Attualità

I buchi neri

di

Giulia De Carlo

I buchi neri sono corpi celesti caratterizzati da un campo gravitazionale così elevato da non lasciar sfuggire né la materia, né la radiazione elettromagnetica. La superficie sferica chiusa intorno a ogni buco nero, che consente l’entrata ma impedisce la fuga di qualsiasi oggetto da esso, prende il nome di “orizzonte degli eventi”. È importante sottolineare che un buco nero non è un buco come lo conosciamo noi, nell’universo; è invece una regione dello spazio che, grazie a una elevatissima attrazione gravitazionale, è in grado di inghiottire tutto ciò che gli è sufficientemente vicino, come materia, stelle e persino luce.

Al centro di ogni buco nero è presente un punto che prende il nome di “singolarità”. Questa è una regione sorprendentemente piccola in cui è concentrata l’intera massa del buco nero e dove confluisce tutto ciò che viene inghiottito da esso, almeno secondo la relatività generale di Einstein; al contrario, la meccanica quantistica, ovvero la teoria fisica che spiega il comportamento della materia nel mondo microscopico, non accetta l’esistenza della singolarità.

L’ipotesi più accreditata per spiegare la nascita dei buchi neri è la seguente: se la massa di una stella corrisponde ad almeno venti volte la massa del sole, al termine della sua vita questa può espandersi, tanto da arrivare a esplodere. L’energia e la massa che restano dopo l’espansione e la successiva esplosione sono sufficienti a innescare ulteriori processi. La gravità prende il controllo, facendo collassare il nucleo e ciò che resta della stella su se stessi e dando così vita al buco nero.

Un altro scenario per la nascita di un buco nero vede come protagonista una stella di neutroni, chiamata così perché formata principalmente da neutroni appunto, ovvero da particelle dalla carica positiva, in un sistema composto da due stelle così vicine tra loro da essere legate dalla reciproca attrazione gravitazionale. La stella di neutroni può rubare massa alla sua vicina fino ad arrivare a una concentrazione tale da collassare. Questo genera sufficiente energia visibile ai raggi X, che ci ha permesso di accorgerci del fenomeno e che ci ha spinto a pensare che questa situazione si verifichi con maggiore frequenza rispetto alla prima.

Un’altra ipotesi, anche se solo speculativa, tratta della nascita di buchi neri primordiali.

Alcuni astrofisici presuppongono che, poco dopo l’espansione del Big Bang, l’universo fosse soggetto a pieghe dello spazio-tempo sufficientemente grandi da piegarlo completamente, dando origine a buchi neri, senza dover passare da alcun tipo di stella. Alcuni dei primi, se sono nati, dovrebbero iniziare a morire in questo periodo; al momento ci sono ricerche attive che si occupano della rilevazione di raggi gamma provenienti dall’evaporazione di buchi neri.

Al centro di molte galassie osservate è presente un buco nero, persino nella nostra. Il buco nero all’interno della Via Lattea è denominato Sagittarius A. Si tratta di un buco nero supermassiccio che dista da noi ventiseimila anni luce e ha una massa comparabile a quella di 4,3 milioni di stelle come il Sole. I buchi neri dalle dimensioni più grandi sono detti “supermassicci”; questi possono avere una massa di milioni o miliardi di volte superiore a quella del Sole. Si pensa che quasi tutte le galassie ellittiche e spirali, come la Via Lattea, possano averne uno al centro.

Il 10 Aprile 2019 è stata pubblicata un’immagine in cui si può vedere l’orizzonte degli eventi del buco nero M87 situato al centro della galassia Virgo A. Si tratta di un buco nero supermassiccio formatosi presumibilmente dalla fusione di più buchi neri, che dista da noi 53,5 milioni di anni luce e ha una massa di 6,5 miliardi di masse solari.

Nonostante Sagittarius A sia più vicino alla Terra, è più complesso da osservare, poiché siamo obbligati a guardare attraverso l’intera galassia per arrivare alla regione centrale. Con le attuali tecnologie sarebbe molto complesso eliminare tutto ciò che è presente tra noi e il nostro buco nero. Pertanto si è optato per M87. Nonostante sia più distante, è anche più grande di Sagittarius A, è molto più attivo, di conseguenza più luminoso, dato che inghiotte una maggiore quantità di materia rispetto al nostro buco nero. Un’altra ragione che ha spinto gli scienziati a optare per M87 è che, a differenza di Sagittarius A, si muove molto più lentamente, anche a causa della sua abbondante massa, permettendone un’immagine sufficientemente chiara.

Sarebbe interessante, se fosse possibile, scattare foto ogni anno a più buchi neri per determinarne i cambiamenti; purtroppo, però, i fondi di ricerca sono limitati, sebbene gli scienziati, in particolar modo gli astrofisici e i fisici, stiano dedicando molte energie alle indagini sui buchi neri. Gli studi sono diretti, in particolare, alla ricerca di una conciliazione tra la relatività generale di Einstein e la meccanica quantistica, con la speranza che un giorno si riesca a trovare una legge generale che spieghi tutto ciò che è ancora ignoto sull’universo.

Perché si sta protestando in Cile?

di

Antea Bisicchia

Da un mese a questa parte, sui giornali e on line, si sta discutendo di quanto sta accadendo in Cile e, non sapendo se siete a conoscenza dei fatti o no, ho deciso di parlarvene per diffondere la notizia.

In questo paese è esplosa una protesta di tipo antigovernativo, che ha lo scopo di opporsi all’eccessivo costo della vita, incrementato dall’aumento delle tasse e dei servizi pubblici, tra cui quello sanitario, quello scolastico e quello dei trasporti. Dopo i primi dieci giorni di protesta, gli scontri sono diventati violenti: a quattro settimane dall’inizio della guerriglia, il bilancio è arrivato a 23 morti.

C’è stato anche un episodio di protesta pacifica, la “Seconda grande marcia”, a cui si sono aggregate diecimila persone, radunate in Plaza Italia, con l’intento di rendere omaggio ai caduti durante le proteste.

Di fronte a quanto stava accadendo, il presidente Sebastián Piñera ha reagito schierando un esercito e innescando di fatto una guerra civile, non ancora ufficializzata.

L'intervento della polizia e dei militari è stato talmente vigoroso da provocare denunce per l’uso eccessivo della forza e la violazione dei diritti umani.

Il ministro dell'Ambiente cileno, Carolina Schmidt, in visita a Madrid, ha parlato del momento che sta vivendo il suo paese, sottolineando che «il Cile si è svegliato, perché la disuguaglianza è un germe di disagio e influisce direttamente sulla dignità delle persone». Ha riconosciuto che non avevano mai visto una mobilitazione simile e ammesso che ci sono stati errori da parte dello Stato. Ha dichiarato, infatti, che la protesta è esplosa perché, nonostante il governo abbia applicato misure per condurre a una diminuzione della povertà, queste non sono state dirette equamente a tutte le classi sociali, ma solo a una minoranza.

