(11) Reliquum est, Quirites1, ut vos in ista sententia quam prae vobis fertis perseveretis. Faciam igitur ut imperatores instructa acie solent, quamquam paratissimos milites ad proeliandum videant, ut eos tamen adhortentur, sic ego vos ardentis2 et erectos ad libertatem recuperandam cohortabor. Non est vobis, Quirites1, cum eo hoste certamen cum quo aliqua pacis condicio esse possit. neque enim ille servitutem vestram, ut antea, sed iam iratus sanguinem concupiscit. Nullus ei ludus videtur esse iucundior quam cruor3, quam caedes, quam ante oculos trucidatio civium.
(12) Non est vobis17 res, Quirites1, cum scelerato homine ac nefario, sed cum immani taetraque belua4 quae, quoniam in foveam incidit, obruatur. Si enim illim emerserit, nullius supplici crudelitas erit recusanda. sed tenetur, premitur, urgetur nunc eis copiis quas iam habemus, mox eis quas paucis diebus novi consules comparabunt. incumbite in causam, Quirites1, ut facitis. Numquam5 maior consensus vester in ulla causa fuit; numquam5 tam vehementer cum senatu consociati fuistis. Nec mirum: agitur enim non qua condicione victuri, sed victurine simus an cum supplicio ignominiaque perituri.
(13) Quamquam mortem quidem natura omnibus proposuit, crudelitatem mortis et dedecus virtus propulsare solet6, quae propria est Romani generis et seminis. Hanc retinete, quaeso, quam vobis tamquam hereditatem maiores vestri reliquerunt. Nam cum alia omnia falsa, incerta sint, caduca, mobilia, virtus est una altissimis defixa radicibus; quae numquam vi ulla labefactari potest, numquam demoveri loco. Hac virtute maiores vestri primum universam Italiam7 devicerunt, deinde Karthaginem8 exciderunt, Numantiam9 everterunt, potentissimos reges, bellicosissimas gentes in dicionem huius imperii redegerunt.
(14) Ac maioribus quidem vestris, Quirites1, cum eo hoste res erat qui haberet rem publicam, curiam, aerarium, consensum et concordiam civium, rationem aliquam, si ita res tulisset, pacis et foederis: hic vester hostis vestram rem publicam oppugnat, ipse10 habet nullam; Senatum, id est orbis terrae consilium, delere gestit, ipse10 consilium publicum nullum habet; Aerarium vestrum exhausit11, suum non habet. Nam concordiam civium qui habere12 potest, nullam cum habeat12 civitatem? Pacis vero quae potest esse cum eo ratio in quo est incredibilis crudelitas, fides nulla?
(15) Est igitur, Quirites1, populo Romano, victori omnium gentium, omne certamen cum percussore, cum latrone, cum Spartaco13. Nam quod se similem esse Catilinae14 gloriari solet, scelere par est illi, industria inferior. Ille cum exercitum nullum habuisset, repente conflavit; hic eum exercitum, quem accepit, amisit15. Ut igitur Catilinam diligentia mea, senatus auctoritate, vestro studio et virtute fregistis, sic Antoni nefarium latrocinium vestra cum senatu concordia tanta, quanta numquam fuit, felicitate et virtute exercituum ducumque vestrorum brevi tempore oppressum audietis.
(16) Equidem quantum cura, labore, vigiliis, auctoritate, consilio eniti atque efficere potero, nihil praetermittam, quod ad libertatem vestram pertinere arbitrabor; neque enim id pro vestris amplissimis in me beneficiis sine scelere facere possum. Hodierno autem die primum referente viro fortissimo vobisque amicissimo, hoc M. Servilio16, collegisque eius, ornatissimis viris, optimis civibus, longo intervallo me auctore et principe ad spem libertatis exarsimus.
(11) Non vi resta allora, o Romani, che perseverare in codesti sentimenti che ora dimostrate apertamente. Farò come quei generali che di fronte all'esercito schierato rivolgono ai soldati parole di esortazione pur vedendoli prontissimi alla battaglia; così anche io, a voi che pieni di presunzione ardete dal desiderio di recuperare la libertà, dirò parole di esortazione. La vostra, o Romani, non è una battaglia con un nemico col quale sia possibile una qualche condizione di pace. Se una volta Antonio voleva la vostra servitù, ora è il vostro sangue che, nella sua ira, egli brama. Sangue, strage, carneficina di cittadini davanti ai suoi occhi: è questo lo spettacolo che più d'ogni altro lo diverte.
(12) Non avete a che fare con un uomo infame e scellerato, ma con una belva mostruosa, orrida. Ma la belva ora è caduta nella fossa: e allora sia questa la sua tomba, perchè se ne verrà fuori, non riuscirete a sottrarvi ad alcuna pena. Ma è alle strette, premuto, incalzato, per ora dalle forze a nostra disposizione, di qui a pochi giorni da quelle che i nuovi consoli allestiranno. Romani date il vostro appoggio alla causa, come fate oggi. Mai, come in questa occasione, il vostro accordo è stato più grande, mai siete stati così saldamente uniti al Senato. Nessuna meraviglia, del resto: chè qui non si tratta a quali condizioni ci sarà consentito vivere, ma se conserveremo la vita oppure moriremo tra le pene e nel disonore.
