Note sulla evoluzione temporale dei rapporti tra medicina e pianificazione urbana
Giuseppe Mazzeo, ISMed-CNR
19/03/2020, In progress
Gli oltre duecento anni che vanno dalla fine del Settecento ad oggi sono gli anni della urbanizzazione, della rivoluzione industriale, di quella terziaria ed, infine, dell’economia digitale.
In questo lasso di tempo si sono instaurati rapporti variabili tra medicina, ingegneria sanitaria e pianificazione. A grandi linee possono essere individuare tre periodi. Il primo va dall’inizio dell’Ottocento alla fine dello stesso secolo, il secondo va dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, mentre il terzo si sviluppa nella seconda parte dello stesso secolo. Dalla prima alla terza fase le relazioni tra i tre campi disciplinari si sono via via allentate. È arrivato il tempo ristabilire connessioni più ravvicinate.
1. Il primo Ottocento
Il processo di urbanizzazione successivo alla nascita dell’industria moderna rese necessarie nuove tecniche di intervento sulla città. In questo processo non fu secondario anche la necessità di rendere sicure le città dal punto di vista sanitario con azioni che innalzassero le condizioni di igiene urbana. Questa necessità si trasforma in una spinta senza precedenti per lo sviluppo della pianificazione urbanistica, della moderna medicina e dell’ingegneria sanitaria (Fraja Frangipane, 2011). Nel primo Ottocento questi tre settori compiono un percorso comune con l’obiettivo di ridurre i dannosi effetti sulla salute umana, provocati, in particolare, dalle epidemie.
In questa fase nei settori più sensibili del mondo politico, scientifico ed economico dei paesi europei si riteneva che le condizioni abitative malsane, la mancanza di igiene e di ventilazione adeguata, oltre alle pericolose condizioni di lavoro, aiutassero il diffondersi delle devastanti epidemie di colera e di tifo che si susseguirono per tutto l’Ottocento (Melosi, 2000).
In Gran Bretagna nel 1842 Edwin Chadwick pubblicò uno studio nel quale sosteneva che per limitare l’esposizione al rischio di epidemie era necessario mettere in campo misure innovative di igiene come la costruzione di reti fognarie, la raccolta dei rifiuti, il controllo delle popolazioni di roditori.
Questi interventi, tuttavia, non riuscivano a spiegare il motivo per cui le epidemie si verificassero sporadicamente, né le modalità di propagazione delle stesse. L’opinione prevalente era che i miasmi, ossia i cattivi odori, in particolare quelli derivanti dalla materia organica in decomposizione, fossero la causa scatenante. Per lungo tempo è stata un’idea accettata, anche perché i luoghi dove le epidemie si sviluppavano in modo più virulento erano prevalentemente le zone più povere delle città (Jackson, 2014).
In questa situazione si inserisce un nuovo ospite, il colera, o morbo asiatico, una malattia endemica in alcune zone dell’Asia, in particolare in India (Borghi, 2010), dove, nella regione del delta del Gange, era stata già segnalata da Vasco da Gama nel 1490.
Nel corso dell’Ottocento, a causa dell’espansione militare e commerciale dell’Inghilterra nel continente indiano e della crescente diffusione dei viaggi a lungo raggio, il colera cominciò a diffondersi su quasi tutto il pianeta (Tognotti, 2000). Al suo arrivo in Europa esso trovò condizioni favorevoli di diffusione grazie allo stato pietoso delle aree urbane. La presenza di criticità ambientali e di condizioni favorevoli allo sviluppo di fenomeni epidemici, favorì il dilagare delle epidemie in tutto il continente generando nel corso dell’Ottocento sette pandemie. Sei di queste, nel 1835-1837, nel 1849, nel 1854-1855, nel 1865-1867, nel 1884-1886 e nel 1893, interessarono anche l’Italia.
Come detto, strettamente connesse alla diffusione delle epidemie, erano le condizioni igieniche delle città. Nella prima metà dell’800 la qualità dell’acqua potabile negli agglomerati urbani non era sottoposta ad alcun controllo. Era comunque evidente che le condizioni dell’acqua dei fiumi che attraversavano le città, fonte primaria di approvvigionamento idrico, presentavano caratteristiche a dir poco negative, dovute agli scarichi incontrollati e alla presenza di rifiuti di ogni genere. Una prima soluzione fu messa in campo da James Simpson, un ingegnere della compagnia degli acquedotti di Chelsea a Londra, che nel 1829 mise a punto i primi filtri di sabbia. Simpson scoprì che questi filtri rimuovevano dall’acqua le particelle visibili ma indesiderate, ma negli anni seguenti divenne evidente che essi erano in grado di svolgere anche altre funzioni (Singer et al., 1982).
Nel 1854 scoppia a Londra una delle più serie epidemie di colera verificatesi nell’Ottocento nel Regno Unito.
Già durante le precedenti epidemie di colera del 1849 e del 1853, John Snow, un medico inglese pioniere nel campo dell’epidemiologia, aveva osservato che i morti per colera nei quartieri di Londra approvvigionati con acqua filtrata o con acqua prelevata dalle zone del Tamigi non raggiunte dai flussi delle maree, erano in numero assai inferiore rispetto a quelli delle zone dove ciò avveniva. L’epidemia del 1854 colpì ancora Londra ed, in particolare, il distretto di Soho. Le ricerche di Snow constatarono che quasi tutte vittime avevano bevuto acqua proveniente da una specifica pompa, quella posta in Broad Street, il che gli consentì di ribadire la sua tesi secondo la quale il “veleno” del colera veniva trasmesso alle persone dall’acqua inquinata dagli escrementi umani. La successiva interruzione del flusso idrico dalla pompa, infatti, pose fine all’epidemia (Paneth, Snow, 2004; Buechner et al., 2004).