Grazie mille per la vostra attenzione, spero che questo articolo sia stato di vostro interesse!

Per saperne di più, vi consiglio il link sottostante:

https://www.osservatoriodiritti.it/2019/10/29/cile-ultime-notizie-proteste-cosa-succede/

TikTok: il nuovo Instagram?

di

Allegra Tacoli, Giulia Cavallo e Ludovica Bargilli

“TikTok” è un’applicazione lanciata da ByteDance (Zhang Yiming) nel 2016, ottenendo sin dall’inizio enorme successo tra i giovani. Il nuovo social network ha infatti riscosso tanta fama da essere già stato tradotto in 34 lingue diverse, per un totale di mezzo miliardo di visualizzatori ogni mese.

Ideata nel settembre del 2014, quindi soltanto cinque anni fa, TikTok nasceva col nome di Musical.ly, una piattaforma che permette agli utenti di creare video di circa quindici secondi con sottofondo musicale.

Gli effettivi fondatori della piattaforma sono Alex Zhu e Luyo Yang: i due, dopo aver lavorato su un altro social network che aveva un vero e proprio scopo educativo - e che però non riscosse abbastanza successo -, decisero di ideare un’applicazione che riguardasse proprio gli adolescenti.

È così che nell’agosto 2014 esce sugli store iOS e Android la prima versione di quello che diventerà TikTok. Con la continua espansione di questa nuova piattaforma, nel 2017 Musical.ly viene comprata dall’azienda cinese ByteDance per una somma che si aggira intorno ai 750 milioni di euro. Qualche mese più tardi, i nuovi sviluppatori decidono di unire, tramite un aggiornamento, TikTok (ai tempi un social network di fama asiatica) e Musical.ly, cambiando allora il nome in TikTok.

Dal 2017 a oggi, l’applicazione cinese ha conquistato l’intero web; gli iscritti ammontano infatti a 1 miliardo e 700 milioni, vale a dire quasi due settimi della popolazione mondiale.

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Tiktok è alla portata di chiunque; facilissimo da usare, sia adulti che adolescenti si possono cimentare nella creazione di brevissimi video senza troppi problemi. Ciò che basta è infatti scaricare l’applicazione, compatibile con ogni sistema operativo, iOS e Android. Una volta comparsa sulla home del proprio dispositivo, TikTok è pronta ad essere utilizzata!

Aperto il social, troverete una pagina equivalente alla home di Facebook o di Instagram, dove appariranno i post delle persone che seguite o semplicemente i video più ricercati sull’app. Chiaramente ogni utente, una volta iscrittosi, ha la possibilità di creare a sua volta tiktoks con le sue canzoni preferite e di seguire le persone che preferisce.

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A fronte di una maggioranza di utenti compresa tra i 10 e i 18 anni, TikTok presenta, come ogni social network, lati negativi e positivi.

Cominciando dagli aspetti positivi, si può rilevare la creatività che incentiva in ogni persona che lo utilizza, che facendo sketch, doppiaggi di scene prese da film e serie tv o cantando in playback le proprie canzoni preferite trasmette allegria e risate, ma, soprattutto, ha la possibilità di dare sfogo alla sua fantasia !

È una piattaforma che fa divertire più e più persone, regalando anche successo a molti utenti che cominciando ad avere molti follower e like riescono ad arrivare anche a organizzare eventi dove incontrare i propri fans o altri “tiktokers”.

I contro possono riguardare i canoni di bellezza, che i giovani più influenzabili cercano di emulare ossessivamente. I più adulti, o semplicemente i ragazzi che non rientrano in questi canoni, molto spesso vengono violentemente criticati: ciò, oltre ad alimentare un senso di apparenza e superficialità, porta alla paura per le proprie imperfezioni e al timore di giudizi negativi.

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Al di là di dati statistici e oggettivi, vengono spesso espresse opinioni sul nuovo social network, per lo più contrastanti tra loro: per questo abbiamo posto qualche domanda ai nostri amici e alle persone che ci seguono sui social riguardo TikTok. Questo è quello che ci hanno risposto.

Vittoria, 15: “Lo reputo come qualcosa di stupido: mettersi davanti al telefono a fare dei balletti è davvero ridicolo”.

Greta, 17 : “Trovo che esistano sia pro che contro. Come contro c’è il fatto che si diventi in un qualche modo famosi senza avere un vero e proprio talento; molte persone creano attorno a loro un piccolo mondo di ragazzine adoranti pur non facendo nulla e questo li rende arroganti e superbi. Trovo invece divertente poter vedere video di persone che vivono dall’altra parte del mondo, conoscere tramite i loro sketch la vita in posti lontani e magari anche fare qualche amicizia a distanza!”.

Beatrice, 15: “Penso sia sopravvalutato, la gente ci spende intere giornate. Va bene fare un video divertente, ma oramai sono tutti dipendenti!”.

Ludovica, 17: “Secondo me è un social che si presta a diverse personalità; ad alcuni cui piace mostrarsi, altri fanno semplicemente video per puro divertimento personale mostrando, la propria espressività senza paura dei commenti altrui. È un social che ci permette di salvare in piccoli video musicali momenti della nostra adolescenza, che essendo molto breve è bella da ricordare nei suoi particolari. Come tutti i social può essere fonte di insulti, ma a questo proposito credo che sia una pecca che riguarda tutte le app di questo tipo. Inoltre credo che in base all’atteggiamento che si adotta (ognuno ovviamente fa ciò che vuole), a volte si rischia di ricevere insulti poco gradevoli”.

E voi come la pensate?

Il cuore tossico di Taranto: l'Ilva

di

Federica Angotzi

Dando uno sguardo al titolo lo collegherete subito alla tragica e dannosa storia che si nasconde dietro a questo semplice nome: stiamo parlando dell’Ilva, una delle più grandi ed importanti acciaierie d’Europa e mezzo fondamentale per l’economia italiana. Fin dalla sua fondazione, ad opera di illuminati industriali del nord, essa dà lavoro, crea ricchezza ed è uno dei fiori all'occhiello dell'Italia del boom economico.

Durante la prima guerra mondiale acquisì aziende cantieristiche ed aeronautiche, ma gli ingenti investimenti e conseguenti debiti misero l’Ilva in gravi difficoltà finanziarie. Successivamente la società passò sotto il controllo pubblico impiantando stabilimenti a Genova, Taranto e Napoli. Negli anni sessanta la società diventò uno dei maggiori gruppi dell’industria di stato. A fine anni ottanta, con l’inizio della crisi del mercato, iniziarono le traversie enonomico-finanziarie, finché nel 1995 il polo siderurgico di Taranto fu ceduto al gruppo privato “Riva”.

