Amsterdam
Il volo arrivò all'aeroporto di Schiphol con due ore di ritardo. Clive raggiunse la stazione centrale in treno; poi si incamminò verso l'albergo nella morbida luce grigia del pomeriggio. Mentre attraversava il ponte gli capitò di pensare che città tranquilla e civile fosse Amsterdam. Fece un'ampia deviazione a ovest per poter passeggiare sulla Brouwersgracht. Dopo tutto, la valigia era molto leggera. Che conforto procedere su strade attraversate da vie d'acqua. Un posto così tollerante e aperto, così maturo: le splendide rimesse in legno e mattoni trasformate in appartamenti eleganti, i piccoli ponti cari a Van Gogh, gli arredi urbani discreti, e tutti quegli olandesi dall'aria disponibile e intelligente in giro in bicicletta con i bambini seduti dietro.
Persino i bottegai parevano professori, e gli spazzini, jazzisti. Non doveva essere mai esistita una città più razionale di Amsterdam.
(Jan McEwan, Amsterdam, Einaudi, Torino, 1998, p. 150)
Ankara
Ankara è una metropoli in costruzione, con grattacieli che dentellano la capricciosa pianura sotto la vecchia montagna dove sorgeva l’antica Ancira, e ancora sorge, in tutte le sue stratificazioni: due fila di mura di conta, antiche e medioevali, il suck, il cafarnao. Ma è lontana, separata, fumigante. Ankara è ormai una specie di Manhattan, dispersa e frammentaria, nuova di zecca sul fango.
(Pier Paolo Pasolini (1991), Il caos, l’Unità/Editori Riuniti, Roma, p. 125. Da Tempo, n. 12, a. XXXI, 22 marzo 1969)
Arezzo
Rossiccia, misurata, con le sue dimensioni di una stupenda piccola città del passato, Arezzo si presenta contro un fondo di basse colline scolorite, su una pianura modestamente coltivata, con accuratezza e ordine toscani. Ma ecco anche qui, a destra, una grande fabbrica, nuova di zecca, sul tenero verdolino del grano. E poi le casette degli operai: casette giudiziose, che riescono a rendere povera la campagna: povera appunto perché appena appena un po’ ricca. Non c’è nulla di più deprimente di un po’ di benessere. Ed ecco: la stupenda apparizione di Arezzo, con le sue umili torri, gloriose, i suoi campanili così più comunali che clericali, la sua «piccolezza immensa», viene turbata, lesa, angariata, deformata, delusa dall’apparire casule e disordinato dell’Arezzo moderna. Che non è particolarmente brutta, intendiamoci: anzi, tutto è fatto con un certo … garbo.
(Pier Paolo Pasolini (1991), Il caos, l’Unità/Editori Riuniti, Roma, pp. 125-126. Da Tempo, n. 12, a. XXXI, 22 marzo 1969)
Assisi
Arrivammo ad Assisi. L'insegna con il nome della stazione era diversa da quelle che si vedono in tutte le altre località italiane: il nome della città era scritto in lettera dalla grafia antica e svolazzante. Un autobus ci portò in centro. La cima del monte Subasio era innevata, brillava nel suo candore. Rammento ogni dettaglio del nostro soggiorno ad Assisi (...) la tensione che là emana dal paesaggio, persino dalle pietre di cui sono fatte le case, coinvolge l'uomo con l'intensità di un'azione. (...) Giù, nella valle, avevano acceso i lampioni, erano illuminate anche le finestre della Porziuncola, ci si preparava al vespro. (...) Mi affacciai subito al balcone e guardai in basso, verso la valle. Si poteva spaziare con lo sguardo in lontananza, nella luce del tramonto, fino a Perugia.
(Sandor Marai, Il sangue di San Gennaro, (1965), Adelphi, Milano, 2010, pp. 309-310)
Atene
Il mito della fondazione di Atene vede la città contesa da Poseidone, dio del mare, e Atena, dea della sapienza e della saggezza. A dirimere la disputa fra le due divinità, apparentemente insanabile, furono alla fine chiamati i cittadini stessi. Poseidone e Atena si impegnarono in una campagna elettorale, e prima della decisione definitiva offrirono entrambi un dono alla città: rispettivamente, un cavallo e un ulivo. Un anziano si fece avanti e interpretò le due offerte come contrapposti programmi di governo: di guerra e conquista nel primo caso, e di pace e prosperità nel secondo.
La città scelse dunque Atena come protettrice, ne assunse il nome e le dedicò sull’Acropoli il tempio del Partenone, in onore della verginità (dal greco parthenos, “vergine”). In cambio la dea instradò Atene su un percorso di sapienza intellettuale che sfocerà in una triade di grandi scuole: l’Accademia, il Liceo e la Stoà. Ma anche su un cammino di saggezza politica, che la porterà infine alla democrazia.
(Piergiorgio Odifreddi, C’è spazio per tutti, Mondadori, Milano, 2011, p. 54)
Barcellona (1)
Mentre stava riflettendo, fu aggredito dall'urgenza dell'appuntamento con don Tato e andò a trovarlo attraversando tutte le città che si trovano in una stessa città, tutte le archeologie di uno stesso sforzo storico di vita collettiva. Tra architetture nuove e oltre la frontiera definitiva della Diagonal, Carvalho parcheggiò di fronte all'Up and Down, una costruzione dalle tendenze occulte, ostinata a dissimulare i suoi interni dietro a un'apparenza di ingresso di un capannone di lusso.
(Manuel Vazquez Montalban, Appuntamento mortale all'Up and Down, Il Sole 24 Ore, Milano, 2011, p. 12)
Barcellona (2)
Un ex cinema di puttane vecchie e anziane del dopoguezza specializzate in seghe, trasformato ora in spazio per prove di gruppi di teatro indipendente, secondo i piani di azione culturale di un comune democratico disposto a ottenere che il teatro faccia dimenticare al pubblico il senso della mediocre commedia quotidiana.
(Manuel Vazquez Montalban, Jordi Anfruns, sociologo sessuale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2011, p. 40)
Barcellona (3)
Si inoltrò nel Barrio Chino quasi palpando i vuoti lasciati dagli isolati abbattiti dai bulldozer, in un'implacabile distruzione del labirinto che nel passato era stato l'inguine della città. Persino la letteratura aveva occupato uno spazio in una piazza intitolata a un certo Pieyre de Mandiargues, un uomo con l'unico merito di aver scritto un romanzo in calle Escudillers, di essere andato a puttane in una casa d'appuntamento di calle Barberá e di aver mangiato al Casa Leopoldo. Invece, avevano fatto fuori l'isolato, gli edifici, la casa in cui era nato e vissuto il poeta Joaquín Marco, conosciuto da Carvalho mentre faceva la fila per l'acqua davanti alla fontana di plaza de Pedró. Passano degli elicotteri. Probabilmente stanno disinfestando i batteri della memoria con la modernità.
(Manuel Vazquez Montalban, La bella di Buenos Aires, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 19)
Barcellona (4)
Lifante uscì dalla fermata della metropolitana di plaza Urquinaona e rinunciò a salire sull'auto della polizia, Camminò a lunghe falcate verso la Questura di Vía Laietana seguito a un passo dallo zoppicante esperto di barboni. Lifante di fermò davanti alle nuove ali del Palau de la Música Catalana e le mostrò al suo scudiero.
"Ecco qui uno splendido esempio di integrazione di contrari temporali all'interno di uno stesso messaggio del contenitore e di una stessa funzione del contenuto."
Il barbonologo alzò gli occhi al cielo, non per trovare una spiegazione alle parole del suo capo, bensì una via di fuga. Ma non ci riuscì.
"Venga con me, Cifuentes."
Lo portò fino alla porta laterale del Palau.
"Se non ci fossero dei curiosi, mi sdraierei per terra per apprezzare l'armonia tra la verticalità e il barocco insito nel sistema di segnali del modernismo catalano. Ha il coraggio di sdraiarsi per terra insieme a me?"
(Manuel Vazquez Montalban, La bella di Buenos Aires, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 22)
Barcellona (5)
Ogni volta che Carvalho metteva piedi nel cosiddetto Villaggio Olimpico doveva superare l'impressione di entrare in uno spazio di case di cartone ritagliabile costruite dai membri del Comitato Olimpico Internazionale. Eppure il nuovo quartiere lo attirava come scenario da riempire di vita e manie umane, benché troppo dipendente dal riferimento magnifico, assoluto, del mare.
(Manuel Vazquez Montalban, La bella di Buenos Aires, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 25)
Barcellona (6)
Ormai in calle Icaria i corpi decidono spontaneamente di orientarsi verso le torri gemelle, e non sono le Twin Towers, che aprono lo spazio del Port Nou per raggiungere il grande suk dei ristoranti che circonda le imbarcazioni. Si siedono sulle gradinate contemplando gli andirivieni delle navi, protagoniste di un angolo che pare trasportato pietra dopo pietra, nave dopo nave, litro d'acqua dopo litro d'acqua, insegna dopo insegna, da un porto nordamericano moderno e appartato.
"Prima, gli americani si portavano via i monumenti, le magioni, le case europee per ricostruirle da loro. Adesso è il contrario. Tutta la Barcellona olimpica, questa nuova Barcellona, sembra il trasloco di qualcosa di essenzialmente yankee."
"Io sono straniera e non la penso come lei. Non solo, Vivo nel Villaggio Olimpico, a tre isolati dal magazzino dove Dieste faceva le prove. Questa parte della città propone un altro programma di vita che prevede di vivere il mare."
"Qui non c'è memoria."
"Questo è vero, è una parte della città senza archeologia. Come l'Argentina. Come la terra cui emigranti donavano un'identità. Nel Villaggio Olimpico coesistono emigranti da Barcellone molto diverse, e da questo moscuglio verrà fuori qualcosa."
"Ma senza memoria."