La teoria di Snow e, piú tardi, l’asserzione di William Budd secondo la quale era sempre l’acqua inquinata a provocare la febbre tifoide, vennero accettate lentamente. Nonostante ciò l’importanza di utilizzare fonti d’acqua pura e insieme a tecniche di filtrazione vennero riconosciuti in Inghilterra con il “Metropolis Water Act” del 1852, che faceva obbligo a tutte le compagnie degli acquedotti che attingevano acqua dal Tamigi o dai suoi affluenti, di localizzare le loro apparecchiature di prelievo nelle zone del fiume non raggiunte dalle maree. Inoltre si faceva obbligo di filtrare l’acqua da utilizzare per usi domestici.
Nel frattempo continuavano le ricerche per mettere a punto esami chimici capaci di rilevare le impurità presenti nell’acqua. Furono determinate le modalità per determinare la concentrazione dei sali minerali e si riconobbe che il contenuto di sostanze organiche era un indice della salubrità dell’acqua. Verso il 1870 si era già pervenuti ad una standardizzazione dei sistemi di analisi delle acque.
Le continue scoperte in ambito scientifico avevano fornito una sempre maggiore consapevolezza del rapporto causa-effetto tra condizioni abitative ed epidemie, ma i provvedimenti presi nei diversi Paesi europei non sembravano del tutto sufficienti per debellare completamente il contagio.
L’Italia post-unitaria, impegnata a risolvere problemi come la realizzazione della rete ferroviaria, la lotta all’analfabetismo e il riordino amministrativo, sottovalutò per molti anni la prevenzione sanitaria che avrebbe potuto bandire il colera dalla Nazione.
Ciò favorì lo scoppio degli eventi epidemici ricordati in precedenza. Caso emblematico è l’epidemia di colera del 1884, arrivata in Italia dalla Francia, che colpì duramente Napoli. L’evento durò fino al 1887 e colpì 44 province, anche se solo in tre di queste il fenomeno raggiunse una certa serietà: Cuneo ebbe 1.655 decessi, Genova 1.438 e Napoli 7.994.
Nel ventennio post-unitario la città Napoli aveva registrato una impennata demografica che aveva aggravato le condizioni di vita urbana. L’ultimo censimento aveva contato 454.084 abitanti e 242.285 vani, con il 91 per cento della popolazione che si addensava nei quartieri centrali di Piazza Mercato, Pendino, Vicaria e Stella, in condizioni abitative ed igieniche malsane.
Per cercare di risolvere il penoso stato sanitario della città si mise in campo un intervento urbanistico ed infrastrutturale radicale, il Risanamento, che mutò il volto della maggior parte dei quartieri storici della città di Napoli, sostituendo, in alcuni casi quasi totalmente il tessuto preesistente con nuovi edifici, piazze e strade.
Per rendere possibile l’intervento il 15 gennaio 1885 fu emanata la cosiddetta “legge per Napoli” che destinava cospicui finanziamenti per interventi di risanamento basati sulla imposizione di norme igienico-sanitarie pubbliche e private che le municipalità dovevano far osservare a tutti i cittadini. A questo scopo vennero effettuati interventi sul sistema idrico e fognario, sulle condizioni abitative esistenti, sulla densità abitativa di alcuni quartieri. Il piano impose l’esproprio e la demolizione di edifici, la costruzione di nuove strade e piazze, la realizzazione di nuove e moderne reti, il divieto di utilizzo a scopo residenziale di ambienti non idonei, la realizzazione di nuovi quartieri da utilizzare per ridurre la pressione demografica nelle aree centrali. Si realizzarono il corso Umberto, le piazze Nicola Amore e Giovanni Bovio, via Depretis e la Galleria Umberto I.
L’intervento, però, non riuscì ad eliminare alla radice le situazioni di degrado. Basti ricordare che alle spalle delle nuove arterie, in particolare di Corso Umberto, la struttura urbanistica della città rimase immutata.
Anche la città di Firenze fu oggetto di un intervento radicale nella sua parte centrale. Il Mercato Vecchio era, dalla fondazione romana, il centro geografico della città (Bergellini, 1998). L’area era stata trasformata in piazza all’epoca di Cosimo I de’ Medici, ma nel tempo era stata occupata minuscoli e malsani edifici popolari. Nel 1881, a seguito di una campagna di stampa che denunciava lo squallore di questa parte del centro urbano, il comune di Firenze incaricò una commissione di rilevare lo stato degli immobili e le condizioni di vita degli abitanti del Mercato Vecchio. I risultati descrissero un preoccupante degrado sociale ed igienico suggerendo la necessità di un’opera di massiccio risanamento. Il progetto definitivo venne approvato il 2 aprile 1885 e già nel giugno successivo la popolazione della zona era stata evacuata e le proprietà espropriate.