(13) Certo, la morte è legge di natura per tutti; ma la virtù si ribella ad una morte che sia crudele e disonorevole; e tale virtù è impressa nella popolazione e nel sangue romano. Conservatela intatta, ve ne prego, Romani, codesta virtù che i padri vi hanno tramandato in eredità. Tutti gli altri beni sono falsi, incerti, caduchi, mutevoli; solo la virtù profonda le sue radici nell'anima umana in modo che nessuna forza riesce a smuoverle, nessuna a sradicarle. Fu con questa virtù che i nostri padri conquistarono prima l'intera Italia , e poi debellarono Cartagine, distrussero Numanzia, sottomisero a questo impero i più potenti re, le genti più bellicose.
(14) Ma i vostri antenati, o Romani, erano in guerra con nemici che avevano uno Stato, un Senato, un'organizzazione finanziaria, l'unione e la concordia dei cittadini, con nemici insomma che, se le circostanze l'esigevano, avevano modo di concludere la pace e stringere un patto. Questo vostro nemico di oggi, invece, da l'assalto al vostro Stato, senza che egli abbia una propria organizzazione statale; brama la distruzione del Senato, di un consesso cioè che governa il mondo, e non ha l'ombra di una pubblica assemblea che lo assista; ha dato fondo al vostro tesoro, ma di suo non ha proprio nulla. E che concordia di cittadini volete che abbia intorno, se non ha più una sua città? Che garanzia può dare una pace fatta con uno la cui crudeltà è incredibile, la cui lealtà non esiste?
(15) Ecco dunque, Romani, che quel popolo che ha sconfitto e conquistato tutte le nazioni, ora non si trova di fronte, come nemico, altri che un assassino, un ladrone, uno Spartaco! Si vanta infatti di somigliare a Catilina: quanto a scelleratezza lo eguaglia, ma gli è inferiore in talento. Catilina non aveva un esercito, ma riuscì di colpo ad ammassarne uno; costui, quello che aveva non ha fatto che perderlo. Come dunque siete riusciti con la mia vigilanza, con l'autorità del Senato, con l'impegno e il vostro coraggio , ad abbattere Catilina, così, non passerà molto e udirete che la vostra concordia col Senato, una concordia senza precedenti, il valore e il successo degli eserciti e dei generali hanno debellato l'empio di Antonio.
(16) State certi che per quel che potrò con le mie fatiche, le mie veglie, la mia influenza, i miei consigli, nulla io tralascerò di quanto secondo me potrà giovare alla vostra libertà. Dopo i benefici di cui voi mi avete colmato, non potrei tirarmi indietro senza commettere una grave errore. Ma oggi per la prima volta in base alla mozione di Marco Servilio, di quest' uomo coraggioso e vostro grande amico, e dei suoi colleghi, personaggi distinti ed eccellenti cittadini anch'essi, dopo un lungo intervallo, per mia iniziativa e consiglio, abbiamo acceso in noi la speranza della libertà.
In queste parti (11-16) della quarta orazione delle Filippiche Cicerone, paragonandosi ad un generale dell'esercito, esorta i romani a battersi per la propria libertà affermando che Antonio vuole ucciderli. Cicerone anche in questa orazione offende duramente M. Antonio: lo definisce infatti bestia orrida e mostruosa ("immani tetraque belua"). Cicerone per incattivire ulteriormente i Romani contro Antonio fa leva sul disonore da cui saranno affetti se verranno uccisi e sottomessi da lui.
L'oratore menziona molte volte la "virtus", ovvero il valore, virtù impressa saldamente nell'animo dei Romani, che si ribella ad una morte disonorevole (e quindi a Marco Antonio): fa riferimento al fatto che è proprio grazie ad essa che gli antenati erano riusciti a conquistare molti territori, tra cui l'Italia, Cartagine e Numanzia.
Antonio viene considerato e definito un ladro, ricordando il tesoro di Cesare da lui rubato e i soldi necessari alla battaglia contro i Parti di cui lui si impadronì. Antonio è sleale, crudele, ladro e bugiardo, ed è per questo che i Romani possono soltanto contrastarlo e non cercare nemmeno di stipulare un accordo di pace. L'oratore afferma, inoltre, che il popolo romano come era riuscito ad abbattere Catilina, che aveva addirittura un esercito, riuscirà ad abbattere anche l'acerrimo nemico Antonio grazie alla concordia con il Senato, alla forza e al coraggio degli eserciti.
La Filippica si chiude, così come si era aperta, con la parola libertà: si ribadisce che stavolta il vero nemico della patria non è uno straniero, ma un cittadino romano, in opposizione al quale Cicerone si presenta come difensore della patria.
Possiamo notare le elevate capacità oratorie di Cicerone da come, grazie al proprio tono e utilizzando semplicemente apostrofi e una captatio benevolentiae ("Quirites"), riesca ad ottenere l'ascolto e l'appoggio dei Romani.
Cicerone fa qui un uso particolarmente intenso di metafore, similitudini e paragoni, per evidenziare la crudeltà e l'inumanità di Antonio.
L'oratore in queste cinque parti(11-16) della quarta filippica ha un tono sia esortatore, convincente, che aspro, duro, utilizzato principalmente per sottolineare la crudeltà di M. Antonio e per evidenziare il destino di morte a cui saranno soggetti i Romani se non riusciranno a sconfiggere il nemico.