco tacere, perché mi farebbe piacere che anche voi leggeste il romanzo, che ho preso come soggetto per questo articolo, perché è il mio libro preferito. Ne ho apprezzato lo stile, il registro e anche la vicenda in sé. Ma ciò che più ho amato è stato il suo protagonista, Holden Caufield, che rappresenta, per me, il “movimento vitale” che tutti prima o poi affronteremo, in un modo o in un altro.
Spero davvero che possiate apprezzarlo anche voi!
L’imperfetta umanità raccontata da Pontiggia
di
Sabrina Santangelo
Giuseppe Pontiggia, saggista e narratore, nasce il 25 settembre 1934 a Como, da madre attrice dilettante e padre funzionario di banca. Trascorre l’infanzia in una cittadina di provincia, per poi trasferirsi definitivamente a Milano nel 1948. La sua passione per la letteratura, alimentata dalla propensione allo scrivere e dal grande desiderio, ereditato dal padre, di scoprire e conoscere l’universo per mezzo dei libri, si manifesta in modo evidente durante l’adolescenza, periodo in cui sprofonda nella lettura dei romanzi di Guy de Maupassant.
Dopo la maturità classica, inizia a lavorare in banca, collaborando allo stesso tempo con una rivista d’avanguardia. In questo stesso periodo completa gli studi, laureandosi nel 1959 all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Sempre in quell’anno, pubblica il suo primo romanzo autobiografico: La morte in banca. Da quel momento non smette più di scrivere. Si susseguiranno una serie di opere di successo, tra cui Vite di uomini non illustri, che varrà a Pontiggia la finale del Premio Campiello (dopo essersi già aggiudicato la vittoria al Premio Strega nel 1989, con La grande sera).
Questo romanzo racconta diciotto vite di personaggi immaginari, tra fine Ottocento e primi anni Duemila: sono biografie di donne e uomini defunti, dei quali vengono ricordati le esperienze memorabili, eventi che, se pur passati, rimandano a desideri, ricordi familiari e a una vita spesso ignorata, in cui tutti noi possiamo rispecchiarci. I protagonisti di tutte queste storie appartengono a famiglie dell’alta borghesia, che pur non conoscendo la povertà, si trovano a fare i conti con la sofferenza; tanto è vero che le loro esistenze sono segnate per lo più da eventi che rendono le loro vite infelici.
Se ognuno di noi si fermasse a riflettere, sarebbe in grado comprendere che, in realtà, solo un numero molto esiguo di persone potrebbe affermare di essere stato completamente ripagato dalla vita, anzi, forse nessuno. La vita, infatti, ogni giorno ci sottopone a delle sfide, anzi si potrebbe dire che è essa stessa una sfida, forse la più grande di tutte. Ci sarà sempre qualcosa che non va, qualche evento che sarebbe potuto andare diversamente… Non so se è questo il messaggio che avrebbe voluto trasmettere Pontiggia, ma mi piace pensarlo.
Tra i diciotto personaggi narrati, vorrei citare Lovati Massimo (la cui biografia ha per titolo “Il prezzo del mondo”). Questa figura discende da una famiglia di risparmiatori, la cui esistenza è segnata da una sola parola, che finisce con l’incarnare un’abitudine, tramandata di padre in figlio: il risparmio, appunto. E in effetti “non sappiamo che ci riserba il futuro”, come ammette lo scrittore nel racconto.
Un altro personaggio che mi ha colpito è Bertelli Claudia (descritta in “Una goccia nell’oceano divino”), figlia di genitori benestanti dell’alta borghesia, contro i quali si ribellerà come capita a ogni adolescente, per poi riconoscere il proprio sbaglio e ritornare, però, con in serbo un’amara medicina: quella di aspettare un bambino mulatto figlio di un uomo di colore, già a quei tempi discriminato. Contro qualsiasi ghettizzazione, mi pare sufficiente citare questa frase: “I colori sono una illusione ottica e vengono percepiti diversamente dagli uomini e dagli animali”.
Trovo che questi racconti siano un versatile ritratto di un’umanità, che appare assolutamente imperfetta e, purtroppo, molto aderente alla realtà.
Tra le due guerre: un monologo teatrale
di
Alice Donini
Alessandro Baricco nasce a Torino nel 1958, si laurea in Filosofia e contemporaneamente studia pianoforte al Conservatorio. Inizia come saggista e narratore; il suo esordio come scrittore avviene nel 1988 con un saggio su Gioachino Rossini (Il genio in fuga), nel 1991 esce uno dei suoi romanzi più conosciuti, Castelli di rabbia, che provoca divergenze fra critici e lettori. Nel 1993 debutta alla televisione come conduttore, per Rai 3, di una trasmissione dedicata alla lirica, mentre con la giornalista Giovanna Zucconi è autore di un programma dedicato alla letteratura (Pickwick, del leggere e dello scrivere). La sua carriera continua come giornalista per “La Stampa” e “La Repubblica”. Nel 1994 scrive il monologo teatrale Novecento, dai cui Tornatore ha tratto il film La leggenda del pianista sull’oceano.