I lavori procedettero velocemente soprattutto nella parte settentrionale della piazza e riportarono alla luce la piazza cinquecentesca, con la Loggia del Pesce del Vasari. Essi poi proseguirono ampliando l’area delle demolizioni che arrivò a coprire la zona tra piazza Strozzi, via de’ Vecchietti, via de’ Pecori, via dei Calzaiuoli, piazza della Signoria e via Porta Rossa. Molte furono le testimonianze architettoniche del passato che vennero sacrificate senza troppa esitazione. Anche il vecchio Ghetto, con due sinagoghe, venne raso al suolo. Al loro posto sorsero i grandi palazzi, i portici, l’arco trionfale e il grande spazio di piazza Vittorio Emanuele II, oggi piazza della Repubblica.
Come scriveva Artimini (1889): “E bisogna tener conto appunto delle molteplici difficoltà che si incontrarono per l’attuazione di qualsiasi progetto di riordinamento, per la intricata disposizione delle vecchie strade, per le deplorevoli condizioni in cui la maggior parte degli edifizi si trovavano, e per la necessità di conservare almeno alcuni di quelli più importanti. (…) Per ripararsi dai rigori delle stagioni e dai venti imperanti nella nostra pianura, eran consigliate le strade strette e tortuose, non essendo ciò di nessuno ostacolo alla circolazione poiché in allora l’unico mezzo di locomozione erano i cavalli che avevan facile adito anche in quelle modeste viuzze. Ma ben diversi sono i bisogni della moderna civiltà. Oggi bisogna agevolare il transito delle carrozze degli omnibus e dei tranvai; oggi non bastano più le misere ed insalubri abitazioni, occorre spazio, aria, pulizia dappertutto.”
Bisogna aspettare l’ultimo ventennio dell’800 per trovare la prima seria iniziativa indirizzata ad introdurre in tutta Italia principi di igiene pubblica necessari a risanare il paese, afflitto da un tasso di mortalità tra i più elevati d’Europa (Giovannini, 1996). Nel 1899, con Crispi capo del governo, venne promossa una grande inchiesta sanitaria, con lo scopo di verificare la concreta applicazione delle norme di igiene pubblica e con l’intento di studiare le condizioni del paese ed, in particolare, delle città.
Le case, le strade, gli acquedotti, le fognature, le malattie ambientali furono i principali elementi posti sotto analisi ed osservazione, presentando una ricostruzione dettagliata dell’ltalia di fine Ottocento, osservata attraverso gli occhi severi degli igienisti, che denunciava le arretratezze del paese ed il faticoso adeguamento delle città al progresso tecnologico.
2. Tra il secondo Ottocento ed il primo Novecento
Le cause reali delle epidemie, i germi, o elementi patogeni, furono individuati verso il 1860 in seguito agli studi di Louis Pasteur e di altri scienziati. Ci vollero altri dieci anni prima che i batteri che causavano la tubercolosi, il colera, la dissenteria, la lebbra, la difterite ed altre malattie venissero identificati e ne venisse compreso il meccanismo. Dapprima lentamente, poi in modo definitivo, questi studi hanno provocato un mutamento radicale nella visione della malattia da parte del settore medico.
La sanità pubblica adotta la teoria dei germi, per la quale le malattie sono dovute esclusivamente all’ingresso nel corpo umano di specifici microrganismi aggressivi, detti microbi. La ricerca nel campo della sanità pubblica passa dalle azioni per migliorare le infrastrutture pubbliche allo studio in laboratorio di microbi e di mezzi che possano immunizzare la popolazione. Al posto dei pianificatori e degli ingegneri sanitari, i nuovi professionisti della sanità pubblica diventano i medici (Krieger, 2000).
La pratica urbanistica, dal suo canto, inizia ad applicare il modello haussmaniano della zonizzazione (Hall, 1996). È un modello di tipo funzionalista che impone una organizzazione gerarchica dell’uso del suolo, in cui le aree residenziali sono separate dalle altre, in particolare da quelle industriali. L’idea di fondo del modello era costruire un nuovo sistema di economia urbana in cui le funzioni primarie fossero isolate da quelle insalubri – in particolare, industriali – imponendo stretti controlli sull’uso del suolo e sul contatto della popolazione con tali attività. L’obiettivo era raggiungere una sorta di immunizzazione per separazione della popolazione urbana.
Significativo, a questo proposito, è il disegno della Cité industrielle di Tony Garnier (1904), disegno mai realizzato, ma basato su una rigida divisione delle aree funzionali e sul controllo delle localizzazioni. In particolare, le aree residenziali erano posizionate in rapporto alle condizioni morfologiche del terreno e alle condizioni meteorologiche prevalenti, in modo da avere il massimo vantaggio dall’insolazione e dai venti prevalenti.
Lo stesso disegno delle Garden Cities, proposto da Ebenezer Howard in Gran Bretagna a partire dal 1898, si fondava sulla separazione delle aree a diversa destinazione funzionale e sulla riduzione delle densità insediative.
3. Il secondo Novecento
Nella seconda metà del Novecento, l’approfondimento degli aspetti connessi alla sanità pubblica ha fatto sì che la ricerca medica si interessasse sempre più degli “ospiti”, ossia degli individui colpiti da malattie, tralasciando l’ambiente esterno, più complesso da analizzare e da affrontare. La dimensione sociale della malattia viene ignorata, mentre si iniziano a sottolineare i fattori di rischio personali connessi allo stile di vita (dieta, esercizio fisico, fumo).