Nel 2012 un’inchiesta per reati ambientali e di inquinamento portò la procura di Taranto ad ordinare il sequestro degli impianti dell’area a caldo. Per salvaguardare lo stabilimento e l’occupazione, lo Stato avviò una procedura di commissariamento dell’azienda e avviato una gara internazionale per una riassegnazione della stessa. Nel novembre del 2018 ha cambiato proprietà e preso il nome di “ArcelorMittal Italy”. Nel gennaio 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto i ricorsi di 180 cittadini che vivono nei pressi dello stabilimento di Taranto e condanna l’Italia per non aver tutelato il diritto alla salute dei cittadini.

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L’impatto dell’impianto dell’Ilva che ha sull’ambiente è potenzialmente devastante. Nel porto di Taranto attraccano circa 800 navi all’anno destinate all’Ilva. Dal porto il minerale di ferro viene trasportato lungo dei nastri trasportatori lunghi decine di chilometri fino ai parchi minerari dello stabilimento formando delle montagne alte anche 20 metri che occupano una superficie grande come 90 campi da calcio. Questi parchi minerari sono tutt’ora a cielo aperto e ciò significa che in presenza della minima quantità di vento, oppure quando il materiale viene mosso, enormi quantità di polveri di ferro si disperdono nell’aria inquinando pesantemente l’ambiente circostante. I parchi, inoltre, si ergono su suolo non impermeabilizzato, rendendo perciò facile la contaminazione della falda sottostante.

Secondo la perizia chimica dallo stabilimento Ilva si diffondono sostanze pericolose per la salute dei lavoranti e della popolazione di Taranto; la perizia epidemiologica commissionato dall’Istituto nazionale di sanità dei territori e degli insediamenti sottoposti a rischio di inquinamento (pubblicata nel 2010 e nel 2012) ha accertato il nesso tra le emissioni e il grande aumento di tumori per operai dell’azienda e popolazione del posto.

Sulla base di quanto sancito dalla Convenzione Europea, lo Stato Italiano aveva e ha l’obbligo di adottare tutte le misure in concreto necessarie a prevenire e porre rimedio alle violazioni nonché a sanzionare coloro che le hanno commesse. Eppure, nonostante le gravi violazioni commesse dall’azienda, lo Stato Italiano ha ritardato l’adozione di misure di precauzione per contenere i rischi derivanti dall’esposizione alle emissioni inquinanti. Ciò si deve essenzialmente al peso economico che questi complessi siderurgici continuano ad avere per l’Italia, paese tra i maggiori produttori d’acciaio del mondo.

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La Corte costituzionale nel marzo 2018 ha dichiarato che “il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili”. La storia dell’Ilva merita di essere raccontata per sottolineare come, pur in un paese altamente industrializzato e dotato di un complesso quadro legislativo, nonché di un potere giudiziario indipendente, sia possibile che una tale situazione sopravviva per decenni alimentata dalla necessità occupazionale e di sviluppo economico.


Fonti di riferimento:

La nostra distorta concezione del tempo

di

Giulia De Carlo

Carlo Rovelli è uno scrittore italiano che si occupa di divulgazione scientifica e un fisico teorico, il cui campo di ricerca specifico è la gravità quantistica a loop.

Nel 2017 ha pubblicato, per i tipi di Adelphi, un libro dal titolo L’ordine del tempo, ispirandosi alla celebre frase di Anassimandro: “Le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità e si rendono giustizia secondo l’ordine del tempo”.

Nel testo, Rovelli procede in modo scrupolosamente ordinato a spiegare cos’è il tempo. Comincia abbattendo le false certezze costruite dall’uomo nel corso dei secoli, spiegando, per esempio, che non può esistere un adesso comune all’intero universo, poiché in ogni luogo il tempo ha un ritmo diverso. Allo stesso modo Rovelli “smantella” la differenza tra passato e futuro, invitandoci a pensare che essa si riferisca alla nostra visione del mondo; se si osserva lo stato microscopico delle cose, infatti, la discrepanza tra passato e futuro scompare.

Successivamente espone le contrastanti idee di Aristotele e Newton riguardo a tempo e spazio, concludendo che si può trovare un nesso tra i loro pensieri solo grazie alle geniali intuizioni di Einstein: tanto è vero che il tempo fa parte di una complessa geometria, legata alla geometria dello spazio.

In seguito tratta le tre scoperte di base della meccanica quantistica: granularità, indeterminazione e aspetto relazionale delle variabili fisiche. Ognuna di queste demolisce ulteriormente ciò che restava della nostra idea del tempo. Il tempo non è unico, infatti, non è orientato: non vi è differenza tra passato e futuro nelle equazioni elementari del mondo, e, nell’universo, non c’è niente che possiamo chiamare presente.

Partendo da qui, si cimenta nella spiegazione di com’è il mondo senza la variabile tempo. L’assenza della quantità "tempo" nelle equazioni fondamentali non indica un mondo immobile, ma piuttosto che gli avvenimenti non si dispongono necessariamente lungo la linea del tempo newtoniana. Si tratta di una smisurata e disordinata rete di eventi legati gli uni agli altri. Parliamo di un mondo di avvenimenti, non di cose.

Lo scienziato passa quindi a esaminare la nostra visione del mondo e del tempo, chiarendo che i fenomeni meccanici, cioè i fenomeni in cui non è presente il calore, sono sempre reversibili. Quando invece si produce calore, avviene un fenomeno irreversibile, che distingue il passato dal futuro. È pertanto il calore a compiere tale distinzione. Si parla allora di “tempo termico”. Rovelli ipotizza che potremmo appartenere a un sottoinsieme dell’universo in cui l’entropia (passaggio da uno stato di equilibrio ordinato a uno disordinato) sia bassa in una direzione del nostro tempo termico. L’orientamento del mondo è pertanto reale, ma il modo in cui lo percepiamo è dovuto solo alla nostra prospettiva; l’entropia aumenta, rispetto a noi, con il nostro tempo termico. In ultima analisi, ognuno di noi può parlare di un solo tempo: il tempo della propria esperienza.

Rovelli ha mostrato un’ottima padronanza della materia e della lingua italiana in questo libro, riuscendo a esporre argomenti complessi con un linguaggio semplice. Ne ho apprezzato ogni capitolo e mi ha dato modo di approfondire argomenti a me prima ignoti.

Spero possa piacere e affascinare anche qualcuno di voi!

Hong Kong e il sentimento anti-cinese

di

Leonardo Acciari e Francesco Di Stefano

“Se avete preso per buone / le "verità" della televisione, / anche se allora vi siete assolti / siete lo stesso coinvolti”: così cantava De André nel 1973, riferendosi al maggio parigino; non sapeva, però, che questi versi sarebbero stati ancora attuali se applicati alla situazione di Hong Kong .