Quest’ultima opera vive una vicenda del tutto particolare. Il testo nasce come monologo teatrale e solo in seguito viene trasformato in un “libro”; come sostiene l’autore, sembra che stia “in bilico tra una messa in scena e un racconto da leggere a voce alta”. Tutta l’opera è ambienta sul “Virginian”, un piroscafo che portava le persone da una parte all’altra del mondo, attraccando nei porti e nelle città più famose del periodo intermedio tra le due guerre.
Il racconto comincia nel gennaio 1927: il transatlantico è alla ricerca di musicisti per la prima classe; il narratore si presenta con la propria tromba, inizia a suonare un pezzo e viene assunto. Poco dopo, sul “Virginian”, fa la sua comparsa Novecento, il pianista più straordinario del mondo. Novecento era nato e cresciuto su quella nave e da lì non era mai sceso; un certo Danny Boodmann lo aveva trovato in una scatola di cartone vicino al pianoforte quando aveva più o meno una decina di giorni, decidendo di tenere il bambino con sé e di crescerlo, ma anche di non farlo mai scendere dalla nave per paura di perderlo: il bimbo non aveva documenti ed era come se in realtà non fosse mai nato. Quindi il vecchio marinaio discute con i suoi colleghi per il nome da dare al neonato; inizialmente decidono di chiamarlo Danny Boodmann, poi aggiungono “T.D. Lemon” – da una piccola scritta su una scatola – e “Novecento”, perché era stato trovato all’inizio del secolo (il suo nome completo diventa così Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento).
Novecento, a soli otto anni, divenne orfano per la seconda volta. L’oceano era ormai la sua casa. Quando approdarono a Southampton il capitano decise di consegnarlo alle autorità portuali, ma il bambino si salvò. Il narratore diventò suo amico dopo una notte di burrasca, in cui cominciarono a suonare e il pianista raccontò la sua storia (“dentro di sé – afferma il narratore – aveva costruito un piccolo mondo fatto di tanti pezzi”). Nel 1931 duellò a colpi di pianoforte con l’inventore del Jazz uscendone vincitore. All’improvviso, un giorno, si mise in testa di voler scendere dopo trentadue anni vissuti sulla nave: il “Virginian” arrivò a New York e Novecento scese i primi scalini, ma al terzo si fermò, tornò indietro e risalì sulla nave. Il narratore, sceso dopo ben sei anni, non ebbe notizie del pianista per un po’; venne a sapere, per lettera, che mesi dopo la nave era stata fatta saltare in aria, e Novecento con lei.
Il libro nel complesso mi è piaciuto, perché secondo me Baricco ha ideato una storia bella e molto coinvolgente; per lo stile e il linguaggio, quotidiano e abbastanza facile da comprendere, mi sento di consigliarne la lettura.
Una famiglia alquanto bizzarra
di
Aurora Chiarelli
Daniel Pennac nasce il 1 dicembre 1944 in una famiglia di militari. Per questo trascorre l’infanzia tra Africa, Asia ed Europa. Da ragazzo non ha mai brillato per meriti scolastici; ebbe però la fortuna di essere incoraggiato da un insegnante, che aveva capito la sua passione per la scrittura. Nel 1968 si laurea in Lettere a Nizza; è insegnante, scrittore e saggista.
Nel 1985 scrive Au bonheur des ogres (in italiano Il paradiso degli Orchi), opera celebre per la figura di Malaussene. Il romanzo è ambientato in un quartiere parigino, Belleville; il protagonista, Benjamin Malaussene, come lavoro fa il “capro espiatorio”. Vengono raccontate alcune delle sue disavventure, ma non solo in ambito lavorativo. Alle sue spalle c’è una famiglia alquanto bizzarra, senza madri né padri, ma composta come segue: un cane epilettico, sorelle sensitive, ladri, zie affascinanti e fratelli geniali. Si tratta di una famiglia interessante, ma anche confusionaria e con qualche disagio alle spalle. Questa banda di personaggi è chiamata ad indagare su misteriosi attentati, che avvengono sul posto di lavoro di Malaussene tra giocattoli e un Babbo Natale assassino. Il mestiere del “capro espiatorio” è un incarico singolare: consiste nell’essere pagati per prendersi la colpa dei danni causati ai clienti dal personale del Grande Magazzino; l’obiettivo è che i clienti danneggiati arrivino a perdere la pazienza, tanto da andarsene e non chiedere nemmeno il risarcimento. Mi hanno colpita particolarmente l'incontro di Benjamin con il personaggio di "zia Julie" e la ricerca dei colpevoli delle esplosioni, che nella mia mente ha fatto sorgere una sorta di ansia.
A mio avviso è un libro non troppo semplice da comprendere, soprattutto per quanto riguarda i dialoghi – complessi “botta e risposta” – che intercorrono tra i vari personaggi. Tutto sommato mi è piaciuto, anche se preferisco storie romantiche o thriller. In generale, credo che Pennac voglia trasmettere l’idea per cui serve avere carattere in qualsiasi situazione, essere pronti agli imprevisti e mai sottovalutare se stessi.