"Perché quest'ostinazione? Qui si costruirà un'altra memoria."
(Manuel Vazquez Montalban, La bella di Buenos Aires, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 28-29)
Barcellona (7)
"Calle de las Tapias non esiste più."
"E con lei scompare un segno di riconoscimento della città" suggerì la vecchia, che proseguì. "Da queste parti, in questi giorni, vengono molti intellettuali e per me è una soddisfazione sentirli. Vivono quasi tutti nei quartieri alti, ma sono molto solidali con tutto questo, fa parte della loro memoria storia o sentimentale, dicono. Penso a quelle poverette che si guadagnavano da vivere con la fica in queste strade, dove sono andate a finire queste vite, queste fiche? Da nessuna parte, signore. Perché quelle che si guadagnavano da vivere da queste parti non hanno più posto in mezzo al puttaname fighetto dei saloni di relax. (...)."
(Manuel Vazquez Montalban, La bella di Buenos Aires, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 52-53)
Barcellona (8)
La quasi inesistenza di calle de las Tapias impedì un raduno dei vicini per commentare la strana morte di Pepita di Calahorra. Per la strada ormai passano quasi solo vicesindaci che mostrano a urbanisti nazionali ed esteri come rimodellare la zona più infame di un quartiere di prostituzione. Centri civici, parchi, parcheggi, qualche impianto sportivo. Alla Dolce Vita è già arrivato l'ordine di demolizione e la ditta incaricata ha contribuito alla normalizzazione linguistica collocando l'insegna in catalano: Enderrocs Siurana.
(Manuel Vazquez Montalban, La bella di Buenos Aires, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 130)
Barcellona (9)
Il quartiere del Borne era quello dove si trovavano un tempo i mercati generali della città. Quando, negli anni Settanta, questi furono trasferiti in periferia, la vecchia struttura in ferro del mercato coperto rimase per molto tempo in stato di abbandono, finché la municipalità non decise di adibirla ad altri scopi, sul modello di Covent Garden di Londra. Ora, sia il vecchio mercato che la piazza tutt'intorno pullulano di ristoranti, boutique d'avanguardia, gallerie d'arte e negozi di mobili e oggetti di design, tutto nel più puro stile newyorkese. Manco a dirlo, il prezzo degli appartamenti nella zona è salito alle stelle. Via via che gli anziani che da sempre vivevano nel quartiere lasciavano le loro case, le imprese di speculazione immobiliare acquistavano interi stabili per ristrutturarli. Ma è così che vanno le cose nelle città: gli edifici si rinnovano, le persone possono morire negli ospizi
(Alicia Giménez-Bartlet, Gli onori di casa, Sellerio editore, Palermo, 2013, pp. 68-69)
Bonn
Non ho mai potuto capire perché chiunque voglia farsi considerare una persona intelligente si affretti a esprimere una specie di doveroso odio verso Bonn. Bonn ha sempre avuto un certo suo fascino, un fascino un po' sonnolento magari, come del resto immagino che ci siano donne che hanno un loro particolare fascino quando sono assonnate. Naturalmente Bonn non sopporta esagerazioni e con questa città si è veramente esagerato. Una città che non sopporta esagerazioni non la si può descrivere: una qualità rara, dopotutto. Anche un bambino sa che il clima di Bonn è un clima di gente che vive di rendita, consiste nel rapporto tra l'aria e la pressione arteriosa. Quello che soprattutto non si addice a Bonn è quell'atteggiamento di irritante difesa. A casa ho avuto abbondanti occasioni di parlare con funzionari dei vari ministeri, deputati, generali (...) e tutta questa gente si trova in uno stato di difesa, tesa e talvolta quasi piagnucoloso. Se parlano Bonn tutti sorridono con aria di tormentata ironia. Io questo non lo capisco. Se una donna il cui fascino è un'aria assonnata improvvisamente si mette a ballare un indiavolato can-can, si può solo pensare che sia stata drogata. Ma drogare un'intera città, questo naturalmente non è possibile. Una buona vecchia zia può insegnarti a fare un pullover a maglia, o come si lavora all'uncinetto o come si serve lo sherry; però da lei non mi aspetto che mi tenga una dissertazione di due ore, molto acuta e piena di comprensione, sull'omossessualità, o che improvvisamente cada in quel gergo da bordello di cui tutti a Bonn sentono dolorosamente la mancanza. (...)
Bonn, prima, non era davvero tanto male, con le sue stradette deserte, i vicoli, le librerie, le associazioni studentesche, le piccole panetterie con un retrobottega dove si poteva avere una buona tazza di caffè.
Prima di tentare di chiamare Leo al telefono, mi diressi zoppicando verso il balcone per gettare un'occhiata alla mia città nativa. La città è davvero molto graziosa: il Munster, i tetti di quello che fu un tempo il castello dei principi elettori, il monumento a Beethoven, il piccolo mercato e l'Hofgarten. E' il destino di Bonn che non si creda al destino che le è stato assegnato.
(Henrich Boll, Opinioni di un clown, 1963, La biblioteca di Repubblica, Roma, 2002, pp. 68-69)
Bruxelles
Tutto quello che Thomas riuscì a vedere, dapprima, fu un filare di cime d'alberi che svettavano alte e salde nella media distanza; ma poi, al di sopra della cima più alta, si riusciva a intravedere qualcosa che era chiaramente opera dell'uomo: la metà superiore di quello che sembrava essere un gigantesco globo d'argento. E mentre l'auto avanzava veloce e la prospettiva cambiava, emersero altri tre globi simili, ad altezze diverse, e collegati tra loro da luccicanti tubi d'acciaio. L'intera struttura non era ancora del tutto visibile, ma già Thomas aveva l'impressione di qualcosa di immenso e maestoso, qualcosa di sublime e ultraterreno che era stato immaginato su una scala epica dai creatori di un fumetto o di un film di fantascienza, e poi trasportato, per un miracolo di umana ingegnosità e ingegneria, nel mondo naturale.
"L'Atomium", disse Anneke con orgoglio. "Avremo una visuale migliore quando entreremo nel parco dell'Expo."
(Jonathan Coe, Expo 58, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 54)
Caserta (1)
Certo, lo avevo capito subito che quel muro era il muro della Reggia. Tutti lo sapevano, a Caserta, che cominciava dal centro della città e saliva sulle colline. Ma non avevo mai calcolato il perimetro dell'interno con le misure dall'esterno. Cioè, quando il ragazzo aveva detto: qui - non potevo rendermi conto di dove ci trovavamo.
Quindi restai senza fiato.
Eravamo in cima, appena sotto la cascata, il punto che chiunque desiderava raggiungere quando entrava nella Reggia. Avanzai lentamente, con una mano che sfiorava l'acqua oltre il bordo della grande fontana, attirato dalla statua, di una donna seminuda, coperta di un panno svolazzante, poggiato sulle parti che non bisognava vedere. Intorno a lei c'erano varie altre donne piuttosto disperate, anche loro seminude. Dalla parte opposta c'era un cervo attorniato dai cani, che sembravano malintenzionati. Del cervo mi importava poco, della donna molto di più.
(Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, Torino, 2013, pp. 8-9)
Caserta (2)
La sera del 9 luglio 1994, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è rimasto un sacco di tempo ad ammirare la fontana di Diana e Atteone nella Reggia di Caserta. Non posso dire che quelli che erano insieme a lui fossero i suoi amici, però anche lui era dentro la Reggia chiusa al pubblico, e senza nemmeno aver dovuto scavalcare. Era già buio, ma per la prima volta era stata accesa un'illuminazione notturna sull'intero parco - vuoto.
C'erano anche sua moglie Veronica, Bill e Hillary Clinton, Eltsin, Mitterand, John Major e altri. Quell'anno la riunione tra le grandi potenze del mondo, il G7 (a cui si era aggiunta la Russia di Eltsin, per un giorno), era stato organizzato a Napoli. (...) Ed era stata fissata una cena di gala, l'ultima sera, nei saloni della Reggia di Caserta. Mi raccontavano che nella nostra città c'era molta eccitazione, e lavori di riqualificazione: era stata progettata un'illuminazione speciale nel parco. Noi avevamo vissuto per tutta la vita con la Reggia che chiudeva prima del tramonto, un buio silenzioso e spaventoso accanto alle nostre case vive, in città. La sera della cena di gala, il presidente della Repubblica Scalfaro ha accolto gli ospiti, incantati dal Palazzo Reale, e le luci si sono accese illuminando l'intero parco, fino a lassù, alla cascata.
Dopo cena, le auto hanno portato tutti a fare un lungo giro, infine si sono fermate in alto, alla fontana. Berlusconi e gli altri, insieme alle mogli, sono scesi dalle auto e hanno passeggiato intorno alla fontana. Qualcuno ha anche sfiorato l'acqua con le dita. E mentre la serata era fresca e bellissima, e tutti ammiravano la sguardo sorpreso di Diana e i cani che sbranavano Atteone, l'acqua della cascata che rompeva con dolcezza il silenzio, e laggiù l'intero parco deserto e splendente, Berlusconi ha constatato che il luogo e la serata fossero molto romantici, ha atteso le traduzioni e poi si è aperto in un sorriso furbo, molto furbo, e ha concluso: "Attenzione che sennò questa notte aumentiamo la prole".
Il giorno dopo ha anche detto che una fontana così bella non l'aveva mai vista.
(Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, Torino, 2013, pp. 159-160)
Damasco (1)
"Venti, solo venti, espagnolo... ti porto a el Kassiun perché puoi ammirare Damasco, poi alla città vecchia, alla moderna, compere... ricami, bicchieri di cristallo intagliato, legno intarsiato, rame a sbalzo, mobili con madreperla incastonata... mobili di legno d'arancio, odorano di zagara!, gioielli d'argento fatti dai nomadi, tappeti persiani di prima dello Scià e di Komeini, kilim dell'Iraq o curdi, più economici che a Baghdad o nel Kurdistan turco...