Hong Kong è sempre stata in una situazione geopolitica complicata, alternativamente sotto il dominio di inglesi e cinesi; l’accordo definitivo a riguardo fu quello del 1997, formalmente conosciuto come “Hong Kong’s handover”, nel quale il paese venne ceduto dall’Inghilterra alla Cina, già sotto l’attuale governo dittatoriale. Gli abitanti di Hong Kong in poco più vent’anni si sono dovuti abituare a una situazione completamente diversa: buona parte della popolazione non si sente assolutamente cinese, né si rispecchia nelle leggi e nei valori dello stato. D’altronde la situazione tra Hong Kong e la Cina non è mai stata rose e fiori: nel 1989 la popolazione di Hong Kong protestò contro la famigerata strage di Piazza Tiananmen; inoltre ogni 1 luglio, a partire dalla cessione del 1997, viene organizzata una protesta contro l’accordo.

Migliaia di cittadini sono scesi nelle strade della città-stato asiatica per chiedere che venisse ritirata definitivamente la proposta di legge che avrebbe facilitato la consegna di “sospetti” alla madrepatria cinese. Inizialmente i manifestanti chiedevano esclusivamente questo, ma dopo un’escalation della gravità delle tattiche utilizzate dalla polizia per disperdere i manifestanti (il 12 giugno) e a seguito della sospensione del progetto di legge il (15 giugno), l’obiettivo dei contestatori è stato quello di vedere soddisfatte le seguenti richieste:

- ritiro completo del disegno di legge di estradizione;

- reindirizzamento della caratterizzazione negativa della manifestazione, percepita erroneamente come "rivolta";

- rilascio ed esonero di manifestanti arrestati: i manifestanti considerano gli arresti motivati politicamente; mettono anche in dubbio la legittimità della polizia che arresta i manifestanti negli ospedali attraverso l'accesso ai loro dati medici riservati in violazione della privacy dei pazienti;

- creazione di una commissione d'inchiesta sulla condotta della polizia e sull'uso della forza durante le proteste: mentre il numero di accuse circa brutalità e cattiva condotta della polizia ha continuato ad aumentare, alcuni manifestanti di Hong Kong hanno iniziato a chiedere lo scioglimento delle forze dell’ordine;

- dimissioni di Carrie Lam (capo esecutivo di Hong Kong) e concretizzazione del suffragio universale per le elezioni del consiglio legislativo e per l'elezione dell'amministratore delegato.

Le proteste sono iniziate il 15 marzo 2019, ma proprio da giugno l’affluenza alle manifestazioni ha iniziato ad essere significativa, con numeri che arrivano alle centinaia di migliaia. A fronte dei più recenti disordini, risalenti solo a due giorni fa (5 gennaio 2020), restiamo in attesa di capire gli sviluppi della situazione.


*Link utili:

https://en.wikipedia.org/wiki/2019%E2%80%932020_Hong_Kong_protests

Sulle responsabilità e i danni degli incendi in Australia

di

Antea Bisicchia e Diego Marri

Nelle ultime settimane si è molto discusso degli incendi in Australia sia nei telegiornali che sui social network. Si stima che i fuochi abbiano danneggiato all’incirca 10 milioni di ettari di terra nella zona sud-est del Paese, dal New South Wales a Victoria, e sicuramente quel numero è destinato ad aumentare, in quanto le fiamme ancora attive non sono poche. Non sono chiare le origini di questo disastro, sebbene siano state denunciate 180 persone e 24 siano state arrestate con l’accusa di aver appiccato i fuochi, propagatisi a seguito del clima secco e caldo. È comunque inevitabile pensare che le cause siano da attribuire al riscaldamento globale e ai numerosi fulmini che colpiscono foreste di eucalipto e gruppi di arbusti: infatti, questa catastrofe ha colpito le zone popolate nel mese di dicembre e all'inizio di gennaio, anche se i vigili del fuoco stanno cercando di domare le fiamme già dallo scorso ottobre.

In Australia negli ultimi due anni le piogge sono state scarse, provocando così siccità e incremento delle temperature, che, a loro volta, hanno portato la vegetazione e i terreni alla disidratazione. Le fiamme sono divampate in territori desolati e inabitati, ma, trasportate dai venti, sono giunte fino a pochi chilometri da metropoli come Sydney e Melbourne. I vigili del fuoco sono impossibilitati a placare i fuochi, che raggiungono l’altezza di decine di metri, e anche l’aiuto di mezzi aerei non fornisce un supporto sufficiente.

L’impatto ambientale degli incendi in Australia è allarmante: da ottobre a oggi si contano quasi un miliardo di animali morti, tra cui numerosissimi koala, uccelli, canguri e altri mammiferi e anfibi. Inoltre, il suolo bruciato è terreno in meno per queste povere creature, che avranno ulteriori difficoltà a riprodursi. Oltre a ciò, sono da aggiungere alla lista delle vittime anche diecimila cammelli: infatti su ordine del capo della comunità degli aborigeni di Anangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara, questi animali sono stati uccisi per impedire loro di consumare l'acqua di quella regione, già devastata dalla siccità.

Se facciamo invece la conta delle persone che hanno perso la vita nel corso di questi mesi, arriviamo a 24, mentre sarebbero più di 3 mila le abitazioni semidistrutte o completamente abbattute dalle tempeste di fuoco. Anche il fumo è una minaccia da non sottovalutare: esso rende l’aria pericolosa da respirare e contribuisce all’aumento della CO2 presente nel nostro pianeta.

Ma andiamo ad analizzare anche l’ambito politico della questione.

Le domande che più volte sono state poste, di fronte alle recenti devastazioni dei boschi australiani, sono: la politica australiana ha delle responsabilità? Potevano fare di più o agire diversamente? La risposta è sì: in base agli accordi di Parigi, l’Australia aveva dichiarato che si sarebbe impegnata a diminuire del 28% le sue emissioni entro il 2030, cifra che avrebbe dovuto essere facilmente raggiungibile, stando a quanto dichiarato dal governo di quel Paese. Mentre, perlomeno dal 2018, si sa che questi accordi non verranno rispettati.

Il problema è che l’economia australiana è basata sull’estrazione ed esportazione del carbone, soprattutto in Giappone e Cina: questo produce conseguenze opposte all’obiettivo della riduzione delle emissioni. In considerazione delle entrate economiche raggiunte proprio grazie a questa attività, il governo si è dimostrato piuttosto restio al mantenimento della promessa fatta a Parigi, che si è trovata così a essere disattesa.