Il modello biomedico della malattia che attribuisce morbilità e mortalità ai patogeni molecolari favoriti da stili di vita, comportamenti, biologia ereditaria o genetica individuali, si afferma come il paradigma dominante nell’epidemiologia. Tale modello spiega la genesi delle malattie a livello molecolare piuttosto che la distribuzione della malattia tra le popolazioni o l’incidenza o la distribuzione della malattia a livello sociale.
La pianificazione, a sua volta, si interessa prioritariamente della promozione dello sviluppo economico, da realizzare mediante grandi progetti infrastrutturali e di trasporto. In ambito urbano essa passa dal tentativo di governare lo sviluppo urbano mediante processi di divisione funzionale (vantaggiosi anche dal punto di vista della rendita fondiaria), alla promozione dello sviluppo economico nel vasto territorio suburbano che circonda le città. È il periodo in cui si sviluppa al massimo la modellistica economica applicata al territorio e alla pianificazione di nuove città, anche attraverso autorità di pianificazione regionali, ma è anche il periodo in cui si iniziano a comprendere i processi di disintegrazione urbana e di segregazione residenziale.
La fase più recente, a seguito dell’adozione dei processi di valutazione di impatto ambientale, vede un cambiamento di orientamento della pianificazione verso una specifica attenzione agli aspetti di qualità ambientale. Il processo di valutazione, introdotto dapprima negli Stati Uniti nel 1969 e successivamente nei paesi della Comunità Europea, impone l’uso della dichiarazione di impatto ambientale per analizzare gli effetti ambientali e quelli sulla salute umana di piani, progetti, programmi e politiche (British Medical Association, 1998).
4. Nuove connessioni tra pianificazione e salute pubblica
Nonostante le comuni origini e gli interessi simili che sussistono tra pianificazione urbana e salute pubblica, oggi possono essere individuate solo lontane vicinanze tra i due campi.
La salute pubblica si concentra sui fattori biomedici che possono contribuire a modificare i tassi di mortalità, e solo da poco tempo sta iniziando a studiare come l’impatto delle decisioni sull’uso del suolo e come l’ambiente costruito influenzi la salute della popolazione. Allo stesso tempo, la pianificazione urbana mostra di aver ridotto l’interesse verso una delle sue missioni originarie, ossia migliorare le condizioni sanitarie delle fasce sociali più deboli. “The result is that work in the 2 fields is largely disconnected, and both areas are failing to meaningfully account for the economic, social, and political factors that contribute to public health disparities.” (Coburn, 2004)
La necessità di una riconnessione tra i due campi è stata sottolineata già da qualche tempo.
“Rebuilding the Unity of Health and the Environment: A New Vision of Environmental Health for the 21st Century” del 2001, è un report dell’Institute of Medicine pubblicato dalla National Academy Press a Washington in cui la salute viene considerata come l’anello di connessione tra l’ambiente ecologico, quello fisico (naturale e costruito), quello sociale, quello politico e quello economico (Hannam, Coussens, 2001).
Dello stesso avviso è il report del World Health Organization, dal titolo “Healthy Cities and the City Planning Process”, che pone l’accento sull’importanza di sviluppare una “healthy urban planning” in modo da assicurare la salute di tutti all’interno di un mondo che diventa sempre più urbano ed in cui la popolazione povera è crescente (Duhl, Sanchez, 1999).
Ne discende che, anche se la situazione attuale vede i campi della pianificazione e quello della sanità pubblica completamente disconnessi tra di loro, è opportuno ripensare una loro rinnovata collaborazione allo scopo di affrontare le diverse sfide connesse alla salute delle popolazioni urbane.
La prima sfida è quella di prestare maggiore attenzione agli effetti dell’uso del territorio e dell’ambiente edificato sulla salute pubblica. In particolare, è necessario superare l’assunto della “neutralità geografica” insito nell’attuale normativa in modo da comprendere il differente impatto che i territori hanno sulle condizioni di vita.
La seconda sfida è quella di sviluppare un approccio coordinato e multidisciplinare per eliminare le disparità nel diritto alla salute. Tali disparità tendono sempre più ad incrementarsi per motivi connessi al reddito, alla razza, al livello di istruzione. Esse inoltre tendono ad incrementarsi in relazione alla posizione fisica in cui le comunità sono poste, e quindi alle condizioni delle abitazioni, dei trasporti, della morfologia urbana, ovvero, in relazione al livello complessivo del capitale sociale. È evidente la connessione tra sanità pubblica e pianificazione. La sfida è individuare nuove strategie per migliorare la salute delle popolazioni urbane. La mancanza di una agenda indirizzata alla salute urbana ha favorito l’allontanamento dei due settori facendo perdere di vista i reali significati delle disparità sanitarie in ambito territoriale.
L’ultima sfida, infine, è quella di definire nuove modalità di democrazia partecipativa per garantire che le pratiche urbanistiche e quelle sanitarie siano responsabilmente indirizzate verso il benessere delle comunità. Ricerca scientifica e processo decisionale in materia di pianificazione e salute pubblica sono spesso criticati per fare affidamento quasi esclusivo sulla conoscenza professionale. Anche se i due settori, in modo diverso, hanno necessità di un elevato livello di conoscenze tecnico-scientifiche, è possibile ipotizzare ed approfondire una potenziale estensione dei soggetti coinvolti nei processi decisionali.
Riferimenti bibliografici
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Tognotti E. (2000). Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia. Bari, Editori Laterza.