(Manuel Vazquez Montalban (1994), Luis Roldan né vivo né morto, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 57)
Damasco (2)
Il suk occupava due vecchie case attigue appartenenti all'antica urbanistica francese fautrice della città-giardino per gli occupanti colonizzatori e della casbah per il buon selvaggio locale. Il cartesiano quartiere residenziale era minacciato adesso da alti edifici organicisti, funzionali o pretenziosamente postmoderni invecchiati in piena gioventù. Attraversò due cortili che sembravano patios dell'Alhambra dopo essersi lasciato alle spalle esposizioni in successione di cristallerie, tappeti, rami, ricami, e pelli decorate a sbalzo, il tutto presieduto da un ritratto scolorito di Hafez al-Assad sulla bandiera del Baath.
(Manuel Vazquez Montalban (1994), Luis Roldan né vivo né morto, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 59)
East Corinth
East Corinth era stata fondata e costruita nel 1960 da Stonecipher Beadsman II (…) un uomo di notevoli talenti e di ancor più notevoli interessi. Cinefilo accanito nonché urbanista dilettante, si era pazzamente infatuato di una stella del cinema di nome Jayne Mansfield. La sagoma di East Corinth riproduceva il profilo di Jayne Mansfield: scendeva da Shaker Heights con una folta aureola di intricati tornanti, lungo delicati lineamenti di villette e piccoli edifici, un nasino di parco e una carnosa sezione di quadrivio ridente, e quindi giù per la sinuosa curva cignea di un argine autostradale di complessi residenziali, per poi aggettare precipitosamente verso ovest in un procace rigoglio di fabbriche e aree industriali mammonesche e prosperose, dopodiché ripiegava non meno impudicamente un paio di miglia a sud in un cespo folto di palazzine e botteghe e pensioncine (…). Le famiglie e le imprese titolari di proprietà lungo il critico perimetro occidentale dell’area erano tenute dal piano regolatore a dipingere le rispettive strutture con tinte che fossero realistiche rispetto alla convenzione anatomica del disegno, condizione alla quale si opponevano specialmente i proprietari degli immobili nella estrema zona occidentale, accanto a Garfield Heights (dove il rigoglio industriale era più sodo), e non stupisce affatto che l’intera area di East Corinth fosse molto popolare fra i piloti di aerei, i quali, dovendo atterrare al Cleveland-Hopkins Airport, tendevano a farsi assegnare sentieri di approccio che sorvolassero appunto East Corinth, e facevano puntualmente un casino della madonna volando basso e accendendo e spegnendo i fari e rollando e scodinzolando.
(David Foster Wallace, La scopa del sistema, Einaudi, Torino, 2008, p. 54)
Fasana
Fasana è un dolce paesetto veneto, coi suoi vicoli sul mare; i selciati sconnessi e grigi; i piccoli porticati; la gente rada e triste che parla un veneto bellissimo (hanno dimenticato l’italiano, e per loro ormai l’italiano è il dialetto). Davanti a Fasana, nel cielo fin troppo dolce e azzurro, si stende l’isola di Brioni. C’è Tito. La gente ne parla con un tono spento e allusivo. Qui, non c’è dubbio, non siamo altrove: questo è un luogo tipico dell’Italia.
(Pier Paolo Pasolini (1991), Il caos, l’Unità/Editori Riuniti, Roma, p. 105. Da Tempo, n. 5, a. XXXI, 1° febbraio 1969)
Guangzhou (1)
L'ispettore capo Chen era in piedi sotto l'insegna della stazione ferroviaria che brulicava di viaggiatori provenienti da tutte le parti del Paese. Centro economico e culturale della Cina meridionale, Guangzhou stava rapidamente diventando una seconda Hong Kong.
Ma Guangzhou, ironicamente, aveva una storia molto più lunga di Hong Kong alle spalle, secondo quanto diceva una guida turistica che Chen aveva in mano. Aveva avuto contatti con commercianti barbari occidentali quando Hong Kong era ancora un villaggio di pescatori. Ma poi, per trent'anni, a partire dal 1949, essendo così vicina a Hong Kong, era stata messa sotto stretta sorveglianza ideologica, con il risultato che lo sviluppo culturale ed economico della città aveva subito una recessione. Fu solo quando il compagno Deng Xiaoping fece il giro delle Province del Sud nei primi anni ottanta, incoraggiando la Politica Porte aperte, che le cose cominciarono a cambiare. con la rapida crescita di mercati liberi e affari privati, una rivoluzione economica trasformò Guangzhou e le città circostanti. Guangzhou, come la vicina Shenzhen, zona speciale di grattacieli ad uso commerciale, divenne "speciale", nel senso che la maggior parte dei codici ortodossi socialisti lì non venivano applicati. Ora, i vantaggi del socialismo erano visti in termini di una vita migliore e più prosperosa per la gente, capitalisti e investitori stranieri arrivavano come api sul posto. La sua vicinanza con Hong Kong era stata accentuata dalla costruzione di una nuova linea ferroviaria.
(Qiu Xiaolong, La misteriosa morte della compagna Guan, Marsilio, Venezia, 2000, pp. 299-300).
Istanbul
Batuhan mi fece salire sulla sua auto rosso fiammante e si diresse verso la kebaberia che aveva scoperto da poco, percorrendo una serie di strade secondarie nel quartiere di Aksaray e sbucando infine vicino al mare. Per me fu una totale sorpresa. D'altronde Istanbul è una città enorme, non ci si può aspettare che i suoi abitanti la conoscano tutta. Di sicuro quelli come me, che sono diventati stambulioti in un secondo momento, non possono conoscere ogni quartiere. E poi io sono un'esteta, perché dovrei frequentare Aksaray? L'unica attrazione del quartiere è una bella moschea. Una bellissima moschea, in realtà. Fra tutte quelle di Istanbul è la più ricca di ornamenti. Inoltre è dedicata a una donna, Pertevniyal Valide Sultan.
Se però mi chiedete qual è la mia preferita, quella che mi tocca più nel profondo, non ho dubbi: è la moschea di Suleymaniye, progettata dall'architetto Sinan e costruita su una delle sette colline della città. Il suo profilo domina la storica penisola dove sono concentrate quasi tutte le testimonianze architettoniche di Bisanzio, di Costantinopoli e dell'Impero ottomano. Insieme agli altri edifici storici della zona, tra cui l'Università di Istanbul, forma un insieme di impareggiabile armonia.
(Esmahan Aykol, Appartamento a Istanbul, Repubblica-L'espresso, Roma, 2012, ed. or. 2004, p. 224)
Kaiseri
Kaiseri è l’antica Cesarea (quella della Cappadocia). Vi si arriva attraverso una grande valle, desertica, con in fondo un lago dimenticato, e intorno rade montagne violette, regolari, con declivi molto dolci che si perdono insensibilmente nella valle la cui terra è resa oscura dalla pioggia.
Compare prima a destra una grande fabbrica, nuova, ma già invecchiata e un po’ franante, e a sinistra, il villaggio costruito per gli operai della fabbrica (…). Poi si para davanti agli occhi la città. Si tratta pur sempre di Cesarea, anche se oggi non è che il capoluogo di un distretto nel centro dell’Anatolia. Io mi ricordo di San Paolo, e le sue lettere mi sembrano scritte ieri. Meno amore ho per il «Caesar» (non so quale, lo confesso) che ne fu il fondatore, o per tutti gli altri «Kaiser» che l’hanno poi tenuta, dai Selgucidi ai Turcomanni. Sono essi che l’hanno ridotta a quella città miserabile, medioevale, levantina, che mi immagino di star per visitare. Sento già l’odor di spezie e di grasso nei vicoli fumiganti, brulicanti di povera gente che non si sa come viva: pulviscolo destinato a fissarsi e a essere catalogato, poi – nella terra oscura, percorsa dai pastori – da brulicanti ma immobili distese di piccole pietre. Invece, percorso un vialone a doppia carreggiata, con case moderne e caserme, qualche distributore di benzina, file di gente per i marciapiedi un po’ sconnessi, vestita di scuro, coi calzoni e i soprabiti corti di taglio vagamente parigino, ecco comparire, dietro un piazzale, la piccola città. Kaiseri è stata, visibilmente, rasa al suolo poche settimane o mesi fa; ed è stata completamente ricostruita sulle rovine dei suoi vicoli, che compaiono ancora, come monconi, qua e là, tra il cemento e le vetrate. Al centro, il forte con le mura di cinta romane racchiude un vecchio «suck» dove si vendono esclusivamente oggetti di plastica, confezioni in serie (oltre, naturalmente, ai formaggi e ai cereali).
(Pier Paolo Pasolini (1991), Il caos, l’Unità/Editori Riuniti, Roma, pp. 123-124. Da Tempo, n. 12, a. XXXI, 22 marzo 1969)
Londra
Quando alla fine si rassegnò a concentrare la propria attenzione fuori dal finestrino, lo aveva pervaso un ben noto senso di misantropia che lo portò a vedere nel paesaggio edificato nient'altro che bruttezza e insensata alacrità.
Dal suo rifugio di Londra, immerso nella sua egocentrica routine, non era difficile a Clive pensare alla civiltà come alla somma di tutte le arti, compresi design, cucina, buon vino e consimili. Ora però la realtà gli si mostrava per quello che era: chilometri quadrati di squallidi edifici moderni, in cui scopo essenziale era quello di sostenere antenne televisive e paraboliche; fabbriche nelle quali si produceva ciarpame inutile da reclamizzare in Tv e, su desolate distese, file di camion pronti al carico e alla distribuzione di quello stesso ciarpame; infine, a perdita d'occhio, soltanto strade e la tirannia del traffico.