Il difficile equilibrio tra lavoro e vita privata
di
Giulia Lelli
Cordiali Saluti, pubblicato nel 2005, è un libro scritto da Andrea Bajani, autore di romanzi e racconti, di reportage, opere teatrali e tratta della difficoltà riscontrata in questi tempi nel conciliare il mondo del lavoro con la vita privata delle persone.
Si tratta di un romanzo breve ma molto intenso e pungente che ci fa riflettere su tre argomenti fondamentali nella vita di ciascuno di noi: il lavoro, la vita privata e la morte.
Il protagonista, il cui nome non viene mai evidenziato, è un giovane assunto e promosso dalla sua Azienda per prendere il posto di un certo Carlo, Direttore Vendite appena licenziato.
Ad un certo punto la vita del protagonista e dell'ex Direttore Vendite inizia però ad intrecciarsi, mescolando il mondo del lavoro con la vita privata e la morte.
Il libro inizia con il licenziamento di Carlo (Direttore Vendite) congedato improvvisamente dall'azienda. Tra i suoi compiti c'era anche quello di scrivere lettere di licenziamento per i dipendenti proprio per il suo grado di sensibilità, empatia e attenzione al prossimo, qualità che mancavano al Direttore del Personale. Dopo l'epurazione di quest'ultimo, tale compito, successivamente al superamento di un test, passò al giovane protagonista. Questi è autore di lettere che evidenziano una linea sottile, che dà l'impressione di una presa in giro, tra il ringraziamento per tutti gli anni trascorsi in azienda con il massimo dell'impegno e il saluto finale con la richiesta esplicita di lasciare le chiavi e tutti i benefit concessi dall'azienda in portineria a partire dalla data X.
Un giorno il protagonista viene invitato a cena a casa di Carlo per consegnargli una cartellina che aveva lasciato nel cassetto e qui scopre la situazione critica in cui vive l'ex Direttore Vendite che, oltre ad aver perso il lavoro, soffriva di una grave malattia (cirrosi epatica, che l'aveva colpito sebbene fosse astemio) ed era in lista d'attesa per il trapianto di fegato. Una notte l'ex Direttore Vendite telefona al protagonista e gli chiede di trasferirsi temporaneamente a casa sua per occuparsi dei suoi due figli durante il suo periodo di degenza in ospedale per il trapianto di fegato, poiché la moglie si trovava al mare per occuparsi della madre, colpita da un ictus. Il protagonista accetta e si prende cura della famiglia di Carlo giocando con i bambini, impastando pizza e cantando sul balcone fino al momento in cui l'ex Direttore viene a mancare. Il Direttore del Personale dell'azienda, saputa la notizia del decesso, chiede con estremo cinismo al protagonista di scrivergli il discorso che dovrà leggere in chiesa il giorno del funerale di Carlo. Il giovane fa ciò che gli viene chiesto, ma decide di non partecipare al funerale per la grande tristezza che la situazione presenta: mentre il capo del personale legge in chiesa - senza alcun interesse - le sue belle parole, parte con il primo volo lasciandosi alle spalle il lavoro e tutto quello che l'azienda gli offriva.
Io ho quattordici anni, sto studiando e ovviamente non ho nessuna esperienza lavorativa per potermi pronunciare in merito, ma posso capire il difficile equilibrio tra lavoro e vita privata per la mia situazione familiare e per quello che leggo nei giornali.
Ultimamente mi ha molto colpito, ritenendo di poter associare a questo il messaggio dell'autore, un articolo pubblicato su Repubblica poche settimane fa dove si denuncia il fatto che spesso i genitori devono lasciare il lavoro per accudire i figli. Nelle aziende oggi si tende a tener conto solo ed esclusivamente del profitto e viene a mancare quasi completamente il rispetto per le persone, per le loro famiglie e per il loro tempo libero.
Un "grazie" e un "cordiali saluti "non sono sufficienti a chiudere un rapporto di lavoro in nome solo del puro guadagno, sopratutto quando la persona si trova in difficoltà; ancor peggio quando una persona ha dedicato la propria vita a quel lavoro e a quell'azienda.
Perdere il lavoro provoca nella persona notevoli effetti negativi, a partire dall'umiliazione fino alla sensazione di non sentirsi più utile - con gravi ripercussioni - anche a livello familiare.
Cordiali Saluti
Ricostruire la storia
di
Sabrina Santangelo e Alice Donini
Niente di nuovo sul fronte occidentale ricalca in buona parte le vicende del suo autore Erich Paul Remark, nato ad Osnabrück (Germania) nel 1898 da una famiglia cattolica di origine francese. Per onorare le sue origini e per affetto verso la madre, da scrittore assunse il nome di Erich Maria Remarque. Allo scoppio della prima guerra mondiale fu costretto a lasciare gli studi e ad arruolarsi, nel 1916, come volontario nell’esercito che staziona presso il cosiddetto “fronte Occidentale”. E proprio le esperienze vissute durante la guerra furono alla base del suo romanzo più famoso, pubblicato nel 1929. Il conflitto lasciò all’autore ferite interiori che lo spinsero a scrivere, forgiandone il carattere in modo definitivo.
