Introduzione 

Con la fine (mai compiuta del tutto) degli imperi coloniali e il conseguente riconoscimento dell’indipendenza delle ex colonie quali stati sovrani, la civiltà umana è entrata in quella che viene definita Era post-coloniale o Età della decolonizzazione. Se da un punto di vista politico e geografico ciò ha avuto degli effetti materiali, dall’altro lato, l’impronta colonialista persiste all’interno delle nostre società sotto le forme più disparate, rimarcando di fatto una divisione escludente del soggetto-uomo-bianco da altri soggetti. Questo insieme di atteggiamenti, valori e modi di conoscere viene definito colonialità.

Every Colony is a Colony è un polittico in sette quadri che traendo spunto da accadimenti e fatti reali tenta un’indagine della colonialità e quindi delle forme di colonialismo più tacite, ad esempio quelle volte all’immaginario (personale e collettivo) contemporaneo. Proprio per tale ragione, i sette movimenti che compongono il testo prendono a oggetto del loro incedere drammaturgico altrettante forme d’arte: cinema, teatro, pittura, musica, scultura, poesia e danza. Le arti, infatti, prima ancora che le caravelle, le armi o il primato tecnologico, preparano all’azione coloniale, in qualche modo, la determinano. Tutto in funzione delle narrazioni di cui si fanno latrici. Narrazioni che il più delle volte concentrano e determinano un’egemonia culturale. 

In questo senso, Every Colony is a Colony, si fa portatore delle microstorie che si imprimono su quelle macro, proponendosi quindi come un’azione imbrattante che tenta di portare in scena un discorso su arte e società in chiave decoloniale.


Sviluppo

Every Colony is a Colony mette lo spettatore di fronte a come le narrazioni vengono create e, di conseguenza, come esse creano le nostre realtà.

Ancora molte delle storie che oggi compongono il nostro immaginario, infatti, portano con loro tutta una serie di atteggiamenti e preconcetti che supportano la costruzione di un Io occidentale, forte, saggio e parametro di giustezza. All’interno di queste narrazioni l’Altro è tabù, inaccessibile, stereotipato. 

In questo senso la performance cerca di manomettere le strutture narrative dominanti accostando questo Io a un Altro che però non è un generico Tu, scorporato e deterritorializzato, ma un chi, un dove, qualcuno con nome e cognome, passato, esperienza.

La performance si divide in due atti che nell’accostarsi fanno maturare questo rapporto dialettico: un radiodramma live e una pièce di danza.

La scelta di creare un radiodramma sta nell'idea di rilevare come il potere occidentale si sia sempre fondato sulla persuasività delle parole, sulla loro forza di creare delle realtà. La centralità della parola (scritta, letta e detta) del radiodramma sviluppa quest’idea ribaltandola: il pubblico è testimone di un viaggio sonoro che attraversa e si imprime sull’intero globo. In contemporanea, infatti, sullo schermo appare un’esplorazione live di Google Earth, intesa in questo senso quale macronarrazione che tutte le altre contiene. L’intento è quello di rendere visibili quelle imbrattature, quegli spostamenti continui verso altre presenze messe a tacere.

La pièce di danza porta ancora oltre questo atto di bonifica, sostituendo alla parola il gesto, il corpo, l’accadere. Guidata dai paesaggi sonori del duo di musica elettronica afrofuturista Drexciya, la performance esplora ritmi, gesti e movimenti che riflettono esperienze vissute fuori dei paradigmi eurocentrici. Corpo, movimento, musica e disegno luci ricreano in scena il fantomatico mondo sommerso di Drexciya, abitato dai figli e dalle figlie mai nat_ delle schiave buttate in mare incinte nel corso della rotta schiavista. Questi esseri umani acquatici hanno imparato a respirare nel liquido amniotico dell’oceano. Nell'apparire di questa utopia possono forse generarsi nuove possibilità.