Lo scenario era quello di un grossolano ricevimento, il mattino dopo. Nessuno l'avrebbe voluto così, ma a nessuno era stato chiesto un parere. Nessuno aveva previsto né scelto tutto questo, ma la maggior parte della gente era costretta a viverci.
A osservarlo in quel modo, chilometro dopo chilometro, chi avrebbe mai detto che fossero esistite la gentilezza d'animo, l'immaginazione, e Purcell e Britten, e Shakespeare e Milton? Di quanto in quanto, ora che il treno acquistava velocità e si allontanava di più da Londra, compariva qualche scorcio di campagna e con essa l'inizio di una bellezza, o per lo meno la sua memoria, finché, pochi secondi dopo, l'illusione si dissolveva alla vista di un fiume costretto dentro un canale in cemento o di un'improvvisa spianata di coltivazioni senza più un albero né una siepe, e strade, nuove strade incessanti e spudorate, come se contasse soltanto l'essere altrove. Rispetto al benessere di qualunque altra creatura vivente sulla terra, il progetto umano non era stato solo un fallimento, ma un autentico errore sin dal principio.
(Jan McEwan, Amsterdam, Einaudi, Torino, 1998, pp. 63-64)
Madrid (1)
La Madrid mitica di Lavapiés si trasformava in un fiume di auto in cerca della strada per l'Andalusia lungo un burrone di quartieri di cemento a basso costo e vetri bisunti.
(Manuel Vazquez Montalban, Assassinio a Prado del Rey, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 66)
Madrid (2)
Madrid fu una città con un milione di cadaveri negli anni quaranta, come sosteneva la metafora poetica di Damaso Alonso, angosciato davanti alla città del crudele dopoguerra, piena di signori feudali fascisti che calpestavano tutto ciò che avevano vinto. Poi divenne la città con un milione di panciotti e Ford Granada, quando la democrazia issò al potere i trentenni degli anni settanta i quali riempirono il vuoto lasciato dal franchismo con la sottigliezza del liberalismo centrico, centrista e centrato. Attualmente era una città con un milione di fogne lungo le quali circolavano le bande segrete di tutte le fazioni del potere politico, economico, militare, multinazionale.
(Manuel Vazquez Montalban (1994), Luis Roldan né vivo né morto, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 44)
Milano (1)
Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.
(Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, Introduzione, 1840, Tascabili Bompiani, Milano, 1985, p. 3)
Milano (2)
Una città dove ci sono più semafori che alberi, più discoteche che licei classici, più happy hour che librerie.
(Giacomo Poretti, citato da Gianni Mura, Rubrica "Sette giorni di cattivi pensieri", Repubblica, 11/11/2012)
Milano (3)
Mentre Toku guidava, guardai dal finestrino pezzi di città che non riconoscevo. In esilio leggevo sempre di Milano, sui media c'era un costante vomitare di notizie esaltanti. I turisti stranieri che l'avevano eletta meta numero uno, CityLife con le sue torri storte, il Bosco Verticale che i cinesi volevano copiarci, l'Hangar Bicocca con le Torri del Silenzio, la Fondazione Prada, la Darsena ristrutturata ei suoi mercatini, le microbrew, i panini gourmet.
I soldi. Tutti parlavano di soldi a Milano. Tutti ne volevano almeno fiutare l'odore. Erano la nuova cocaina, vedevi il simbolo del dollaro negli occhi dei giovani tornati dal master, tatuato sul culo delle influencer, impresso sulla targa delle auto sportive parcheggiate a Brera.
Il mio ex compagno di battaglie, invece, aveva abitato nella zona a Nord che in quel periodo veniva chiamata NoLo, un lungo viale che usciva dai confini cittadini affollato di insegne al neon di cinesi all you can eat, fruttivendoli arabi e minimarket.
(Sandrone Dazieri, La danza del gorilla, Rizzoli, Milano, 2019, pp. 13-14 )
Napoli (1)
Il corso di Posillipo era invaso, in tutta la sua ampiezza, dai giovani che scorrazzavano su motorette scoppiettanti, puzzolenti e all'ultima moda. I vecchi li seguivano con lo sguardo. Uno stormo di uccelli volava verso Capo Posillipo, in una formazione a V. Il sole tramontava dietro Baia, lasciando dietro di sé, in fondo al cielo di un blu intenso, una spessa e oleosa macchia dorata. A Bagnoli ululavano le sirene dell'Ilva. Erano sirene rimaste lì dal tempo della guerra, quando avevano il compito di segnalare i bombardamenti e il pericolo di morte. Le file di case, soprattutto nei pressi del porto, mostravano tutta una serie di buchi, là dove le bombe avevano disordinatamente compiuto la loro opera di distruzione, perché gli americani non miravano su obiettivi precisi.
(Sandor Marai, Il sangue di San Gennaro, (1965), Adelphi, Milano, 2010, pp. 23-24)
Napoli (2)
Nella chiesa di Santa Brigida si celebrava di continuo la messa. C'erano sempre dei fedeli seduti davanti agli altari illuminati dai ceri fumiganti. Era una chiesa molto elegante. Aveva un'illuminazione e un odore particolari, sebbene di tanti in tanto - per esempio nel periodo prima della Pasqua, quando migliaia di persone vi si affollavano e cantavano le litanie delle Tre ore d'agonia - esalasse un lezzo insopportabile, acido e muffoso. Altrimenti in chiesa dominava un intenso profumo di fiori. Pur non essendo frequentata solo dall'alta società, non mancava di raffinatezza, e delle trecento chiese di Napoli era una di quelle in cui entravano, senza distinzione, individui di ogni specie, principi e contrabbandieri, prostitute e gran dame. Era una chieda diversa, più autentica della maggior parte delle chiese napoletane, le quali erano più che altro semplici luoghi di culto costruiti all'interno di grandi palazzi o incuneati nel labirinto dei vicoli: chiese del genere erano addirittura abitate, e dalla finestra sopra l'entrata principale pendevano ad asciugare pannolini e mutande, e di tanto in tanto all'interno aleggiava un odore di pietanze fritte, perché il sagrestano o il sacerdote cucinavano nella sagrestia.
In tali chiese di second'ordine e poco frequentate abitavano - senza dare troppo nell'occhio ma con grande naturalezza - chierici, laici, semichierici o semilaici: qui si riproducevano e celebravano battesimi, si ammalavano e morivano. La maggior parte di loro partecipava pienamente alla vita delle abitazioni contigue. Nei vicoli e nelle vicinanze delle chiese, non erano rari i bordelli, le osterie, le piccole trattorie. E il napoletano - obbedendo di volta in volta agli stimoli dell'esistenza o della religiosità - al mattino presto, andando al lavoro, si infilava con la medesima prontezza, nel bar, per tracannare una tazzina di caffè nero bollente e dolce, e in chiesa, per supplicare il santo di concedergli la grazia. (...) E del resto, una volta uscito dalla chiesa, lo stesso napoletano non esitava a entrare nel bordello più vicino, per fermarvisi qualche minuto appena. In stretta relazione con tutto ciò che appartiene alla vita e agli uomini, la chiesa e i santi non erano considerati una sfera isolata, protetta da diritti extraterritoriali e a cui si doveva un rispetto privilegiato, particolare.
(Sandor Marai, Il sangue di San Gennaro, (1965), Adelphi, Milano, 2010, pp. 99-100)
Napoli (3)
Nel vento freddo di quel mercoledì mattina, il commissario Ricciardi scendeva da piazza Dante. Le mani infilate nelle tasche del soprabito grigio scuro, la testa incassata nelle spalle. Camminando a passo svelto, senza guardarla, sentiva la città.
Sapeva che avrebbe varcato, nel percorso da piazza Dante a piazza del Plebiscito, un invisibile confine tra due realtà distinte: a valle, la città ricca, dei nobili e dei borghesi, della cultura e del diritto. A monte, i quartieri popolari, al cui interno vigeva un altro sistema di leggi e norme, altrettanto o forse più rigido. La città sazia e quella affamata, la città della festa e quella della disperazione. Quante volte Ricciardi era stato testimone del contraddittorio tra le due facce della stessa medaglia.
Il confine: via Toledo. Palazzi antichi, muti sulla strada ma già rumorosi sul retro, le finestre spalancate sui vicoli, i primi canti delle massaie. Le porte delle chiese, dalle facciate incastrate fra gli alti edifici, si aprivano ad accogliere i fedeli che raccomandavano la giornata a Dio. Sulle larghe pietre che pavimentavano la strada rotolavano le ruote dei primi omnibus.
La mattina era uno dei pochissimi momenti in cui si realizzava un'osmosi: dal dedalo di vicoli dei Quartieri Spagnoli scendevano su via Toledo i carretti degli ambulanti, con le merci più disparate e i suoni festosi di richiamo; dai quartieri popolari del porto e dalla periferia, artigiani dalle abilissime mani, calzolai, guantai, sarti salivano verso il labirinto, per arrivare al nascente quartiere residenziale del Vomero o alle botteghe dei vicoli oscuri. A Ricciardi piaceva pensare che quello era un momento di pacificazione, di scambio, prima che la coscienza della disparità e la fame portassero gli uno a rodersi dall'invidia e a meditare il delitto, gli altri a temere l'attacco e a inasprire la sferza.
(Maurizio De Giovanni, Il senso del dolore, Einaudi Editore, Torino, 2012, pp. 12-13)
Napoli (4)
Uscendo dalla Galleria, quando alla guida della piccola squadra composta da Maione e da tre guardie si trovò in cima alla breve rampa di scale di marmo che dava in strada, Ricciardi vide l'usuale panorama: l'imponente mole di Palazzo Reale, l'elegante porticato dal quale si entrava a teatro; a destra, le luci di piazza Trieste e Trento, i caffè pieni di vita e allegria. Un suono soffuso di musica e risate. A sinistra, oltre il Castello angioino e gli alberi di piazza del Municipio, il tuono del mare nel porto.