L’opera descrive con crudo realismo la vita di trincea dei soldati tedeschi, in questo caso studenti giovani ed inesperti. Attraverso gli occhi del protagonista, il soldato Paul (ovvero lo stesso Remarque), si raccontano in prima persona fatti realmente vissuti, accompagnati, nel corso della narrazione, dalla descrizione di paure, stati d’animo e riflessioni che l’autore stesso si è trovato a vivere. “Questo testo non vuol essere né un atto di accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale, anche se sfuggì dalle granate, venne distrutta dalla guerra”, scrive Remarque.
Al romanzo seguì quasi immediatamente una trasposizione cinematografica americana che riscosse molto successo, ma, nonostante ciò, venne ostacolata dagli esponenti del nascente nazionalsocialismo di Hitler per la sua evidente condanna della guerra. Il romanzo venne poi fatto bruciare pubblicamente, insieme ad altri libri considerati “degenerati”, nel 1933. Ma l’ostilità verso lo scrittore raggiunse il suo apice nel 1938, con la revoca della cittadinanza tedesca. Dunque Remarque fu esiliato e si spostò prima in Svizzera, quindi in Francia e successivamente negli Stati Uniti, dove ebbe modo di diventare un cittadino americano a tutti gli effetti. Tornò infine in Svizzera, dove rimase fino alla morte (1970).
Niente di nuovo sul fronte occidentale appartiene al genere del racconto di guerra. Tale filone narrativo ebbe il proprio boom nel Novecento, di pari passo con l’importante letteratura “memoriale” sorta in Europa e negli Stati Uniti a seguito delle due guerre. La maggior parte degli autori hanno partecipato ai conflitti, sperimentando l’orrore sulla propria pelle e sentendo l’esigenza di testimoniare (esempi si ritrovano in uomini come Primo Levi, chimico, e Badeschi, medico, che di mestiere facevano altro ma hanno voluto ricordare e documentare il proprio vissuto). C’è chi ricorre al diario, scritto in parte in trincea o nei campi di concentramento e di prigionia, chi al racconto breve, chi al romanzo. Ma, a prescindere dalla forma, la finalità è di raccontare la verità a chi è stato all’oscuro di tutto e quali sofferenze abbiano dovuto sopportare i soldati al fronte. Si ricorre di norma a una struttura episodica, che presenta di volta in volta situazioni complesse in cui il protagonista è costretto a fare i conti con se stesso, scoprendosi codardo, violento, risoluto o audace. Spesso manca il tipico “finale”, tragico o lieto che sia, in cui le aspettative iniziali vengono in qualche modo risolte.
Ciò che ci dovrebbe colpire di questi racconti è la loro capacità di parlare dell'interiorità degli uomini. In un racconto incluso nella raccolta I suoi occhi mi seguono, Remarque ci narra di una spedizione notturna in cui trovò riparo nella buca creata da una bomba: qui si vide piombare vicino un soldato nemico, cui saltò addosso senza ragionare e a cui tolse la vita colpendolo con forza. Fu allora che capì di avere avuto di fronte un uomo proprio come lui, che aveva senz’altro una famiglia in pensiero, ma anche, come molti altri, la necessità di uccidere altri individui per restare in vita.
Altre letture consigliate (sempre a tema Remarque): La notte di Lisbona, Tre Camerati e Arco di Trionfo.
Il senso della Durastanti per l’estraneità
di
Giulia De Carlo
Claudia Durastanti è una scrittrice e traduttrice, nata a Brooklyn nel 1984 e trasferitasi in un piccolo paese della Basilicata quando era ancora bambina; nonostante questo non ha mai interrotto del tutto i legami con la sua terra natale.
Nel romanzo La straniera, l’autrice ci porta con sé tra i ricordi della sua infanzia e adolescenza, sottolineando il rapporto travagliato che ha da sempre contraddistinto i suoi genitori, entrambi affetti da sordità. Ogni volta che viene chiesto loro come si siano conosciuti, le loro risposte non combaciano mai: l’unica certezza è che ognuno dei due inizia la storia dicendo che ha salvato la vita all’altro. È proprio partendo da qui che l’autrice dipana la trama dell’intero libro: si tratta di un racconto autobiografico, che pone l’accento su come la vita di una persona possa cambiare, pur partendo da un’infanzia vorticosa e delle radici instabili.
Il filo conduttore del romanzo può essere identificato nel senso di estraneità che la protagonista-narratrice si porta dentro, che la spinge alla continua ricerca di certezze emotive. È una storia che parla di diversità fisica e sentimentale, di amore e di solitudine e lo fa in modo così efficace da rendere quasi tangibile per il lettore questo senso di estraneità che l’autrice sperimenta e vive.
Con questo testo la Durastanti ha voluto scrivere di sé e della sua famiglia, concentrandosi in modo particolare sulla figura della madre, senza però includere nomi, per poter permettere al lettore di focalizzarsi al meglio sul carattere, sulla personalità dei personaggi. Altro punto a sostegno della riuscita del racconto è che ogni avvenimento viene analizzato da più prospettive e questo ci restituisce una visione il più completa possibile della vicenda.
Lo stile scorrevole permette una lettura veloce, ma ricca di riflessioni, spesso dovute alla leggerezza con cui l’autrice tratta di tematiche tanto impegnative.