Giuseppe Mazzeo - Specificità della Città Metropolitana di Napoli. Pianificare con l’emergenza
EYESREG, 2015, Vol. 5, N. 3, pp. 92-95, http://www.eyesreg.it/
Keywords: Città metropolitana; Napoli; Rischio vulcanico; Pianificazione integrata
Il governo del territorio nelle aree metropolitane
I fenomeni urbanizzativi presentano una particolare diffusione in Europa, coinvolgono l’80% circa della popolazione e concentrano al loro interno una quota dei trasferimenti economici nazionali (Spadaro 2015) nell’ordine del 12% del PIL in EU e del 16% in Italia, mentre gli investimenti locali sono il 60% in EU e il 75% in Italia (dati 2011) dell’intero settore pubblico (Ciapetti 2014).
All’interno di questo spazio le aree metropolitane presentano ulteriori specificità in termini di concentrazione delle attività, di innovazione e di ricchezza prodotta.
I sistemi metropolitani sono un argomento tipicamente interdisciplinare in cui sono coinvolti specialisti come geografi, economisti, sociologi, urbanistici, giuristi, ecc. Le diverse discipline presentano una grande diversità di approccio sul concetto di “metropoli”, di “area metropolitana” o di “città metropolitana”. Generalmente la dimensione fisica e il numero di abitanti sono i principali fattori necessari ad associare ad una città la denominazione di metropoli, mentre per la definizione di area metropolitana hanno un peso rilevante le relazioni funzionali che si creano a livello territoriale, il livello di infrastrutturazione e la qualità in termini di specializzazione delle attività (Salet, Thomley, Kreukels, 2003).
Interrogativi conseguenti alla emanazione della legge 56/2014
Le città metropolitane sono livelli amministrativi che nascono per rispondere alle problematiche di una realtà territoriale che oggettivamente è più complessa rispetto a quella di una città di medie-piccole dimensioni. Esse sono, in ordine di tempo, l’ultimo tentativo fatto per introdurre nella struttura amministrativa italiana questi enti territoriali di area vasta. Il primo, vano, tentativo è da far risalire al 1990 con la legge 142, ripresa nel 2000 dalla legge 267.
La legge 56 del 2014 introduce le città metropolitane come enti territoriali di area vasta le cui finalità istituzionali sono la cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano, la promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse della città metropolitana e la cura delle relazioni istituzionali, ivi comprese quelle con le città e le aree metropolitane europee.
Il nuovo ente nasce come strumento di gestione di aree urbane complesse di estensione territoriale che si è voluto far coincidere normativamente con quello delle provincie, superando così uno dei principali ostacoli delle precedenti formulazioni.
Le città che sono candidate a diventare città metropolitane si sostituiscono alle province nella gestione del territorio di propria competenza, quindi anche nel coordinamento delle politiche dei comuni che ne fanno parte. A questo proposito una considerazione da fare è che nulla viene detto in relazione al rapporto tra città metropolitana e comuni ad essa appartenenti. Ciò pone i comuni in una posizione di continuità nella gestione delle proprie competenze, cosa che ha poca ragion d’essere in una realtà complessa che ha bisogno di forza nei livelli di coordinamento piuttosto che in quelli di base. Tale situazione indebolisce l’immagine del nuovo ente e contiene in sé i germi di potenziali conflitti.
La città metropolitana di Napoli nel contesto regionale
Un intreccio di situazioni, di eventi, di avventure normative, di ritardi, di connivenze, di inettitudine contraddistingue l’avvio della Città Metropolitana di Napoli. Eternamente fedele a sé stessa, non è riuscita a darsi in tempo neanche lo Statuto, che secondo la legge avrebbe dovuto essere approvato entro il 31 dicembre 2014.
Date le premesse ci si chiede come questo nuovo ente possa adempiere alle sue competenze in termini di pianificazione strategica e di pianificazione generale territoriale. Ci si chiede, inoltre, come la Regione Campania potrà porsi nei confronti della Città Metropolitana.
Si ricorda, da un lato, che il peso demografico, economico e funzionale (Papa, Mazzeo 2014) della Città Metropolitana di Napoli all’interno della Regione Campania è tale da porre i due enti in condizione di sostanziale equilibrio in termini di rilevanza e di peso specifico. Dei 5.870.000 abitanti nell’intera regione, 3.130.000 vivono nel territorio della città metropolitana (dati 2014 arrotondati), con un peso demografico che supera il 53% di quello totale della regione.
Tale percentuale si ritrova anche nei dati sul valore aggiunto totale, che segna oltre 45 miliardi di Euro per la città metropolitana su un totale di 85 miliardi per l’intera regione (dati Tagliacarne 3013 su valori 2011).
Dal punto di vista funzionale, infine, sono evidenti le interrelazioni che il territorio della città metropolitana ha con aree esterne che non ne fanno parte ma ne sono strettamente connesse: basti pensare alla parte meridionale della provincia di Caserta e a quella settentrionale della provincia di Salerno. Il che aumenta oggettivamente il peso specifico di questo nuovo ente territoriale.
Se a tali considerazioni si aggiunge che i rapporti tra comune di Napoli e Regione Campania non sono stati, nell’ultimo periodo, idilliaci, e si aggiunge anche che entrambi gli enti soffrono di una generalizzata incapacità nell’indirizzare e nel far funzionare la macchina amministrativa (Mazzeo, 2009) si può ipotizzare (pur non auspicandolo), un sostanziale immobilismo, sulla falsariga di quanto finora successo. Cartina di tornasole dei rapporti sarà l’emanazione della nuova legge regionale in materia di governo del territorio, la quale necessariamente dovrà porsi il problema del nuovo ente, del suo peso, delle sue funzioni e del rapporto tra città metropolitana ed ente Regione (Gastaldi, Zarino 2015).