(Maurizio De Giovanni, Il senso del dolore, Einaudi Editore, Torino, 2012, p. 21)
Napoli (5)
Ricciardi pensò a quanto potesse cambiare, la città, col cambiare del tempo. Nel vento freddo e nella luce incerta, i vecchi palazzi brulicanti di vita diventavano grotte scure, e i cantieri delle nuove costruzioni sembravano monumenti alla solitudine e all'abbandono.
(Maurizio De Giovanni, Il senso del dolore, Einaudi Editore, Torino, 2012, p. 50)
Napoli (6)
Il tram non sarebbe partito prima di un quarto d'ora. Decise di affacciarsi al nuovo belvedere. La città si stendeva ai suoi piedi, sotto un cielo sempre più carico di pioggia: a vederla così, mentre si accendevano le prime luci, non sembrava ribollire di passioni o emozioni. Ma Ricciardi sapeva bene quanti strati c'erano, sotto quell'apparente tranquillità. Nessun delitto, solo sicurezza e benessere di regime: così era sancito, per decreto. Ma i morti vegliavano nelle strade, nelle case, a chiedere pace e giustizia.
Si accostò al muretto: sotto di lui la tortuosa scalinata di via Pedamentina che da San Martino portava al corso Vittorio Emanuele. Un cammino lungo e dolce, che fiancheggiava un declivio di vegetazione fitta. Le luci sospese, a illuminare la scalinata, ondeggiavano nel vento.. Ma il tardo pomeriggio ancora rischiarava un piccolo parco con le panchine, il ritrovo degli innamorati che non potevano pagarsi una stanza per tre mesi e neanche per tre ore
(Maurizio De Giovanni, Il senso del dolore, Einaudi Editore, Torino, 2012, p. 89)
Napoli (7)
- Questa, voi me lo insegnate, è una strana città. Schiacciata fra il mare, le colline e la montagna. Continua a crescere su sé stessa. I vicoli si stringono, i palazzi si allungano. Uno sull'altro, sempre di più, pur di non allontanarsi. E così siamo tutti in contatto continuo. Uno sull'altro, pur di non allontanarsi.
(Maurizio De Giovanni, Il posto di ognuno, Einaudi Editore, Torino, 2012, p. 107)
Napoli (8)
Non c'era un posto in città in cui era più Natale che a San Gregorio Armeno. Era la via dei figuranti, quei particolari artigiani che operavano sulla linea di confine coi veri artisti preparando le statuine in terracotta che venivano utilizzate per i presepi. Ce n'erano di tutti i tipi: da quelli che ci mettevano mesi per fare una sola testa e due mani - che, opportunamente cestite sul corpo di fil di ferro e stoppa da un abito confezionato dai migliori sarti, avrebbero completato, in modo indistinguibile dall'originale, i presepi più antichi - a quelli che producevano con gli stampi decine di pastori in terracotta al giorno, tutti uguali nella forma ma diversi nei colori della pittura frettolosa, un soldo l'uno, per la felicità dei bambini più poveri.
Quegli artigiani non potevano saperlo, e infatti non lo sapevano: ma la tradizione di quella strada affondava le radici nelle nebbie dell'antichità. Era il luogo in cui, quando il mondo era molto più giovane, venivano costruite statuette in terracotta celebrative di Cerere, dea dell'abbondanza alla quale era stato eretto un celebre tempio: e quelle statuette erano un ricordo apprezzato e benvoluto di un lungo pellegrinaggio, e partivano per tutto il mondo nei sacchi dei fedeli che tornavano alle proprie campagne.
Su quel tempio da più di mille anni era sorta una chiesa, e poi un'altra. Napoli era sempre stata una città sedimentaria, che proponeva uno strato per ogni epoca mantenendo il genius loci.
(Maurizio De Giovanni, Per mano mia. Il Natale del commissario Ricciardi, Einaudi Editore, Torino, 2011, p. 154)
Newark
L'Acquai e Lavandini Patimkin si trovava nel cuore del quartiere negro di Newark. Anni addietro, al tempo della grande immigrazione, era stato il quartiere ebraico, e si potevano ancora vedere le piccole pescherie, le gastronomie kosher e i bagni turchi dove i miei nonni avevano fatto la spesa e si erano immersi all'inizio del secolo. Erano rimasti persino gli odori: coregone, manzo salato, pomodori all'agro ... Ma ora, sopra tutti questi, c'era l'odore più forte e più oleoso delle officine dove demolivano le macchine, il tanfo acido di una birreria, l'odore di bruciato di una manifattura di pellami; e nelle strade, invece dello yiddish, si sentivano le urla dei negretti che giocavano a fare Willie Mays con un manico di scopa e mezza palla di gomma. Il quartiere era cambiato: gli ebrei vecchi come i miei nonni avevano lottato ed erano morti, e i loro discendenti avevano lottato e fatto fortuna, e si erano spostati sempre più a ovest, verso la periferia di Newark, poi ne erano usciti e si erano spinti sulle pendici dei monti Orange fino a raggiungere la cresta, e avevano cominciato a scendere dall'altra parte, riversandosi nel territorio dei gentili come gli scozzesi e gli irlandesi si erano riversati verso il Cumberland Gap. Ora, in pratica, i negri stavano facendo la stessa migrazione, seguendo le orme degli ebrei, e quelli che restavano nel Terzo Distretto facevano la più squallida delle vite e sognavano sui fetidi materassi l'aria balsamica delle notti della Georgia.
(Philip Roth, Goodbye, Columbus, (1959), Einaudi, Torino, 2012, pp. 78-79)
New York (1)
Figuratevi che era in piedi la loro città, assolutamente diritta. New York è una città in piedi. Ne avevamo già viste noi di città, sicuro, e anche belle, e di porti e di quelli anche famosi. Ma da noi, si sa, sono sdraiate le città, in riva al mare o sui fiumi, si allungano sul paesaggio, attendono il viaggiatore, mentre quella, l’americana, lei non sveniva, no, lei si teneva bella rigida, là, per niente stravaccata, rigida da far paura.
(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, (1952), Corbaccio, Milano, 2010, p. 208)
New York (2)
New York, rispetto agli anni settanta, è molto peggiorata. E' diventata ordinata e addormentata, come una città svizzera o un paese svenuto della Provenza.
Prima c'era l'imbarazzo della scelta delle puttane. Ora non solo non c'è l'imbarazzo della scelta, ma non ci sono proprio più le puttane. Una vergogna! Times Square e le strade limitrofe erano un osservatorio del mondo. Papponi, barboni, reietti, rifiuti, disturbati mentali, turisti affamati di droghe, crimini e ossessioni sessuali. Tutto svanito. La città vivente si è imbucata altrove. Il resto si è incanalato nell'aberrazione di un commercio asettico. Neon e luci scintillanti che un tempo proliferavano senso in virtù del loro opposto: il buio dell'umanità ingarbugliata e cadente nei vicoli e nei peep show, ora non c'è più.
Le luci rimandano solo ad altre luci. La città un tempo più frastagliata del mondo si è ridotta a un blocco monotematico fru fru. Scomparsi i mafiosi, Little Italy, i bar malfamati, è diventato tutto un gigantesco progetto di studenti isterici, turisti abbagliati dai computer, modelle che cascano agli angoli di strada per denutrizione.
Hanno mandato via la parte migliore della città credendo che fosse la peggiore.
Un errore imperdonabile.
Prima potevi osservare l'uomo e le sue degenerazioni, ora l'uomo e i suoi buoni propositi.
New York è diventata un conclave di ipocrisia. L'unica perversione sopravvissuta è l'obesità. Ma si stanno applicando come forsennati per eliminare pure quest'ultima bruttura che a me appare una tenera, fiera bellezza.
(Paolo Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 80)
New York (3)
Ellen, che nella sua agenzia immobiliare sulla Settima lavorava all'ufficio locazioni, gli parlò di Sunset Park. Era una zona meno tranquilla, disse, ma non lontana da dove stava adesso, e gli affitti erano la metà o un terzo di quelli di Park Slope. Quella domenica andarono a esplorare il territorio fra la Quindicesima e la Sessantacinquesima di Brooklyn Ovest, un'area vasta ed eterogenea che corra dalla Upper New York Bay alla Nona Avenue ospitando oltre centomila persone, tra cui Messicani, Dominicani, Polacchi, Cinesi, Giordani, Vietnamiti, bianchi Americani, neri americani, e una comunità di cristiani del Gujarat, in India. Magazzini, fabbriche, esercizi del lungomare abbandonati, vista sulla Statua della Libertà, , l'Army Terminal chiuso dove un tempo lavoravano diecimila persone, una basilica dedicata a Nostra Signora del Perpetuo Aiuto, bar per motociclisti, sportelli di cambio degli assegni, ristoranti ispanici, la terza più estesa Chinatown di New York e i duecento ettari del Green-Wood Cementery dove sono sepolti seicentomila corpi, tra cui quelli di Boss Tweed, Lola Montez, Currier and Ives, Henry Ward Beecher, F.A.O. Schwarz, Lorenzo Da Ponte, Horace Greeley, Louis Comfort Tiffany, Samule F.B. Morse, Albert Anastasia, Joey Gallo e Frank Morgan - il mago de Il mago di Oz.
(Paul Auster, Sunset Park, 2010. Einaudi, Torino, 2012, p. 61)
Padova
Padova non è città di mare, il suo mare è Venezia; non è città di monte, il suo monte è Vicenza; non è città di colle, il suo colle è Este. Al sabato sera Padova si svuota dei suoi abitanti, che vanno al mare, ai monti o ai colli, dove hanno un’altra casa, con altra servitù, un giardino recintato, un poligono di tiro: dalle piazze della città, orlata di una cintura di paesetti abitati dal lavoratori che non sono più contadini ma non ancora operai, si sentono lontano, sulle vette dei colli, gli spari delle esercitazioni, e la gente va via tranquilla come se sentisse di avere un suo esercito pronto per qualsiasi nemico.