Per concludere, non credo si possa classificare quest’opera come una lettura facile o “da ombrellone”, tuttavia lo consiglio vivamente, poiché credo che ognuno di noi possa ritrovare un po’ di se stesso in questo libro.
Se un diavolo in bottiglia realizzasse i nostri desideri
di
Giulia Lelli
Il diavolo nella bottiglia è un racconto dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson, attivo nell'età vittoriana. Il nostro autore nacque a Edimburgo nel 1850 e lì visse una giovinezza ribelle, in contrasto con il padre e con il puritanesimo dell’epoca. Frequentò la scuola di giurisprudenza e divenne avvocato, pur non esercitando mai la professione. Viaggiò a lungo in Europa e in America, mosso da un indomito spirito di avventura. Si sposò con una americana divorziata, madre di due figli e di dieci anni più grande di lui. Quando un raggiunto benessere economico glielo consentì, partì per una lunga crociera nel Pacifico. Raggiunse le isole Samoa, dove si stabilì, trascorrendo infine una vita tranquilla, circondato dall'amore e dal rispetto degli indigeni, che difese più volte dalle prepotenze dei bianchi. Proprio in queste isole trovò la morte nel 1894, a conclusione di una vita non meno avventurosa di quella dei suoi eroi romanzeschi.
Il libro racconta la storia di Keawe, un giovane ed eccellente marinaio hawaiano, in visita a San Francisco, preso dalla curiosità di visitare nuovi posti. Nel racconto è evidente una commistione tra bene e male, lontana dal manicheismo. Esaminiamone la trama.
Durante una passeggiata per i palazzi della città di San Francisco, Keawe vide una casa un po’ più piccola delle altre, ma rifinita e bella come un giocattolo: i gradini di questa casa splendevano come l'argento, il giardino era così fiorito da sembrare una ghirlanda e le finestre restituivano una luce adamantina. Keawe decise allora di fermarsi a osservarla meglio, ma, mentre stava lì, immobile, si accorse che il proprietario lo osservava da dietro i vetri di una finestra. Era un uomo anziano, calvo, con la barba nera, il viso serio, che guardava fuori e sembrava immerso nella tristezza. I due si scambiarono una serie di sguardi: l'uno invidiava l'altro.
L'anziano uomo ospitò Keawe nella sua casa splendente e gli spiegò che tutta la sua buona sorte era dovuta a una bottiglia di un vetro infrangibile, bianco come il latte e cangiante come l'arcobaleno, dal collo lungo, al cui interno si muoveva, come un'ombra, un diavoletto temprato nelle fiamme dell'inferno. Gli spiegò e gli dimostrò che questo diavoletto sarebbe stato agli ordini di chiunque avesse comprato la bottiglia e che avrebbe esaudito ogni desiderio voluto dal padrone, ma con un inconveniente: l'uomo che fosse morto prima di averla venduta, sarebbe dovuto bruciare per sempre nelle fiamme dell'inferno. C’era, inoltre, un problema supplementare: la bottiglia poteva essere rivenduta solo a un prezzo inferiore a quello per cui era stata acquistata: in caso contrario sarebbe tornata al vecchio proprietario.
Keawe, dopo una prima fase di incertezza, decise di comprarla: il suo primo desiderio fu quello di poter avere una bella casa, nel luogo in cui era nato, Kona Coast, una casa a tre piani, circondata da balconi, con un giardino e un frutteto d'alberi di papaia e d'alberi del pane, con il sole che splende sulla porta, tra i fiori del giardino, tra i vetri delle finestre, sui quadri appesi al muro, sui ninnoli e sui tappeti del pavimento. Il desiderio si esaudì e a quel punto decise di vendere la bottiglia a Lopaka, un suo compagno di bordo.
Una notte, mentre stava tornando a casa, vide una ragazza di nome Kokua, che faceva il bagno in riva al mare: si innamorarono perdutamente l'uno dell'altro e decisero di sposarsi. Poco prima del matrimonio, però, Keawe si ammalò di lebbra e, preso dallo sconforto, capì che l'unica soluzione per rimanere in vita sarebbe stata quella di ritrovare la bottiglia venduta ed esprimere nuovamente un desiderio. Ci riuscì dopo un lungo viaggio, ma nel frattempo il suo costo si era abbassato di parecchio fino ad arrivare a due centesimi; lui l'avrebbe quindi dovuta comprare a un centesimo, ma, così facendo, non avrebbe mai potuto rivenderla. Il diavoletto, perciò, sarebbe rimasto con lui fino alla sua morte e anche fino ai confini dell'inferno.
Spinto dal grande amore provato nei confronti della futura moglie, Keawe la comprò ugualmente. I due finirono effettivamente per sposarsi, ma, col passare del tempo, la moglie vedeva lo sconforto del marito aumentare e, non capendone il motivo, si preoccupò, pensando di essere lei stessa la causa della tristezza di lui. Keawe la vide sofferente, quindi decise di raccontarle tutta la verità. Lei, commossa dal suo coraggio, ebbe la magnifica idea di vendere la bottiglia in Inghilterra, dove un centesimo americano equivaleva a mezzo centesimo farthing.