Caratteri del territorio e criticità della pianificazione
Vi sono, però, interrogativi, anche in relazione alla futura attività di pianificazione.
Il territorio della città metropolitana di Napoli presenta caratteri peculiari in termini di urbanizzazione, concentrazione della popolazione, infrastrutturazione, ma anche in termini di rischi naturali. Il territorio, infatti, risulta ampiamente condizionato in termini di rischio vulcanico dalla presenza di due aree, una nella parte nord-ovest (Campi Flegrei), l’altra nella parte meridionale (Vesuvio).
Entrambe queste aree sono ampiamente popolate, di elevato valore naturalistico ed agricolo ma entrambe sono caratterizzate dal rischio reale che l’evento vulcanico si verifichi in tempi storici. Ciò rende necessario una specifica pianificazione di emergenza per il rischio vulcanico redatta dal Dipartimento della Protezione Civile e dall’Assessorato alla Protezione Civile della Regione Campania. Nello specifico si sono definite due “Zone rosse”, una per ciascuna delle due aree, ovvero le aree che presentano elevata probabilità di invasione di flussi piroclastici e che devono essere sottoposte a evacuazione cautelativa in caso di possibilità di ripresa dell’attività eruttiva.
La zona rossa dei Campi Flegrei interessa 6 comuni e 8 circoscrizioni appartenenti a Napoli, alcune parzialmente, per un totale di circa 420.000 abitanti. Quella del Vesuvio interessa 24 comuni, di cui 1 in provincia di Salerno, e 3 circoscrizioni di Napoli, per un totale di circa 740.000 abitanti. Gli abitanti delle due aree sono pari a circa il 37% dell’intera popolazione della città metropolitana.
È evidente che una realtà come questa comporta una ricaduta precisa in termini di governo del territorio, con l’esigenza di una specifica capacità di pianificare l’esistente, incrementare le proprietà resilienti del territorio e favorire le azioni di emergenza da mettere in atto nel caso che l’evento si verifichi. Ciò significa che la presenza delle due aree dovrebbe caratterizzare in profondità il piano territoriale generale e connotarlo in termini strategici ed attuativi. In particolare:
1. l’apposizione della zona rossa significa blocco di ogni incremento del peso residenziale delle due aree, se non addirittura una sua riduzione. Questo significa che almeno un terzo del territorio della città metropolitana è indisponibile ad una espansione del patrimonio residenziale e che, oltre al soddisfacimento della domanda residenziale pregressa, è da mettere in conto un’aliquota non trascurabile di volumetrie dovute a trasferimento dalle zone rosse;
2. la vulnerabilità del territorio e il sistema delle risorse presenti (storiche, naturalistiche, produttive, di capitale fisico e umano) rendono necessaria una pianificazione che sia, nel contempo, rigorosa nel controllo delle trasformazioni residenziali e attenta a valorizzare al massimo le risorse presenti, con l’obiettivo di trasformare una situazione penalizzante in una vantaggiosa;
3. è necessario riparlare di riequilibrio tra aree interne e zone costiere, riproponendo un argomento in voga negli anni ‘70-‘80 quando veniva utilizzato per finalità specificamente economiche. Ciò porta a dire che quando si affronta il problema del giusto equilibrio del territorio della città metropolitana di Napoli si deve obbligatoriamente ragionare in termini di estensione territoriale regionale, e non solo.
Questi tre elementi hanno come conseguenza un processo di pianificazione che inserisce di diritto nella pianificazione territoriale le problematiche delle zone rosse, che devono essere condivise da tutta la comunità regionale e che devono essere affrontate da un personale amministrativo e tecnico adeguato in termini culturali ed operativi, cosa che non è avvenuta nella redazione del Piano Territoriale Regionale vigente, né nel PTCP della provincia di Napoli.
Con l’avvertenza che il raggiungimento di tali obiettivi, correlati tra di loro, dà luogo ad azioni che possono essere estremamente gravose per l’intera comunità nazionale; se il rischio presente nelle due aree si combatte riducendone la vulnerabilità, tale risultato si ottiene solo spostando risorse umane in altri siti a minore rischio, ossia riducendo il capitale fisico e umano potenzialmente coinvolto negli eventi dannosi.
Bibliografia
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Ciapetti L. (2014), Il territorio tra efficienza e sviluppo: la riforma delle Province e le politiche dell’area vasta, Ist. del federalismo, 2/2014, spec. 252.
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Giuseppe Mazzeo - Piano nazionale delle città: niente di nuovo sotto il sole
15/11/2012
L’articolo 12 del Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, "Misure urgenti per la crescita del Paese" introduce, tra gli strumenti di programmazione e di intervento sulla città, il Contratto di Valorizzazione Urbana. L’insieme di questi contratti forma il Piano nazionale delle città.
L’adesione dei comuni ha portato alla presentazione di 425 proposte che prevedono un investimento complessivo di oltre cinque miliardi di euro, a fronte di una disponibilità di 224 milioni spalmati dal 2012 al 2017, cui dovrebbero aggiungersi fondi del Ministero dell’istruzione e della ricerca scientifica e della Cassa Depositi e Prestiti, fino a raggiungere la cifra di due miliardi. La differenza tra le due cifre (2 e 5 miliardi) e la numerosità dei programmi presentati ha reso necessario un allungamento dei tempi previsti in fase di programmazione, così come riportato dalla stampa nazionale (Repubblica, 9/11/2012).