(Ferdinando Camon, Occidente, Garzanti, Milano, 1975, p. 8)
Palizzolo
Paisi di settimila bitanti, assistimato propio al centro di granni latifondi, nel milli e noviciento e uno Palizzolo vantava dù marchisi, quattro baruni, un duca di centodù anni che non nisciva cchiù dal castello e un martiri antiborbonico, l'avvocato Ruggero Colapane, 'mpiccato sulla pubblica piazza per aviri aderito alla Repubblica partenopea.
Ma il vanto maggiore erano le otto chiese, ognuna addotata di campanile e di campane accussì potenti che quanno sonavano tutte 'nzemmula per le case era priciso 'ntifico a 'na passata di terremoto.
La nobiltà e i proprietari terrieri setti di quelle otto chiese se l'erano spartute in base a 'ntipatie e simpatie, parentele accettate e parentele arrefutate, vecchi rancori, sciarratine risalenti ai tempi di Carlo V, cause civili accommenzate all'ebica di Federico II di Svevia e continuate fino a doppo l'Unità d'Italia, odii implacabili e amori variabili.
(Andrea Camilleri, La setta degli angeli, Sellerio Editore, Palermo, 2011, p. 18-19)
Pechino (1)
Uscendo dall'hotel chiamò un taxi, e disse all'autista di andare al mausoleo del presidente Mao in piazza Tiananmen. Dopodiché, pensò, avrebbe potuto prendere una scorciatoia attraverso il museo della Città Proibita fino al ristorante Fangshan al Parco del Mare del Nord.
"Lei è fortunato. Questa settimana il mausoleo è aperto" disse il tassista senza girarsi. "Proprio ieri ci ha portato un altro cliente."
"Grazie."
"E' al centro di piazza Tiananmen" disse l'autista, che aveva scambiato Chen per un nuovo visitatore della città. "Il feng shui del mausoleo è veramente pessimo."
"Che intende dire?"
"Pessimo per il defunto, no? Neanche un mese dopo la morte di Mao, con la salma che ancora non era stata neppure ben sistemata nella bara di cristallo, Madame Mao è stata sbattuta in galera in qualità di capo della Banda dei Quattro. E poi è di cattivo auspicio anche per via della piazza. Lei sa cos'è successo lì nel 1989. Un massacro. Prima o poi dovranno togliere il corpo, altrimenti ci saranno altri guai."
(Qiu Xiaolong, La ragazza che danzava per Mao, Marsilio Editore, Venezia, 2012, p. 224-225)
Pechino (2)
Impiegarono soltanto quindici minuti per arrivare a Porta Xinhua, il magnifico ingresso frontale che si trovava a ovest di Porta Tiananmen.
In origine, il Mare Centrale e Meridionale era stato una sorta di estensione della Città Proibita, con giardini, laghi, ville, boschi e padiglioni per la famiglia imperiale. Dopo la caduta della dinastia Qing, Yuan Shikai, il primo presidente della Repubblica cinese, lo scelse come sede dei suoi uffici governativi. Per Yuan, che in seguito non riuscì a diventare imperatore, si trattò di una scelta simbolicamente significativa, perché il Mare Centrale e Meridionale era sinonimo di Città Proibita.
Dopo il 1949 venne trasformato in un complesso residenziale per gli alti dirigenti del Partiro, racchiuso da alte mura e dotato di lussi inimmaginabili, che garantiva anche privacy e sicurezza.
Quella mattina l'ingresso del Mare Centrale e Meridionale, sorvegliato da due soldati armati, appariva quasi uguale a quello della dinastia Qing, con le mura rosse, le lucide tegole gialle come ai tempi antichi e il cancello vermiglio, da cui si intravedeva un grande divisorio che recava un'iscrizione di Mao in caratteri dorati: SERVIRE IL POPOLO.
(Qiu Xiaolong, La ragazza che danzava per Mao, Marsilio Editore, Venezia, 2012, p. 264-265)
Pisa (1)
Tutto questo insieme di cose - la giornata, il respiro rinfrancato, l'avere qualcosa da fare - avevano innalzato l'umore di Massimo a un tale livello che nemmeno la prospettiva di entrare a Pisa con l'automobile era riuscita a mettergli in moto l'altrimenti automatico giramento di palle.
Spaventati dalla prospettiva che l'automobilista pisano potesse impigrirsi, i solerti lavoratori dell'assessorato al traffico avevano infatti creato, con la rete stradale, una vera e propria città parallela, una specie di perverso labirinto di sensi vietati, rotonde assurde e ingorghi danteschi. La città parallela era a sua volta abitata da cittadini paralleli, gli automobilisti: temporanei avatar in carne ed ossa che imprigionati dentro il loro abitacolo, a sua volta imbottigliato nella ineludibile densità del traffico urbano, mostravano esclusivamente il lato Hyde della loro personalità incazzandosi come gorilla con qualsiasi cosa accadesse, dentro o fuori dall'auto.
La sensazione che Massimo aveva talvolta, guidando dentro questo ammonticchiato casino, era che il Comune non avesse avuto l'intenzione di ottenere una rete stradale, quanto piuttosto un minigolf. Strisce gialle di piste ciclabili, pralinate di catarifrangenti, ti delimitavano il percorso; allegri blocchi di plastica bianchi e rossi, disposti a imitare una rotonda, ti costringevano a insulsi scavalcamenti e rallentamenti; enormi vialoni immettevano in anguste stradine medievali con tanto di arco, alla fine delle quali un unico posteggio libero, se eri fortunato, ti attendeva per poter finalmente mettere l'automobile in buca.
(Marco Malvaldi, Il gioco delle tre carte, Repubblica/l'Espresso, 2012, pp. 99-100)
Pisa (2)
Una volta giunti in piazza del Duomo, verso le cinque, i soci cinghiali si erano messi diligentemente in fila di fronte al battistero, ognuno con il proprio biglietto in mano. Il biglietto per la comitiva era stato acquistato dal Bernardini la mattina stessa, in modo da terminare la giornata secondo il piano prestabilito.
Detto piano intendeva sfruttare in tutta la sua potenza la meravigliosa acustica del battistero di San Giovanni.
"E' davvero così particolare?".
"Straordinaria, commissario. Ed è tutto dovuto all'architettura. Vede, deve sapere che il battistero ha una struttura interna assolutamente peculiare, e geniale come concezione. Peculiare perché la cupola, in realtà, sono due cupole concentriche; c'è una cupola interna, dodecaedrica, sulla quale è stata chiusa una cupola esterna, che invece è emisferica. Geniale perché il battistero stesso, in realtà, è un indovinello".
"Eh?".
"Un indovinello. Non me lo sto inventando, è roba seria. In pratica la cupola interna, essendo un dodecaedro, ha dodici spicchi, mentre il basamento è diviso in venti archi. Il minimo comune multiplo tra dodici e venti è sessanta, e infatti la parte superiore e quella inferiore sono raccordate da sessanta colonnine, cinque per ogni spicchio".
La mascella del commissario si aprì lievemente.
"E cinque è proprio il numero caratteristico del progetto, perché il monumento ...".
La mascella del commissario si richiuse.
Risparmiamo al lettore i dieci minuti seguenti, nei quali Massimo ritenne necessario spiegare nel dettaglio al commissario, così come lo aveva raccontato qualche giorno prima ai membri della Loggia, il mirabile progetto del Diotisalvi, basato sulla costruzione di una stella a cinque punte inscritta in un pentagono regolare tramite il solo uso di riga e compasso, e di come tale costruzione mettesse in relazione la struttura interna con quella esterna tramite il numero noto come "sezione aurea"; numero che ormai a ognuno di noi, grazie a Dan Brown, è noto essere alla base di ogni bell'oggetto realizzato dall'uomo, e che nel battistero di San Giovanni si concretizza in una straordinaria capacità di armonizzare qualunque suono.
(Marco Malvaldi, Il Capodanno del Cinghiale, in AA.VV., Capodanno in giallo, Sellerio Editore, Palermo, 2012, pp. 252-254)
Ravello
Vicino a Salerno, lasciando la costa, avevamo raggiunto Ravello. Là, l'aria più pungente, la seduzione delle rocce piene di anfratti e sorprese, la profondità misteriosa dei precipizi, accrescendo le mie forze e la mia gioia, favorirono nuovi slanci.
Più vicini al cielo di quanto non sia lontana la riva, Ravello sorge su una balza scoscesa di fronte alla riva piatta e lontana di Paestum. Al tempo della dominazione normanna, era una città abbastanza importante; ora non è che un piccolo villaggio, dove noi eravamo, credo, i soli stranieri. L'albergo nel quale soggiornammo era stato un antico monastero; situato all'estremità della rupe, le sue terrazze e il suo giardino sembravano cadere a strapiombo nell'azzurro. Oltre il muro carico di pampini, a prima vista non appariva altro che il mare; bisognava avvicinarsi al muro per scorgere il pendio coltivato lungo il quale scalinate più che sentieri uniscono Ravello alla riva. Sopra Ravello, la montagna proseguiva. Ulivi ed enormi carrubi; alla loro ombra crescevano ciclamini; più su molti castagni, aria fresca, piante del nord; più in basso, vicino al mare, limoni. Sono disposti in piccoli appezzamenti, giardini a terrazze, quasi tutti simili fra loro, come vuole la pendenza del terreno; un vialetto li attraversa, nel mezzo, da un capo all'altro; vi si entra senza far rumore, come ladri. Sotto quest'ombra verde, si può sognare; il fogliame è fitto, pesante; neanche un raggio di sole vi penetra direttamente; i limoni pendono profumati, come gocce di cera; nell'ombra sono bianchi e verdastri; sono a portata di mano, per chi ha sete; sono dolci, aspri; rinfrescano.