Le cose, però, non andarono come previsto. La gente o non credeva alla storia della bottiglia oppure la giudicava anche più losca di quanto non fosse e prendeva le distanze da Keawe e Kokua, come da persone in rapporti poco chiari con il diavolo. Così, invece che acquistare credito, i due sposi cominciarono ad accorgersi che in città venivano scansati da chiunque.
Tornarono distrutti nella loro splendida casa; il loro sconforto aumentava di giorno in giorno, fino a quando Kokua decise, con molto coraggio e amore, di acquistare lei la bottiglia per liberare il marito da questo peso, però senza dirglielo. Riuscì a comprarla grazie all’aiuto di un vecchio che passava per le vie della strada davanti a casa loro, in piena notte.
Il peso dell'inferno era ora passato sulle sue spalle: anche lei non tardò a cadere nello stesso sconforto che prima aveva provato il consorte. Keawe, vedendola così, cercò di comprenderne il motivo e, alla fine, scoprì che non era stato il vecchio a comprare la bottiglia, ma lei.
Senza pensarci due volte mandò un suo amico come intermediario a ricomprare la bottiglia dalla moglie, promettendogli che l'avrebbe ripresa lui, per sottrarre pure l'amico dal peso dell'inferno. Lui accettò, ma, una volta avuta la bottiglia, decise di non rivenderla a nessuno, perché sosteneva che tanto sarebbe andato all'inferno comunque e che non gli dispiaceva avere un diavoletto con lui per esaudire tutti i suoi desideri.
Keawe a quel punto ritornò da Kokua veloce come il vento. Quella notte la loro felicità fu grande e, da allora in poi, fu grande anche la pace di tutti i loro giorni.
Ho trovato questo libro molto interessante fin dalla prima pagina. Penso che il suo scopo fosse quello di trasmettere a ognuno di noi l'importanza del sacrificio di sé in favore degli altri.
In compagnia dei personaggi frustrati e rancorosi di Yasmina Reza
di
Antea Bisicchia
Felici i felici di Yasmina Reza è una raccolta di racconti a più voci, in cui affiorano personaggi che, a turno, ci offrono delle storie, delle vicende e delle parti di loro stessi.
Ritengo che non sia un libro per tutti e che solo determinate persone possano davvero apprezzarne il valore.
Il significato dell’opera è racchiuso nell’idea che, per valorizzare la felicità, nell’amore o nell’assenza di amore, ci voglia un vero e proprio talento.
Sebbene il titolo sembri premettere una condizione ben precisa all’interno della storia, i protagonisti che ne fanno parte non sono particolarmente felici, anzi, sembrerebbe proprio il contrario: al lettore si presentano, infatti, personaggi insoddisfatti, insicuri, frustrati, pieni di rancore e molto altro.
La scrittura della Reza è capace di toccare moltissime tonalità e ritmi diversi fra loro. L’autrice è in grado di dare grande significato a ogni parola. Riesce, così, a farsi strada tra le insoddisfazioni presenti nelle vite dei personaggi, portando il lettore a identificarsi in almeno una delle vicende, perché così autentiche e ricorrenti che difficilmente possono sembrare lontane. In questo modo ci mette davanti a situazioni che talvolta tendiamo a rifuggire, tuttavia, contemporaneamente e in maniera contradditoria, ci suscita anche l’inconsapevole voglia di andare verso ciò che non vogliamo vedere.
Leggere questo libro è stato per me edificante e costruttivo, poiché gli effetti di questa lettura non si esauriscono con la conclusione dei racconti, ma continuano ad abitare il pensiero e a generare nuove riflessioni.
La necessaria dialettica del conflitto
di
Francesca Boldini
La porta, opera della scrittrice ungherese Magda Szabó, narra la storia di due persone, del loro rapporto inizialmente conflittuale, scaturito dalla diversità dei loro due caratteri.
Delle due donne protagoniste, una è Emerenc, un’anziana e riservata donna delle pulizie, in grado di svolgere qualsiasi lavoro domestico con un’energia inesauribile. L’altra, attorno a cui ruota il libro, è la proprietaria della casa, una scrittrice, che non è in grado di affrontare i problemi della vita quotidiana e che, per questo, chiede aiuto a Emerenc. Dopo un iniziale rifiuto, l’anziana donna decide di prendersi cura di lei e di suo marito.
All’inizio il rapporto tra le due non è facile, perché Emerenc appare molto distaccata, come se non le interessasse niente, non lascia nemmeno che qualcuno varchi la soglia di casa sua; ma, col passare del tempo, tra lei e la scrittrice si consolida un rapporto di fiducia. Per certi versi, però, è sempre Emerenc a dettare le regole della loro relazione: è lei, infatti, a decidere il modo in cui far percepire alla proprietaria di casa la sua amicizia, che consiste principalmente in una serie di atti attraverso cui l’anziana si prende cura di lei e della sua casa, della sua quotidianità, in ogni minimo dettaglio. Ma la solidità del rapporto che si stabilisce tra le due è frutto del conflitto, che nasce tra di loro in virtù dell’ostinazione proterva della serva a tenere segreto il suo passato.