Ma la responsabilità non è solo dell’Australia: tutti i Paesi del mondo sono coinvolti. Stiamo, infatti, inquinando a livelli smisurati, quindi i governi sono costretti a organizzarsi a livello globale per risolvere problematiche che incidono su tutto il pianeta. Calamità di questo tipo, in futuro, potrebbero colpire a largo raggio: nel nostro Paese, per esempio, potrebbe essere Venezia a subire i danni peggiori, finendo sommersa dall’acqua, come poco tempo fa stava succedendo.

Speriamo che la spiegazione sia stata esaustiva e chiara.

Grazie per la lettura!

Harry e Meghan al centro del gossip

di

Alice Donini e Aurora Chiarelli

Con il passare degli anni, i reali inglesi sono stati al centro di diversi scandali. Ora che gli occhi di milioni di persone sono puntati su Harry e Meghan, i giornali non fanno che fornirci informazioni e dettagli sulla loro vita privata, sottolineandone la decisione di rinunciare ai privilegi nobiliari. Ma andiamo con ordine.

In una notte londinese del 2016, fu organizzato un appuntamento “al buio” tra il principe Harry (secondogenito di Carlo e Diana) e l’attrice americana Meghan Markle: la scintilla tra i due scoppiò all’istante. Si diffusero subito le prime critiche rivolte all’attrice per via delle sue origini americane; eppure, senza farsi troppi problemi, nel maggio 2018 i due celebrarono le nozze diventando d’ufficio duchi di Sussex: la cerimonia si è tenuta nella Cappella di San Giorgio presso il Castello di Windsor, con la benedizione della Regina e la partecipazione di tante celebrità (tra gli altri, George Clooney).

Dopo le nozze, i problemi non hanno tardato ad arrivare. In un primo momento sono sorti tra Meghan e il personale: i media sostenevano che fossero dovuti al carattere dispotico e capriccioso della donna. In seguito ci sono state frizioni con la cognata Kate: la ferita, ancora aperta, pare sia stata causata dall’atteggiamento anticonformista della duchessa, forse non ancora abituata alla vita da reale.

Il massimo scalpore si è avuto a metà gennaio, quando i due hanno annunciato tramite un post su Instagram la propria volontà di “abbandonare” la famiglia reale, andando a vivere in Canada e rinunciando ai vantaggi e agli oneri che spettano ai membri della casata degli Windsor. Anche questa volta, la Regina Elisabetta ha manifestato il proprio appoggio. William, al contrario, l’ha ritenuta una scelta egoistica, specie per il grande aiuto che aveva dato a Harry nei momenti più bui, sempre coadiuvato dalla moglie Kate.

Molti giornalisti pensano che sia un “piano” architettato da Meghan nei minimi dettagli: la definiscono una persona “ingannevole” e sostengono che, nel giro di qualche anno, lascerà Harry e lo costringerà a tornare in Inghilterra a mani vuote. Come chi sostiene il contrario, secondo noi Meghan ha scelto di abbandonare l’Inghilterra perché, evidentemente, non si sentiva a proprio agio per il fatto di dover rispettare regole ferree ed essere obbligata a sottostare alla corona. Dal Canada ci continuano ad arrivare notizie sulla loro nuova vita, che sembra rose e fiori. Chissà come andrà a finire?

Un boldriniano in Nuova Zelanda

di

Victor Mondini

Quando l’anno scorso ho deciso di trascorrere sei mesi all’estero, avrei potuto optare per tantissimi paesi, come gli Stati Uniti o il Canada. Ho scelto la Nuova Zelanda per il mio desiderio di scoprire un paese che in pochi - tra le persone di mia conoscenza - avevano avuto il coraggio di visitare per un periodo tanto lungo. In fondo lo capisco: se ci pensate, la Nuova Zelanda è dall’altra parte del mondo rispetto all’Italia.

La mia famiglia ed io, di comune accordo, abbiamo fatto questa scelta coraggiosa con la consapevolezza di ciò a cui sarei andato incontro. Ora che sono qua, posso dirvi che è una scelta che ripeterei, perché la Nuova Zelanda è un paese bellissimo con dei cittadini accoglienti e ben disposti.

Non nego di preferire lo stile di vita italiano e in più mi mancano la famiglia e i miei amici: se dicessi il contrario risulterei soltanto un ipocrita. Ormai è trascorso un mese e mezzo dal mio arrivo e, sinceramente, mi è passato molto velocemente: cerco di valutare tutti gli aspetti positivi ma anche quelli negativi; dagli aspetti positivi sto ricavando consapevolezza ed esperienza, ma è grazie a quelli negativi che so di poter crescere caratterialmente.

Ammetto che in questo ultimo periodo ci sono stati momenti in cui ho pensato all’Italia con nostalgia. In quei casi ho trovato molto utili i consigli della mia host mum, che mi ha invitato a vivere le mie esperienze al meglio assicurandomi che nel giro di pochi mesi dal mio ritorno avrei ripensato con nostalgia non più all’Italia, ma alla Nuova Zelanda. Le sue rassicurazioni mi hanno dato la spinta giusta per cercare di apprendere il più possibile dalla mia avventura.

Qui ho fatto molte amicizie con ragazzi da tutto il mondo, specialmente del Sud America (e in particolare brasiliani). Ho conosciuto Leonardo, che viene da Curitiba (in Brasile) e con cui ho stretto una buona amicizia da subito grazie alla nostra passione in comune per il calcio: Leonardo è un grandissimo tifoso dell’Atletico Paranaense, squadra che milita nella serie A brasiliana.

Ho notato che per alcuni ragazzi è faticoso parlare con la gente del posto; per fortuna non ho lo stesso problema perché gioco nella prima squadra di basket dell'istituto e devo relazionarmi con molte persone. Sono contento della scelta dell’allenatore di portarmi nella squadra, specie perché mi è stato riferito che da ben quattro anni un ragazzo "internazionale" non entrava a far parte del team.

Per ora mi sembra un buon inizio; spero di trovare altri motivi di crescita e sono certo che accadrà, perché oltretutto il posto merita di essere visto e la gente è favolosa. Certo, mi auguro di divertirmi, ma anche di migliorarmi come ragazzo.

Attualità inattuale: la Brexit

di

Francesco Di Stefano

Della Brexit tutti hanno sentito parlare, eppure credo che pochissime persone si siano informate appieno sull’argomento e invece molti ne parlino a sproposito, essendo una questione difficile e non così banale come potrebbe sembrare.

Per Brexit intendiamo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, iniziata a giugno del 2016, quando si è tenuto un referendum nel quale il leave ha vinto con il 52%. Per capire meglio, però, il perché di questa scelta è necessario fare un passo indietro: cos’è l’Unione Europea?

È un’unione politica ed economica che comprende 27 Stati e che permette il libero transito di merci senza dazi, la libera immigrazione, educazione universitaria e lavoro in qualsiasi stato si scelga.