(André Gide, L'immoralista, 1902, La biblioteca di Repubblica, Roma, 2003, pp. 54-55)
Roma (1)
Giungo a Roma. L’Eur, il viale Cristoforo Colombo, la Garbatella ricostruita in parte in stile neocapitalistico, ecc. La differenza tra la nuova Roma e la nuova Ankara consiste soltanto nel fatto che Ankara è più nuova, e ha appunto come modello Manhattan. Ma sia la nozione dell’antica Roma sia la nozione dell’antica Ancira, sono completamente travolte e deformate: non è detto che il «significato» o il «sentimento» di un muro classico o medioevale non cambi per la presenza, incombente o anche abbastanza rispettosamente lontana, di altri muri: i «semantemi» delle città cambiano, ma il cambiamento (…) può essere degenerazione.
(Pier Paolo Pasolini, Il caos, l’Unità/Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 125. Da Tempo, n. 12, a. XXXI, 22 marzo 1969)
Roma (2)
Le grandi città. è notorio, la notte non dormono. Solo la domenica mattina.
Se piove, dormono un po' di più, alleggerite dei sensi di colpa. Inoltre, un discreto tasso di umidità garantisce che la domenica mattina assomigli, in termini demografici, al quindici agosto. Questa fortunosa convergenza di eventi mi ha spinto a fare ciò che non faccio quasi mai a causa degli acciacchi implacabili dell'anziano: la passeggiata.
Dunque, ho puntato Trastevere, la chiesa di Santa Cecilia. Neanche un turista volenteroso sul mio cammino.
Roma, finalmente, assomigliava a quel che è: una straordinaria città morta.
E' l'integrità del cadavere il grande miracolo estetico e mistico di Roma.
Essa non conosce il degrado del corpo.
Morta duemila anni fa, la città, anziché puzzare, profuma ancora di montagna. Il profumo di montagna a Roma non finisce mai di ubriacarmi e di addensarmi la gioia. (...)
Se Roma profuma di montagna lo si deve agli architetti.
E io non finirò mai di ringraziarli, gli architetti. Mi lasciano vivere in città e, mentre passeggio, mi fanno credere di avere la seconda casa a Selva di Val Gardena. (...)
Si diceva che Roma è morta. Questo è il motivo per cui, stringi stringi, è il posto migliore del mondo in cui vivere. Per sentirsi vivi, non bisogna forse ossessivamente relazionarsi alla morte?
E se poi la morte ha le sembianze di una rutilante, incedibile bellezza, non ti senti ancora più vivo? Sì, è un'illusione, senza dubbio. Ma non c'è niente di male a traversare l'esistenza dentro una bolla d'illusione. (...)
La chiesa di Santa Cecilia. Finanche la mia ignoranza, diffusa nel mio corpo sotto forma di vistose metastasi, non occlude la cosiddetta sensibilità. Dinanzi alla bellezza so cogliere non solo la bellezza, ma anche la sua congenita fragilità. (...)
Sebbene fatta della stessa fibra di fragilità, la chiesa di Santa Cecilia, forse perché fortemente raccomandata da un solido establishment di santi, preserva nei secoli la sua bellezza calma, addormentata, moribonda. Vi entro ed è sempre la stessa storia. Esiste il silenzio, e poi esiste il silenzio della chiesa, che è un'altra cosa. E' un silenzio con l'eco, un dolce rimbombo, quello che alcuni chiamano l'alito di Dio.
(Paolo Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 86-90)
Roma (3)
Mentre raggiungevamo l'albergo in taxi, la mia mente si popolava di immagini del passato. Del mio passato romano. Il viceispettore aveva colto nel segno: mi sentivo come una vecchia attrice, celebre un tempo, che ritrova nella memoria una città sul filo dei suoi successivi mariti. Con tutti e tre avevo visitato Roma. Hugo, che era stato il primo, aveva scelto Roma come destinazione del nostro viaggio di nozze. Quanto tempo era passato da allora? (...) In quel viaggio tutti i luoghi che visitavano mi riportavano a corsi di studio, libri letti, film visti, dipinti di cui avevo contemplato le riproduzioni. Le strade, i monumenti, i musei, tutto sembrava qualcosa di astratto, incapace di prendere corpo. La presenza della Roma autentica lottava per farsi reale, uscendo dai sogni di tanti artisti e tanti viaggiatori. Tutte le sfaccettature di quell'immenso diamante che era la città mi rimandavano la loro luce nella forma di visioni altrui. Non era facile formarsi un'idea di quel che si aveva intorno. Continuamente irrompevano nella mia mente, oscurando ogni esperienza diretta e personale, i deliri di Fellini, il romanticismo di Lord Byron, la grandiosità circense della roma imperiale hollywoodiana, le lezioni sull'arte del Rinascimento, il neorealismo di Vittorio De Sica, e l'immagine infallibile di Audrey Hepburn e Gregory Peck allacciati in sella a una Vespa
(Alicia Giménez-Bartlet, Gli onori di casa, Sellerio editore, Palermo, 2013, pp. 168-169)
Shanghai (1)
Ancora una volta l'ispettore capo Chen Cao, del Dipartimento di Polizia di Shanghai, si trovò ad attraversare la nebbia mattutina diretto verso il parco del Bund.
Il parco era di dimensioni piuttosto ridotte, più o meno sei ettari, ma occupava una posizione che lo rendeva uno dei luoghi più popolari di Shanghai.
Il cancello principale fronteggiava l'Hotel Pace, all'estremità nord del Bund, mentre il cancello posteriore dava accesso al ponte Waibaidu, nome rimasto immutato fin dal giorno in cui era stato ultimato, ai tempi della colonizzazione, e che significava letteralmente "ponte bianco dello straniero". Il parco era particolarmente famoso per il suo lastricato in pietra multicolore, un lungo percorso a curve che si elevava sopra la scintillante distesa d'acqua, punto d'incontro dei fiumi Huangpu e Suzhou. Da lassù la gente poteva scrutare in lontananza le navi che andavano e venivano stagliandosi sul lontano Wusongkou, il Mar Cinese Orientale.
(Qiu Xiaolong, Visto per Shanghai, R.L. Libri, Milano, 2012, su licenza Marsilio, 2004, p. 9).
Shanghai (2)
"La proposta riguarda il New World, l'ultimissimo progetto del nostro gruppo. E' un enorme complesso residenziale che comprende anche uffici e un centro commerciale e di intrattenimento. Lo erigeremo nel centro della città, con tutto lo splendore architettonico degli anni Trenta" proclamò Gu.
"Tutte le case verranno costruite nello stile shikumen: muri in mattoni grigi, porte nere, stipiti in pietra marrone, piccoli cortili, ali differenziate e scale a chiocciola in legno. Gli edifici verranno delimitati da una griglia di vicoli che si intersecheranno, esattamente secondo lo schema originale delle Concessioni Straniere. Insomma, sarà come ritornare ai vecchi tempi, come entrare in un sogno."
(Qiu Xiaolong, Quando il rosso è nero, Marsilio, Venezia, 2011, p. 16).
Shanghai (3)
La lasciò davanti a una baracca cadente e tornò verso il taxi. Un minuto dopo si voltò e la vide ancora davanti alla porta. Il tugurio aveva un'aria davvero misera, e il tetto si trovava a pochi centimetri dalla sua testa. Con sorpresa riuscì a distinguere, sistemato sopra i coppi, un piccolo vaso di fiori messo lì come decorazione.
Mentre il taxi usciva dal labirinto dei sobborghi, Chen si sentì addosso una strana sensazione, come se la città si fosse divisa in due metà completamente diverse. La prima città era quella delle vecchie shikumen, dei vicoli stretti e dei bassifondi come quello da cui si stava allontanando, dove la gente faceva ancora fatica a sbarcare il lunario; la seconda, invece, era formata dai locali di tendenza come quelli in via Henshan, dal nuovo condominio di lusso a Hongqiao, e dal futuro New World.
(Qiu Xiaolong, Quando il rosso è nero, Marsilio, Venezia, 2011, p. 200).
Shanghai (4)
Per molti abitanti di Shanghai, il lungofiume costituiva ancora una delle zone più affascinanti della città, col pittoresco paesaggio e i magnifici edifici lungo via Zhonghsan. Nei giorni dell'infanzia di Chen, la maggior parte di quelle costruzioni, per quanto di proprietà del governo, era un simbolo dello sfruttamento imperialista, perché aveva ospitato prestigiose compagnie occidentali nell'era precedente il 1949. Negli anni Novanta, il governo aveva venduto gli edifici alle compagnie occidentali originarie o ad altre nuove. Quindi, nella zona erano riapparsi ristoranti d'alto profilo.
(Qiu Xiaolong, Ratti rossi, Marsilio, Venezia, 2008, p. 81).
Shanghai (5)
Pudong un tempo era una grande area rurale a est del fiume Huangpu, con qualche fabbrica sparsa qua e là. Ai tempi degli studi d'inglese di Chen al parco sul lungofiume, la visuale era più che altro una distesa di terreni coltivati dai colori scuri. all'epoca circolava un detto: Un letto a ovest del fiume è meglio di una stanza a est del fiume. Alla fine degli anni Ottanta, il governo cittadino aveva dato il via a un grandioso sforzo per trasformare Pudong nella Wall Street asiatica. L'aveva dichiarata zona speciale, offrendo condizioni allettanti per gli investitori stranieri. Erano sorti nuovi edifici e i prezzi delle case erano schizzati alle stelle.
Chen aveva sentito parlare delle ville sul lungofiume. Era una delle nuove zone residenziali più costose di Shanghai, affacciate sulla riva est dello Huangpu, con una vista spettacolare. La gente la descriveva come un nuovo lungofiume, anche più moderno e sontuoso. Nessuno avrebbe un cambiamento simile mezzo decennio prima.
(Qiu Xiaolong, Ratti rossi, Marsilio, Venezia, 2008, pp. 106-107).