A un certo momento diventa palese che Emerenc fa entrare la scrittrice nella sua vita perché, pur nella diversità di condizione sociale delle due e nella distanza culturale enorme, si stabilisce una connessione fortissima sul piano umano ed emotivo. Il romanzo assume, nei suoi momenti culminanti, toni da tragedia greca, per il lirismo e la forza delle immagini che ci offre la Szabó, nel tratteggiare la relazione tra le due.
Il finale è inevitabilmente senza scampo. D’altronde, la scrittrice ci ha avvertito, ben prima della fine, mettendo in bocca alla serva queste parole: “Non bisogna mai amare nessuno perdutamente perché altrimenti si causa la sua rovina”.
Le implicazioni nascoste nel desiderio di “essere come tutti”
di
Matilde Caneva
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino è un libro scritto da Christiane Felscherinow e ambientato nella Berlino Ovest degli anni Settanta. L’opera, autobiografica e scritta in forma diaristica, racconta la sua complicata vita di adolescente. Cresciuta nelle case popolari di Berlino, Christiane subisce le violenze del padre, che in seguito si trasferirà in una città più piccola portando con sé la sorella. In questo quadro già difficile, Christiane si trova ad affrontare i primi drammi adolescenziali e i primi amori.
A dodici anni, frequenta una compagnia dove c’è un ragazzo che le piace molto; quindi lei, per farsi notare ed essere come tutti, comincia a fumare hascisc. In quel momento inizia la sua discesa verso il mondo della droga. Apprendiamo, poi, che con la sua compagna di classe Kessi, per svago e semplice ribellione, oltre all’hascisc inizia a fare uso anche di Lsd, efedrina e Mandrax. Sempre sotto l’influenza della stessa compagnia, verso i tredici anni frequenta il Sound, una delle discoteche più famose della Berlino Ovest di quegli anni, quando ancora il muro era in piedi e la metropoli era divisa. Durante una serata al Sound, conosce Detlef, un ragazzo che fa uso di eroina e del quale s’innamora perdutamente, imitandone i comportamenti.
Il cantante preferito di Christiane è David Bowie; quando la ragazza scopre che il suo idolo farà un concerto a Berlino, si precipita a comprare i biglietti. E sarà proprio in quell’occasione, che inalerà eroina per la prima volta. A quel punto non potrà più rinunciare alla droga e, dopo la scuola, inizierà a frequentare regolarmente la stazione di Berlino Ovest, detta “Bahnhof Zoo”, una piazza di spaccio, dove si vede con Detlef, che si prostituisce per potersi permettere la dose quotidiana.
Il giorno del suo quattordicesimo compleanno, proprio dentro i bagni di quella stazione, la protagonista proverà per la prima volta a iniettarsi la droga direttamente in vena; quel momento sugellerà l’instaurarsi di una forte dipendenza dall’eroina, dipendenza che ormai condivide con Detlef. Anche lei comincia allora a prostituirsi per pagarsi l’acquisto delle sostanze e a fare dei furtarelli con i suoi amici, attirando così l’attenzione della polizia berlinese. Pure le sue due amiche, Babsi e Stella, fanno uso di droghe; infatti Babsi sarà ricordata come la più giovane vittima tedesca della droga, per la sua morte, sopraggiunta a soli quattordici anni.
Aiutata dalla madre, Christiane prova a disintossicarsi insieme al fidanzato; se sulle prime sembra riuscirci, poco dopo ripiomba nella stessa situazione.
Nel suo diario, scrive: “La roba e l’agitazione, la lotta ogni giorno per i soldi e per l’ero, lo stress continuo a casa, il nascondere e il mentire con cui ingannavamo i nostri genitori, tutto questo ci rendeva i nervi a pezzi”.
Credo che, leggendo questo libro, un adolescente possa veramente capire il mondo della droga e i suoi rischi. È un’opera molto cruda, che ti sbatte in faccia la verità senza mezzi termini e che aiuta a comprendere l’ancoraggio alla droga di un’intera generazione.
Appena uscito, questo diario ha fatto molto scalpore per la chiarezza con cui descriveva la degradazione delle metropoli negli anni Settanta. Dal libro, com’è noto, è stato tratto anche un film, che penso restituisca in modo abbastanza fedele la materia incandescente del racconto autobiografico di Christiane.
Siamo tutti sopravvissuti
di
Giulia De Carlo
Addio fantasmi: una storia di vuoti e assenze. Ida Laquidara è rimasta profondamente segnata dalla perdita del padre. Non una morte, ma una scomparsa: una mattina, il professor Sebastiano Laquidara è uscito dalla porta di casa senza farvi mai più ritorno. Alla scomparsa del padre, Ida e sua madre reagiscono con il silenzio, fingendo di vivere nello spazio tollerabile di un’assenza provvisoria. L’uomo non lascia alla moglie e alla figlia una tomba su cui piangerlo, non dice loro una parola prima di sparire per sempre. L’unica cosa che lascia è un enorme vuoto, che nessuna delle due fu mai in grado di colmare.