La motivazione a favore del remain era abbastanza ovvia: il non voler perdere tutti gli importanti privilegi socioeconomici ottenuti grazie alla Ue; invece le motivazioni per il leave erano più subdole: le più comuni erano sicuramente il fatto che l’Unione Europea “minacciasse” la sovranità inglese e che imponesse troppe regole alle imprese. Queste considerazioni hanno guidato il voto delle masse, ma è probabile che il maggior fattore della vittoria del leave sia stata l’immigrazione; infatti dopo la crisi economica del 2008, percepita specialmente negli Stati che avevano già adottato l’euro come valuta, moltissimi cittadini europei in difficoltà hanno optato per spostarsi in un Regno Unito ancora florido. Inoltre vanno considerati anche i flussi migratori africani e asiatici e c’è chi sostiene che sia sbagliato ammettere ogni immigrato proveniente da tutti gli Stati europei, mentre bisognerebbe ammettere solo chi può contribuire in modo positivo alla società.

Dal giorno di quel referendum, sono passati tre anni strani e imprevedibili nel parlamento inglese: successioni di premier, discussioni e proteste erano all’ordine del giorno; infatti il partito di destra, che in teoria ha vinto il referendum, non avendo la maggioranza in parlamento, non è riuscito a far passare nessuna legislazione riguardante la Brexit; si è avuta una svolta quando, il 12 dicembre del 2019, il partito conservatore di destra ha ottenuto una grandissima vittoria alle elezioni politiche e ha quindi ottenuto la maggioranza parlamentare. Grazie a essa ha finalmente fatto passare ufficialmente la Brexit il 31 gennaio 2020 e avrà tempo fino alla fine dell’anno solare per discutere di come saranno i rapporti tra UK e Unione Europea.

Se la Brexit sia stata una mossa azzardata o il più grande errore mai fatto dal Regno Unito, lo scopriremo solo col tempo.

Vogliamo davvero esserne i protagonisti?

di

Aurora Gambacorta

L’epoca che tutti noi stiamo vivendo è caratterizzata da un continuo scoprire, rinnovare e modernizzarsi scientifico e medico. Verrebbe spontaneo pensare che un’era protagonista di una tale rivoluzione tecnologica sia vissuta da una società brillante e mentalmente proiettata verso il futuro, quando non è affatto così.

Se esistesse una qualche forma di vita intelligente al di fuori del nostro pianeta, questa giudicherebbe senza ombra di dubbio l’umanità paragonandola ad un dispositivo elettronico: a suo agio negli ambiti scientifici e matematici, ma priva di valori e di qualsiasi senso morale.

Il quesito che chiunque dovrebbe porsi è: "come mai la violenza di genere non ha ancora cessato di esistere?". La società di cui facciamo parte è succube e vittima dell’ignoranza, e le nostre menti sono rese prigioniere dai pregiudizi e dagli stereotipi.

Non si tratta dunque di un’era di miglioramenti e di innovazioni, ma di chiusura mentale e di odio. Vogliamo davvero esserne i protagonisti? L’uomo e la donna, come il "nero" ed il "bianco", appartengono ad un’unica specie, quella umana.

Ogni singolo giorno si sente parlare di molte terribili violenze subite da donne picchiate, violentate, sfigurate, ed uccise.

Questi atroci eventi vedono come scenario il mondo intero; non vi è un singolo paese dove non si verifichino degli episodi di violenza di genere. Se rivolgessimo la nostra attenzione alle civiltà più povere e radicate nelle proprie tradizioni ed usanze, potremmo elencare un’infinità di atrocità facenti parte del quadro della violenza sulle donne: l’infibulazione in Africa, il promettere in sposa le bambine in molti paesi islamici, la pratica del fasciare i piedi alle neonate in Cina per far sì che da adulte appaiano belle agli occhi degli uomini, ma causando loro molte sofferenze.

Simili realtà sono da noi pensate come lontane e distanti, quando invece prendono corpo proprio sotto il nostro naso. La donna come oggetto, la donna come non detentrice del diritto di essere rispettata e considerata alla pari dell’uomo: questa è una concezione del genere femminile che, consciamente o no, la maggior parte degli uomini ha.

Per porre fine a questa disparità sarebbe sufficiente un piccolo impegno da parte di tutti; basterebbe dare sostegno alle eroine che tutti i giorni si battono per i diritti del genere femminile, diffondendo questo messaggio: uomini e donne sono uguali.

Quando le fondamentali libertà civili non sono garantite

di

Antea Bisicchia

Giulio Regeni era un ragazzo di Udine, studente di dottorato all’università di Cambridge. Per le sue ricerche, si è trovato a viaggiare molto, oltre che in Gran Bretagna, anche negli Stati Uniti e in Egitto. Si era recato in quest’ultimo paese condotto dai suoi studi sui sindacati indipendenti egiziani per l’appunto, studi che stava portando avanti presso l’Università americana del Cairo. Lì lavorava per cercare di descrivere come fosse cambiata la situazione delle associazioni sindacali egiziane, in seguito alla rivoluzione avvenuta in quel paese africano nel 2011.

Il 25 gennaio del 2016, però, Giulio scompare. Avrebbe dovuto incontrare degli amici per festeggiare il compleanno di uno di loro, ma non è mai arrivato a quella festa. Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il suo corpo viene ritrovato con evidenti segni di mutilazioni, torture e contusioni, oltre che coltellate, tagli, bruciature e multiple fratture ossee. L’esame autoptico, condotto da medici italiani ed egiziani, ne ha stabilito le cause della morte, dovuta a un’emorragia cerebrale e alla frattura di una vertebra cervicale.

Oltre a false dichiarazioni da parte del generale egiziano Shalabi e della polizia stessa, si è fatta strada l’ipotesi secondo la quale Regeni sarebbe stato ucciso da uomini assoldati dal controspionaggio egiziano.

Nonostante molteplici inchieste ed indagini, a distanza di quattro anni dalla sua morte, ancora non sono stati trovati i responsabili, ma sono tante le campagne nate per richiedere l’apertura di nuove indagini, tra cui la campagna “Verità Per Giulio Regeni”, promossa da Amnesty International, associazione da sempre impegnata per la difesa dei diritti umani.

Se si parla di Giulio Regeni, dati i recenti fatti di attualità, il pensiero non può non correre anche a Patrick Zaky, lo studente egiziano che sta svolgendo un master all’Università di Bologna, e che è stato arrestato all’aeroporto del Cairo, poiché stava scrivendo una tesi di laurea sull’omosessualità. Un noto conduttore egiziano, Nashat Dahi, lo ha descritto come un ragazzo andato a studiare all’estero solo per insultare lo stato egiziano, sottolineandone la collaborazione con il rappresentante di un’associazione di omosessuali, come se già questo fosse in sé qualcosa di criminale. A suo dire, Zaky sarebbe stato arrestato per le critiche mosse verso il governo egiziano e per le sue posizioni riguardo all’omosessualità. Dopo essere stato arrestato, il ragazzo è stato torturato per diciassette ore di fila, con colpi e scariche elettriche in tutto il corpo. Ora si trova in stato d’arresto in una struttura sconosciuta. Si presume che rischi la condanna all’ergastolo e che la custodia cautelare possa durare fino a due anni.