Secondo quanto prescritto dal decreto legge, il Ministero delle infrastrutture predispone un “piano nazionale delle città” finalizzato a porre in atto processi di riqualificazione di aree urbane, in particolare nel caso vi siano rilevanti problemi di degrado.
Per coordinare e gestire il piano viene messo in piedi un organo operativo, chiamato Cabina di regia, che ha il compito di velocizzare le fasi operative del piano. Di questa cabina fanno parte, oltre a rappresentanti istituzionali di ministeri, regioni e comuni, anche i rappresentanti di due fondi di investimento – uno della Cassa Depositi e Prestiti ed uno del Ministero dell’economia – la cui missione sociale è investire nel settore dell’edilizia privata sociale, ad integrazione delle politiche statali e regionali. Questi rappresentanti siedono nella cabina in veste di osservatori e dovrebbero avere il ruolo di favorire l’utilizzo di risorse finanziarie non provenienti direttamente dallo Stato.
Il piano nazionale delle città si forma, per semplice sommatoria, mettendo insieme le proposte che pervengono dai Comuni; il che significa che la qualità complessiva del piano dipenderà principalmente dalla qualità delle singole proposte che gli enti locali avranno deciso di portare avanti. È evidente, quindi, il rischio che le proposte portate in sede di valutazione siano eterogenee e qualitativamente irrilevanti.
Dal punto di vista urbanistico, il principale elemento di innovazione è da rinvenire nella formulazione di un nuovo strumento di intervento, denominato “Contratto di valorizzazione urbana” (CVU), che prevede un “insieme coordinato di interventi” in ambiti urbani caratterizzati da forte degrado sociale, fisico e funzionale.
La proposta di contratto comprende una serie di elementi ed informazioni con l’obiettivo di mettere a punto un documento unitario e coerente. Si va dalla descrizione dell’ambito urbano interessato e delle sue caratteristiche, alla specificazione degli investimenti e dei finanziamenti necessari, sia pubblici che privati, con l’evidenziazione degli eventuali cofinanziamenti da parte del Comune proponente; dai soggetti interessati all’intervento, alle eventuali premialità che sono previste dagli interventi; dal programma temporale degli interventi, alla fattibilità tecnico-amministrativa dell’operazione di riqualificazione.
Le proposte pervenute sono valutate e selezionate dalla cabina di regia sulla base di una serie di criteri che fanno riferimento alla immediata cantierabilità delle opere, alla presenza di soggetti e finanziamenti pubblici e privati e alla possibilità che gli investimenti pubblici attivino un effetto moltiplicatore nei confronti degli investimenti privati, alla riduzione di fenomeni di tensione abitativa, di marginalizzazione e di degrado sociale, al miglioramento della dotazione infrastrutturale nell’area interessata, con particolare attenzione all’incremento di efficienza dei sistemi del trasporto urbano e, infine, al miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale e delle condizioni ambientali.
Sulla base di questi criteri la cabina sceglie i programmi ritenuti più validi, quantifica gli investimenti attivabili, propone al ministero delle infrastrutture la destinazione del fondo e promuove, d’intesa con il Comune, la sottoscrizione del Contratto di valorizzazione urbana. L’insieme dei contratti costituisce, come detto, il Piano nazionale per le città.
A decorrere dall’esercizio finanziario 2012 e fino al 2017 è costituito, nel bilancio di previsione del Ministero delle infrastrutture, un “Fondo per l’attuazione del piano nazionale per le città”; in esso confluiscono risorse provenienti da altri programmi (Piano nazionale di edilizia abitativa, Programmi di recupero urbano, Programmi innovativi in ambito urbano), non utilizzate o revocate.
A leggere la norma due sembrano i criteri che possono rendere incisiva la fase di valutazione e di scelta: il primo è l’immediata cantierabilità delle opere, caratteristica tecnicamente ben definita dalla norma e facilmente realizzabile nel caso in cui tutte le fasi di progettazione e di appalto sono state già svolte in precedenza o, comunque, sono in una fase molto avanzata. Il secondo è la stretta integrazione degli interventi in modo da prefigurare un “sistema coordinato” di interventi tale da prefigurare un reale effetto moltiplicatore; in questo caso la definizione è più elastica e si presta a più ampie interpretazioni di quanto possa dirsi nel caso della cantierabilità.
Nonostante ciò, anche sulla cantierabilità è iniziata una discussione tutta italiana. L’aggettivo “immediato” che la accompagna è diventato via via meno “immediato”. Basti considerare, ad esempio, che il decreto 3 agosto 2012, che istituisce la cabina di regia, ha trasformato l’immediata cantierabilità in “interventi considerati più prossimi alla cantierabilità” e sul sito internet dell’ANCI è scritto: “… la immediata cantierabilità cui si è fatto riferimento nelle precedenti comunicazioni, è a nostro avviso da intendere in maniera elastica” (24/10/2012).
Giuseppe Mazzeo - Alcune considerazioni
Anche a costo di essere crudi, un aspetto deve essere subito chiarito: a parte i citati elementi di carattere procedurale il piano non propone alcuna innovazione nell’uso dello strumento della riqualificazione urbana, né dal punto di vista della forma tecnica, né da quello delle dotazioni finanziarie. Esso, al contrario, segna un passo indietro in quanto si muove secondo una direttrice che è quella della cantierizzazione di progetti fermi indipendentemente dalla qualità dei progetti stessi e dall’impatto sui sistemi urbani interessati.