Così Nadia Terranova racconta l'ossessione per una perdita, un corpo a corpo con il passato che ancora oggi influenza la vita di Ida. Ida che, forse, non ha mai perdonato sua madre per non essere morta di dolore, che non ha mai perdonato se stessa per non essere riuscita a salvare il genitore, per non averlo saputo trattenere, per non essere stata abbastanza importante. Aveva solo 13 anni, eppure si sentiva responsabile dell’abbandono.
Occultati dalla messa in scena di una fittizia normalità, dolore e rabbia non hanno trovato sfogo. Il nome taciuto si è vendicato facendosi invasivo: “Dagli anni della scomparsa di mio padre, mia madre aveva accumulato la sua tempesta personale, a volte l’avrebbe scatenata e altre volte rinchiusa, io ero l’oggetto della sua rabbia ma non la causa, perciò i miei tentativi di lenirla sarebbero stati sempre insufficienti.”
Se la prima parte del romanzo ruota intorno al nome del padre, la seconda è invece incentrata sull’assenza del suo corpo. Ida ne prende coscienza, nel suo lento cammino verso una sofferta lucidità. L’assenza del corpo del padre la portata a svalutare la sua stessa fisicità, a dirsi che “se una cosa è successa al corpo allora non è successa davvero”.
Ida ritorna a Messina, la sua città, ormai lasciata da tempo per stabilirsi a Roma con il marito. Viene chiamata dalla madre in vista della ristrutturazione della casa di famiglia, che vuole mettere in vendita, dopo anni di trascuratezza, dopo anni in cui l’amore non vi ha più abitato. Il piccolo mondo in cui ha vissuto con la madre la riafferra; anche gli oggetti più anonimi diventano complici della resurrezione di un passato che sembra destinato a non passare mai. Ad essere onesti, di quella miriade di oggetti che le ricordano ciò che è stata, le interessa soltanto una cosa. Una scatola di latta rossa. Con il terrore che la madre riordinando avrebbe potuto buttarla via, Ida si è fatta forza per affrontare il passato. Quest’ultimo la tormenta ancora oggi, impedendole di vivere un sereno matrimonio con Pietro nella casa di Roma. La loro unione è caratterizzata da sguardi comprensivi, gesti discreti e parole sussurrate. Ma forse va bene così.
Il ritorno a Messina le fa rivivere i ricordi lontani e sgretolati dell’infanzia e dell’adolescenza. Solo grazie alla presa di coscienza del suo passato e del suo presente, Ida capirà che la sua casa non è né quella di Messina né quella di Roma. Si trova piuttosto tra i due mari. Ed è proprio lì che Ida sceglie di far riposare il ricordo di suo padre, racchiuso all’interno della scatola rossa.
Nel momento in cui si viene messi sotto chiave
di
Diego Marri
Siamo a Lisbona nel 1942, periodo in cui molti, in fuga dai nazisti, cercano di accaparrarsi biglietti per salpare alla volta di New York, una sorta di “terra promessa”.
L’austriaco Josef Schwarz, sotto falso nome, si trova a passeggiare di notte sulla banchina del porto mentre contempla l’arca che la mattina seguente sarebbe dovuta salpare senza di lui, dacché i biglietti si erano esauriti mesi prima. Schwarz si imbatte in un uomo che ne possiede due ed è disposto a regalarglieli in cambio della sua compagnia. Josef, incredulo, accetta e, dopo aver preso posto in un locale, racconta al nuovo amico il suo periodo di fuga, che ha comportato l’allontanamento dalla sua Helen e notevoli rischi corsi per nascondersi dai tedeschi. Questo è il pretesto per dare avvio alla narrazione vera e propria: benché si tratti, sostanzialmente, del racconto della Seconda Guerra Mondiale, Remarque descrive il momento storico in maniera fluida e affatto noiosa, senza incupire il lettore. Durante il resoconto dell’austriaco, vengono forniti dettagli inattesi, tanto più che l’attenzione di chi legge non si concentra sulle sole caratteristiche fisiche dei personaggi. Queste, infatti, sono irrilevanti rispetto alla potenza delle loro riflessioni e al portato emotivo della trama: è, del resto, un tratto tipico della poetica di Remarque.
Le vicende sono ambientate in luoghi differenti, non descritti dall’autore in maniera dettagliata, ma funzionali a stimolare nel lettore un certo grado di immaginazione ed immedesimazione. Qualcosa di simile vale per l’ambientazione storica, comunque resa perfettamente: sembra piuttosto una storia adattabile a diverse epoche. Centrale è l’amore tra Josef e Helen, che per diversi anni dovranno lasciarsi e che, insieme, sognano l’America per poter vivere serenamente la loro passione.
Il Remarque de La notte di Lisbona non manca di appoggiarsi a una sintassi trascinante, spingendosi al di là della semplice riflessione sulla guerra. Consiglio vivamente questo libro a chiunque desideri un racconto penetrante, ma allo stesso tempo rilassante. Remarque, come di consueto, spinge a riflettere, come prova uno dei passi che più ho apprezzato di questo suo capolavoro è: “Il mondo non sembra mai così bello come nel momento in cui si viene messi sotto chiave, nel momento in cui lo si deve abbandonare. Almeno si potesse avere sempre questa sensazione! Ma forse non ne abbiamo il tempo, non ne abbiamo la tranquillità”.