Il ministro italiano per i Rapporti con il Parlamento ha dichiarato che il governo continuerà a dare priorità al caso, sostenendo che quest’ultimo ricorda troppo da vicino la tragica vicenda di Giulio Regeni. Anche i genitori di Giulio si sono esposti, auspicando che il futuro del caso non sia similare a quello di loro figlio e chiedendo al governo di mettere in atto tutto ciò che non è stato fatto per Giulio.

La difficile situazione dei migranti tra Grecia e Turchia

di

Alice Donini

Prima di iniziare a parlare di quello che sta succedendo sul confine greco-turco e nell’isola di Lesbo, nel Mar Egeo, bisogna fare chiarezza su alcuni fatti. I rapporti che ci sono tra Grecia e Turchia sono sempre stati tesi e non sono una novità. In realtà a subire maggiormente le tensioni tra queste grandi potenze sono di certo i civili. Il presidente turco Erdoğan ha “invitato” i migranti, precedentemente accolti nel suo Paese, a dirigersi verso l’Europa, per trovare una vita migliore; così facendo, ha messo in difficoltà il nostro continente, oltreché gli stessi profughi già in una situazione davvero precaria.

Complessivamente sulle isole greche vivono più di quarantaquattromila persone in fuga dalla guerra, persone che non riescono a ottenere lo status di “rifugiato” e si trovano in condizioni critiche; sulla sola Lesbo ce ne sono circa ventimila. La situazione peggiora di giorno in giorno: l’estrema destra raccoglie intorno a sé cittadini per protestare contro l’edificazione di nuovi centri di accoglienza. Lo scopo degli estremisti è quello di intimorire i gruppi di attivisti e fare in modo che sospendano i soccorsi: per esempio di recente hanno compiuto vari atti di vandalismo, appiccando il fuoco a un centro, minacciando telefonicamente persone che erano lì per aiutare i migranti, bisognosi di cure.

Secondo un’opinione diffusa, il governo non è intervenuto per fermare queste rivolte e sembra difficile che dia dei permessi per trasferire i migranti sulla terraferma.

Uno dei maggiori campi d’accoglienza di Lesbo è la Moria, dove vengono ospitate circa quattordicimila persone, che vivono ammassate in condizioni pessime; stessa cosa si verifica nel nord dell’isola, dove, anche se vengono allestite nuove tende, queste restano in numero insufficiente rispetto al numero di persone da accogliere e di conseguenza molti si trovano a dormire all’aperto o per strada, e questo accade anche a famiglie con bambini molti piccoli.

Una notizia che ha fatto subito il giro del mondo è stata quella della morte di un bambino siriano di soli quattro anni, annegato durante un tentativo di sbarco: gli arrivi sono troppi e la guardia costiera sul litorale greco ha aperto il fuoco senza pietà contro i gommoni.

La situazione sulla terraferma è più o meno la stessa: il primo ostacolo che i migranti incontrano nel loro viaggio è il fiume Evros, confine naturale tra Grecia e Turchia. In parecchi tentano la traversata, ma sull’altra sponda incontrano i greci che lanciano lacrimogeni e usano bastoni per fermarli, causando molte vittime; solo in pochi riescono a passare.

Come già anticipato, il piano di Erdoğan è quello di ricattare l’Europa, tramite la minaccia dell’invasione dei profughi, per ottenere dagli stati europei un concreto appoggio nel conflitto siriano in cui è invischiato. Il suo intento è quello di dividere gli Stati europei, dato che manca completamente una linea comune sulle questioni migratorie e ancora ben poco è stato fatto per cercare soluzioni che siano percorribili sia dal punto di vista umanitario che economico.

In barba agli haters: una riflessione su Nadia Toffa

di

Giulia Lelli

Una donna energica, dolce e spericolata. Una donna che ha affrontato le persone di petto, senza mai arrendersi e difendendo le proprie fragilità: questa era Nadia Toffa.

I suoi genitori le dissero di averla chiamata così in onore della grande ginnasta Nadia Comaneci: anche grazie a questa rivelazione, avvenuta quando Nadia aveva appena quattro anni, nacque la sua passione per le acrobazie. Da quel momento stava sempre con le gambe per aria, tra ruote, verticali, ponti all’indietro, candele, trabeazioni, volteggi e flick. Era piccola, ma già allora quelle abilità le davano la sensazione di essere speciale. Quando, a nemmeno cinque anni, sua madre la presentò ai provini di una piccola e agguerrita società ginnica, l’allenatore rimase stupito dalle sue abilità: Nadia partì subito come agonista, allenandosi per cinque anni quattro ore al giorno. Questo percorso ebbe fine quando, una sera, tornò a casa dall’allenamento con le gambe ricoperte da manate rosse: l’allenatore l’aveva invitata a provare un esercizio, assicurandole che l’avrebbe aiutata. Nadia si fidò, ma cadde a terra: le successive lacrime non furono causate dal dolore, ma dall’assenza dell’allenatore. Oltre al fatto che la madre, sorpresa dai modi bruschi dell’uomo, la ritirò dagli allenamenti, la ragazza restò segnata dal comportamento dell’uomo. Quello che le lasciò la ginnastica artistica è rimasto nel suo modo di comunicare: quando parlava, camminava o rideva, tutto il suo corpo era coinvolto, per una fisicità che lei stessa definiva “totale e trascinante”.

Risentì anche dell’insegnamento del padre, che la spronava a primeggiare. Nadia fece il suo primo anno di università a Bologna, città, rispetto a Brescia, in cui le esperienze erano a portata di mano. Studiava Lettere ma aveva bisogno di guadagnare qualche soldo. Un giorno vide una locandina appesa in una bacheca della facoltà: era un concorso per aspiranti attori. Bisognava presentarsi con un monologo e il migliore avrebbe vinto 300.000 lire. Ebbe l’idea di scrivere un suo monologo che la rappresentasse: la storia di una ricercatrice cubana che, scoprendo un vaccino potentissimo, decide di diffonderlo nel mondo, ma sarà costretta a lasciare Cuba. Arrivato il giorno dell’audizione, i ragazzi che la precedettero recitarono Arthur Miller, Samuel Beckett e Shakespeare: la giovane iniziò a sentirsi fuori luogo. Una volta arrivato il momento di decretare il vincitore fu annunciato proprio il suo nome: una vittoria dovuta all’emozione provata dai giudici per la sua semplice ma profonda interpretazione.