Dalla lettura del testo normativo viene fuori un approccio molto “impersonale” al problema della città, approccio derivante da un modo tecnocratico di affrontare le questioni: esiste il problema, quindi esiste la soluzione; il Governo crea lo strumento per (cercare di) risolverlo, i Comuni si sbrighino a raccogliere le idee ed a presentarle nel più breve tempo, perché l’efficienza è importante ed il tempo è denaro.
Le città (in questo caso degradate) vengono trattate alla stregua di tutti gli altri problemi che il governo tecnico si è trovato di fronte nell’ultimo anno: da un lato un occhio attento ai limiti di cassa, dall’altro una rapidità di decisione che ignora completamente le tante analisi pregresse, considerate come inutili pesi morti. Tale atteggiamento non riguarda solo la riqualificazione ma si ritrova anche in altre norme come, ad esempio, quella che ripropone (per la terza volta in 22 anni) le città metropolitane: nient’altro che il risultato di scelte emergenziali che nulla hanno a che fare con un disegno chiaro di crescita della competitività dei sistemi urbani italiani.
Data questa premessa è opportuno sottolineare tre aspetti connessi al nuovo piano per le città.
Il primo aspetto potrebbe sembrare solo di carattere terminologico ma non lo è, in quanto l’uso delle parole o nasconde volontà e scelte precise o semplice vacua ignavia. Quanta acqua è passata sotto i ponti da quando un’espressione forte come “Piano nazionale” sarebbe stata la denominazione di uno strumento di grande portata e di elevata qualità, dotato a monte di analisi ed indagini approfondite, di obiettivi indirizzati alla costruzione di una società più avanzata, di strategie di sviluppo basate su rilevanti investimenti e di risultati attesi chiaramente misurabili e definibili dal punto di vista dell’impatto sociale ed economico.
Oggi, con la necessità di rimettere in moto l’Italia, un governo di tecnici e di professori si riduce a formulare un programmino di investimenti per le città italiane – contenente niente altro che una raccolta casuale di progetti che, nei cassetti degli uffici tecnici comunali, attendevano tempi migliori – chiamandolo “Piano nazionale”. Nonostante l’altisonanza della denominazione, nel provvedimento non vi è nulla che possa richiamarne la solennità o evocare anche minimamente barlumi di riformismo o di programmazione.
Un secondo aspetto è da rinvenire in quella follia tutta italiana che vede ogni ministro o sottosegretario con delega alla città e al territorio esercitarsi sul recupero urbano. Se tale esercitazione fosse l’approfondimento di un percorso già tracciato non sarebbe negativo; in realtà, però, l’esercitazione si basa sul presupposto che è meglio creare un nuovo strumento piuttosto che utilizzare strumenti già esistenti, magari migliorandone i meccanismi ed adeguandoli ad eventuali nuove esigenze. D’altra parte, come diceva Ennio Flaiano, agli italiani piacciono più le inaugurazioni che le manutenzioni.
L’elenco di questi strumenti, a partire dai primi degli anni Ottanta, è ormai lunghissimo. Il che fa pensare che il vero intervento di “riqualificazione intelligente” sarebbe la semplificazione di piani e di sigle, con il loro inserimento in un unico contenitore che sia immediatamente riconoscibile e verso il quale sia possibile incanalare le scarse risorse pubbliche destinate al settore, con la formazione di un programma di lungo termine, coerente e costantemente alimentato. Ciò trasmetterebbe la sensazione che esiste una reale volontà di realizzare la riqualificazione urbana e che essa viene incanalata nella direzione che va verso l’incremento della qualità dei sistemi urbani italiani e della loro competitività e verso la razionalizzazione degli investimento dello Stano nel settore.
Meglio ancora sarebbe se la forma dello strumento di riqualificazione unificato discendesse dalla ricognizione dei risultati ottenuti dai programmi finora messi a finanziamento. Questo perché in tutti (compreso, a prima vista, quello odierno) sembra esistere un peccato originale di “casualità” che va attentamente considerato e che si riverbera nella qualità dei risultati ottenuti finora dalla riqualificazione urbana.
Un terzo aspetto da prendere in considerazione è quello connesso con la scarsa rilevanza ed autorevolezza del settore urbanistico, che si trasferisce nella sua incapacità di influenzare le scelte normative che incidono sul governo del territorio. L’inserimento del provvedimento nel decreto sulle “misure urgenti per la crescita del paese” è un ulteriore, tangibile segno della decadenza della pianificazione urbanistica e territoriale tout-court, materia che non riesce più, sicuramente per suoi demeriti, a consigliare la politica in merito alle strade da percorrere per la risoluzione dei problemi urbani e territoriali. I demeriti sono da riferire agli effetti devastanti delle trasformazioni avvenute nel Paese negli ultimi decenni e alla complessiva perdita di qualità del territorio e delle città, nonostante il proliferare di strumenti di piano a tutti i livelli. Ne discende che nella definizione delle priorità e delle scelte legislative fare a meno del parere degli urbanisti non è una perdita poi tanto grave, il che pone il settore disciplinare e gli operatori della pianificazione di fronte ad inediti problemi di efficacia e di identità.