Shanghai (6)
Quando l'autobus giunse in via Xizhuang, l'investigatore Yu fu il primo a scendere. Prese una scorciatoia attraverso il parco del Popolo. Uno dei suoi cancelli immetteva su via Nanjing, la via principale di Shanghai, quasi un'estensione del centro commerciale che si sviluppava dal Bund, l'argine, all'area del tempio di Jian'an. La gente era tutta di ottimo umore. Compratori. turisti. ambulanti. Fattorini. Un gruppo di cantanti si esibiva di fronte all'Hotel Helen, in mezzo a loro una ragazza giovane suonava un'antica cetra. Un'insegna in grandi caratteri cinesi esortava gli abitanti di Shanghai a promuovere una buona igiene e a rispettare l'ambiente trattenendosi dal buttare immondizia per terra e dallo sputare.
(Qiu Xiaolong, La misteriosa morte della compagna Guan, Marsilio, Venezia, 2000, p. 80).
Shanghai (7)
Vivevano in una casa vecchio stile a due piani, una casa shikumen, uno stile architettonico popolare nei primi anni trenta, quando queste case venivano costruite per una sola famiglia. Adesso, più di sessant'anni dopo, era abitata da dodici famiglie, con le stanze suddivise in modo da contenere sempre più persone. Solo il portone d'ingresso dipinto di nero era rimasto lo stesso, e si apriva su di un piccolo cortile ingombro di cianfrusaglie, una specie di giardinetto per rottami comune, che conduceva a un'entrata con un alto soffitto, fiancheggiata dall'ala orientale e da quella occidentale. Questa entrata, un tempo spaziosa, era stata da tempo trasformata in cucina comune e magazzino. Le due file di fornelli a carbone con pastiglie di carbonella indicavano chiaramente che al primo piano vivevano sette famiglie.
(Qiu Xiaolong, La misteriosa morte della compagna Guan, Marsilio, Venezia, 2000, pp. 249-250).
Shanghai (8)
Si faceva risalire la costruzione del Tempio del Dio della città al quindicesimo secolo, durante la dinastia Song meridionale. Il tempio fu poi ricostruito e rimesso a nuovo più volte, l'ultima delle quali risaliva al 1926. L'entrata principale venne rinforzata con cemento e le immagini di argilla furono dorate. Nei primi anni sessanta, erano state fatte a pezzi per effetto del Movimento di educazione socialista, mentre nei primi anni ottanta il tempio era stato sottoposto ad un altro drastico cambiamento che l'aveva trasformato in un centro commerciale per l'artigianato, dopo che era stato usato per anni come magazzino generale. Il tempio era stato riportato al suo aspetto originale, con le porte dipinte di nero e i muri gialli. All'interno si trovava un accecante dispiegamento di banconi in vetro splendente e scaffali d'acciaio. Sul portale c'era un verso inciso in grosse pennellate: Sii onesto così da poter godere di un sonno tranquillo, / Fai una buona azione così che Dio lo venga a sapere.
I comunisti, naturalmente, non credevano in Dio, orientale od occidentale che fosse, ma fare una buona azione e avere la coscienza pulita era in ogni caso un buon consiglio da dare alla gente (...)
(Qiu Xiaolong, La misteriosa morte della compagna Guan, Marsilio, Venezia, 2000, pp. 372-373).
Sanremo
A Sanremo, il mare non ha odore.
La musica, anche.
Fine della discussione.
(Paolo Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 105)
Venezia
Ora ripensa al freddo umido di Venezia in pieno inverno, ai canali che tracimano su strade invase dall'acqua fino alle ginocchia, la solitudine da brividi delle stanze non riscaldate, (...)
(Paul Auster, Sunset Park, Einaudi, Torino, 2012, p. 104)
Verrieres
La cittadina di Verrières può essere considerata una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche, dai tetti aguzzi e dalle tegole rosse, si arrampicano sul declivio di una collina dove macchie di vigorosi castagni mettono in risalto ogni minima sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi sotto le fortificazioni costruite un tempo dagli spagnoli e ora in rovina.
A nord la città è protetta da un’alta montagna, diramazione del Giura. I primi freddi d’ottobre coprono di neve le cime frastagliate del Verra. Un torrente, precipitando dalla montagna, attraversa Verrières prima di gettarsi nel Doubs e mette in moto un gran numero di segherie: industria assai semplice che dà lavoro alla maggior parte degli abitanti, contadini più che borghesi. Non è questa, tuttavia, la fonte di maggior ricchezza per la cittadina. II benessere generale che, dopo la caduta di Napoleone, ha consentito di ricostruire le facciate di quasi tutte le case di Verrières è dovuto alla fabbrica di tele stampate, dette di Mulhouse.
Entrando ¡n città si rimane storditi dal fracasso di una macchina rumorosa e terribile a vedersi. Venti pesanti martelli, che si abbattono con un frastuono tale da far tremare il selciato, sono sollevati da una ruota spinta dall’acqua del torrente. Ogni giorno ciascuno di questi martelli fabbrica chi sa quante migliaia di chiodi. E sono ragazze giovani e graziose, quelle che sottopongono ai colpi di questi enormi martelli i pezzettini di ferro che vengono poi trasformati rapidamente in chiodi. Questo lavoro, così duro in apparenza, è uno dei più stupefacenti per il viaggiatore che si spinge per la prima volta sulle montagne, al confine tra la Francia e la Svizzera. Se poi ¡I viaggiatore, entrando a Verrières, chiede di chi è la bella fabbrica di chiodi che assorda i passanti sulla via principale, gli viene risposto con accento strascicato: «Ah! è del signor sindaco!»
(Stendhal, Il rosso e il nero, parte I, capitolo I, 1830)
Vienna
E proprio la spensieratezza con la quale ora i miei commilitoni plaudivano alla vittoria imminente (...) mi offendeva profondamente. (...) Erano venuti su troppo viziati nella Vienna incessantemente nutrita dai paesi della Corona, figli inermi, quasi ridicolmente inermi, dell'infiacchita e fin troppo cantata città capitale e residenza imperiale, che simile a uno splendido ragno ammaliatore se ne stava nel bel mezzo della rete giallonera e incessantemente succhiava forza e sostanza e splendore dai circostanti paesi della Corona. Delle tasse che pagava il mio povero cugino, il caldarrostaio Joseph Branco Trotta di Sipolje, delle tasse che pagava il vetturino ebreo Manes Reisiger di Zlotogrod, che conduceva un'esistenza miserabile, vivevano le superbe case del Ring, che appartenevano alla famiglia ebrea Todesco a cui era stato conferito il titolo baronale, e gli edifici pubblici, il Parlamento, il Palazzo di Giustizia, l'Università, l'Istituto di Credito Fondiario, il Burgtheater, la Hofoper e finanche la direzione di polizia. La variopinta allegrezza della città capitale e residenza imperiale si nutriva molto chiaramente (...) del tragico amore dei paesi della Corona per l'Austria: tragico, perché eternamente non ricambiato. (...) Tanta pena c'era voluta, tanto dolore, spontaneamente offerti quasi fosse cosa naturale, perché il centro della monarchia avesse fama nel mondo di patria del bel garbo, della letizia, della genialità. La grazia di cui godevamo cresceva e fioriva, ma il suo terreno era ingrassato dal dolore e dal lutto.
(Joseph Roth, La Cripta dei Cappuccini, 1950, La Biblioteca di Repubblica, Roma, 2002, pp. 74-75)
Woodenton
Ma Eli non andò a casa. Prese la scatola di Bonwit, la portò fuori e la caricò in macchina. La notte era dolce e stellata, e lui cominciò a girare per le strade di Woodenton. Fredde finestre quadrate, color albicocca, erano tutto ciò che si vedeva oltre i lunghi prati davanti alle case dei suoi concittadini. Le stelle facevano brillare i portabagagli fissati ai tettucci delle station wagon nei vialetti. Eli viaggiava lentamente, su, giù, intorno. Si udiva solo il fruscio delle gomme nelle curve della strada.
Che pace. che incredibile tranquillità. Sono mai stati così al sicuro i bambini nei loro letti? E i genitori - pensò Eli - hanno mai avuto la pancia così piena? Dell'acqua così calda nel boiler? Mai. Mai a roma, mai in Grecia. Mai città cinte di mura se l'erano passata così bene! Non c'era dunque da meravigliarsi se volevano pace e sicurezza: l'obiettivo che la civiltà si era posta da secoli. Con tutte le sue fesserie, era ciò che chiedeva anche Ted Heller, pace e sicurezza. Era ciò che avevano chiesto i suoi genitori nel Bronx; e i suoi nonni in Polonia, e i loro in Russia o in Austria, o in qualunque o da qualunque altro posto fossero fuggiti. Era quello che chiedeva Miriam. E ora l'avevano: il mondo era finalmente un posto per famiglie, anche per quelle degli ebrei.
(Philip Roth, Eli, il fanatico, 1959, Einaudi, Torino, 2012, in Goodbye, Columbus, p. 231)
Zlotogrod
Prima di questo grande sfacelo doveva essere mio destino incontrare l'ebreo Manes Reisiger, del quale si tornerà a parlare anche in seguito.
Veniva da Zlotogrod, in Galizia. Qualche tempo dopo conobbi questa Zlotogrod e così la posso descrivere. Mi pare importante perché non esiste più, proprio come Sipolje. Fu appunto distrutta dalla guerra. Un tempo era una cittadina, una piccola cittadina, ma una cittadina comunque. Oggi è un enorme prato. D'estate ci cresce il trifoglio, i grilli cantano nell'erba alta, i lombrichi ci prosperano, grossi e inanellati, e le allodole piombano giù per divorarli.
(Joseph Roth, La Cripta dei Cappuccini, 1950, La Biblioteca di Repubblica, Roma, 2002, p. 25)