In seguito la Toffa lavorò come barista e cameriera, fece pulizie nelle banche di notte, fu hostess alle fiere, conduttrice per televisioni minori e pubblicizzò prodotti di ogni tipo, dallo yogurt alle calze. Si identificava come una stacanovista: se si fosse risparmiata per lei sarebbe stato come sprecarsi.

Alla sua porta bussò un giorno un rappresentante di aspirapolveri, faceva abbastanza caldo e Nadia gli disse che non avrebbe comprato niente, ma gli avrebbe offerto dell’acqua e un caffè. Si sedettero al tavolo della cucina e Nadia iniziò subito a chiacchierare, raccontandogli dei suoi lavori e dei pochi mezzi a sua disposizione. Il giovane l’ascoltò attentamente e alla fine le disse che, viste le sue capacità e la voglia di non arrendersi mai, sarebbe stata perfetta per il noto programma televisivo “Le Iene”. Da quell’istante Nadia iniziò a pensare a cosa portare a un eventuale colloquio presso la redazione de “Le Iene”, optando per un servizio riguardante un liceo di Brescia. Riuscì quindi a ottenere un colloquio con Davide Parenti, che durante il primo colloquio fu piuttosto spietato, dicendole chiaramente che il servizio faceva schifo e che quello non sarebbe mai stato il suo lavoro. Senza farsi scoraggiare dalle sue parole, la Toffa gli portò un’altra inchiesta e anch’essa ottenne lo stesso risultato. A questo punto, senza arrendersi, preparò un servizio sugli alcol tester portatili che venivano dati in regalo con i settimanali. Davide Parenti, un po’ stufo dei suoi tentativi ma colpito dal suo coraggio, rimase stupito e senza alcuna esitazione le propose di collaborare al programma.

Nel suo primo servizio mandato in onda, Nadia Toffa riuscì a smascherare una serie di feste private non autorizzate in locali in cui si faceva sesso, a volte anche con adulti: il successo ottenuto fu per lei un’emozione. La sua prima vera inchiesta riguardò una farmacista, che denunciò il fatto che la sua titolare truffasse lo Stato in modo continuativo. Era un lavoro inizialmente costituito da appostamenti, che potevano durare anche giorni. Quindi, grazie al suo grande impegno, le diedero l’opportunità di condurre il programma.

Un giorno, nella hall di un albergo di Trieste, Nadia cadde riversa sul pavimento e si ritrovò sull’elicottero del 118. Passò la notte in terapia intensiva e dopo l’intervento i medici la informarono di aver riscontrato un cancro e di averglielo asportato. Dopo un paio di giorni trascorsi in ospedale, la conduttrice si rimise in piedi. La notizia si diffuse ovunque e vi furono moltissime dimostrazioni di affetto e vicinanza da parte di colleghi e fan. Inizialmente il suo capo le disse di rassicurare il pubblico e calmare le acque; la donna accettò, benché non sapesse che ne sarebbe stato della sua vita. Tutta la sua famiglia era scossa, anche perché dopo il primo intervento i medici l’avevano informata del fatto che sarebbe stato necessario un ciclo combinato di radioterapia e chemioterapia: Nadia decise di cominciare, ma senza dirlo a nessuno ad eccezione della madre. Per l’occasione si trasformò in Silvana, una ragazza insicura e timida che doveva andare tutti giorni in ospedale a fare delle terapie. Questa fu una maschera, un costume, che la aiutò ad affrontare il male. Nonostante l’iniziale successo della cura, la zona trattata dalla radioterapia cominciò a farle male e per questo passò notti intere senza dormire. Ad una settimana dalla fine delle cure tornò a condurre “Le Iene” e, come sempre, riuscì, con tutta l’energia che le era rimasta, a non dare nell’occhio.

Chiaramente dovette occuparsi anche della sua figura pubblica. Nessuno sapeva che le avessero diagnosticato un cancro, tanto più che la donna non avrebbe voluto fingere nemmeno un minuto con il pubblico, che le aveva sempre dato fiducia. Prima dell’inizio della nuova stagione decise di parlare con il suo capo e un collega di cui si fidava ciecamente: senza alcun problema discussero su come costruire un discorso per raccontare al pubblico la verità. Quella sera Nadia si prese pochi minuti per parlare della sua malattia e di come la stesse affrontando; il suo discorso fu seguito dagli applausi e dai sorrisi della gente. Il giorno successivo fu sommersa da messaggi di affetto e vicinanza, ma allo stesso tempo dovette fare i conti con quello che la sua dichiarazione aveva alzato. Qualcuno affermò che solo una persona dello spettacolo poteva avere il cancro e guarire in due mesi, come se lei avesse voluto trasmettere il messaggio per cui chi lavora in televisione, essendo ricco, riesce a guarire in tempi record. Qualcun altro, in rete, mise in dubbio che fosse malata. Nadia avrebbe voluto costruire un racconto che infondesse coraggio, avrebbe voluto mandare un messaggio positivo. Decise, inoltre, di non rispondere a numerosi commenti negativi, perché avrebbe solo contribuito ad alzare un polverone.

Tre mesi dopo il primo intervento il dottore le disse che l’esito della risonanza diagnosticava una recidiva. Si sarebbe dovuto effettuare un altro intervento il prima possibile: la Toffa contattò molti specialisti e ricorse ad ogni rimedio possibile. Avrebbe dovuto operarsi al più presto perché c’era il rischio che il tumore crescesse ancora: decise, anche se in condizioni precarie, di partire per un viaggio a Miami. Si riposò, ebbe modo di rigenerarsi e le nuove analisi risultarono perfette per effettuare la seconda operazione. Questa andò meglio di quanto il chirurgo si aspettasse, tanto che il giorno dopo Nadia era già in grado di alzarsi dal letto. La settimana seguente condusse serenamente la diretta de “Le Iene”. Questa volta però ebbe bisogno di proteggersi anche psicologicamente, perché la situazione era cambiata; comunque riuscì, anche in questa occasione, a manifestare tutta la sua energia e l’amore per il suo lavoro.

Nadia era felice quando si alzava ogni mattina, aveva amore per la vita e si godeva ogni singolo momento. Ha ritenuto di parlare al suo pubblico di diversi aspetti della malattia, dipingendola come una specie di giustizia terrena: possono succedere cose orrende, ma è possibile trovare da qualche parte gli strumenti per prenderle in mano e venirne a capo. Il cancro è stato un ponte tra lei e le emozioni più intense. A volte pensava a cosa avrebbe fatto sapendo di avere a disposizione solo poco tempo: non avrebbe fatto il giro del mondo, né si sarebbe lanciata con il paracadute. Forse avrebbe abbandonato le cure, perché non aveva paura di andarsene. Per questo ritengo che la Toffa sia stata per molti un esempio, in grado di trasmettere grandi emozioni a chi la seguiva.