NOI DELLA VALTRAVAGLIA

LEGGENDE

Laboratorio di italiano classi 3A e 3B

Leggenda di Monteviasco. Il Ratto delle Sabine

(tratto da CHEWBEECCA WITH IDRO&LITINA JONES (Monteviasco in Val Veddasca, tra leggende, storia e aneddoti). )

Le origini del borgo si dipanano fra leggenda e storia, come si confà a un luogo così insolito.

Secondo la leggenda, che ricorda il Ratto delle Sabine immortalato da Tito Livio, ma forse più, Sette spose per sette fratelli, Monteviasco venne fondata durante il,dominio spagnolo in Lombardia, quando quattro soldati in fuga dall'esercito cercarono un posto isolato per sfuggire agli inseguitori. I nomi dei quattro erano

Ranzoni, Morandi, Dellea e Cassina. Praticamente i ceppi principali dei cognomi della zona.

Arrivati ai piedi del Monte Polà, trovarono il posto adatto, riparato e lontano dalle vie di comunicazione principali, per la necessità di avere un riparo, i quattro

iniziarono a costruire case con i materiali disponibili sul posto, legno e pietra. Dopo aver risolto il problema del sostentamento, grazie all'allevamento del

bestiame e alla coltivazione del terreno, cominciarono a sentire anche la mancanza delle donne.

I quattro avevano visto alcune ragazze nel borgo di Biegno (attuale frazione di Maccagno con Pino e Veddasca), situato nella stessa valle, ma di fronte. Una

volta sistemate le case e preparati i doni per le future spose, il quartetto approfittando del momento in cui gli uomini del paese per l'estate andavano con

le greggi agli alpeggi, misero in atto un piano. Arrivati a Biegno, con un po' di fortuna e determinazione, rapirono le ragazze e le portarono a Monteviasco. Le

campane di Biegno suonarono a martello per avvertire del pericolo e i parenti delle rapite, riunito un gran numero di persone, si avviarono verso il paese decisi a

riprendersi le ragazze e punire molto severamente chi aveva osato fare ciò.

Arrivati a Monteviasco, le ragazze, rassicurate dalla serietà delle intenzioni dei quattro briganti, chiesero ai parenti di rimanere nel paese come spose.

Leggenda delle Rocca di Caldé

(fonte….una nonna)

Si racconta che una volta la Rocca di Caldé era al centro di un piccolo paese abitato da una parte, quella verso il lago, da persone poco raccomandabili e, dalla parte della montagna, da persone rispettabili.

I cittadini erano sempre in lotta e non c’era mai pace. Un giorno Dio, esasperato dai litigi, mandò un fulmine che tagliò a metà la rocca e distrusse la parte del paese che dava sul lago.

Ancora oggi la Rocca parzialmente distrutta è visibile dal paese.



Leggenda del LAGO DELIO


(Fonte Notiziario “Insieme”)


Una leggenda racconta di un paese molto ricco e fiorente di nome Elio costruito sulle rive di un lago montano. La bellezza di quel luogo aveva però reso aridi gli animi dei suoi abitanti, noti in tutto il territorio circostante per il loro egoismo e la loro arroganza. Un giorno giunse in paese un pover uomo. Bussò all’uscio di diverse porte elemosinando un po’ di cibo, ma ad ogni tentativo fu insultato ed allontanato in malo modo. Non gli restava che un’ultima casa, in disparte rispetto alle altre. Al suo interno una giovane donna e la figlia erano intente a cucinare una zuppa di castagne.

L’uomo fece l’ultimo tentativo e questa volta ricevette ospitalità. Fu invitato a riscaldarsi accanto al fuoco del camino e gli fu offerta una scodella di zuppa. In segno di gratitudine per essere state le uniche due persone ad averlo aiutato, il mendicante che si rivelò essere un veggente, predisse alle due donne che quella stessa notte sul villaggio si sarebbe abbattuta una tremenda catastrofe. Le invitò quindi a raccogliere i loro averi e fuggire subito via con lui. Gli credettero e mentre si allontanavano in gran fretta dal villaggio, udirono risuonare le campane della chiesa a cui seguì un tremendo boato. Si voltarono e videro l’intero paese sprofondare nelle scure e torbide acque del lago.



MALANDRINO PIETRIFICATO


fonte (http://www.scuolapiancavallo.it/sito/sez_progetti/podicultura/leggenda%20Malandrino.pdf)


Un tempo i malandrini infestavano il Lago Maggiore, dando l’assalto ai battelli, mandando a picco i barconi di mercanzia e uccidendo i poveri pescatori delle coste. Il loro covo era costituito da due foschi castelli, mezzo diroccati, che sorgono tuttora in mezzo all’acqua, dinanzi al paesello di Cannero. Una sera il capo dei masnadieri, disse: - Sulla montagna, in una villetta tra i pini, ci sono tesori: argenterie e ori antichi. Nella villetta abitano un vecchio e un bimbo; uno di noi si vestirà da frate grigio, salirà fin lassù, busserà alla porta, chiedendo ospitalità. Quando sarà entrato in casa, piglierà il vecchio e lo scaglierà dalla finestra nel burrone e porterà giù il tesoro col marmocchio. Poi divideremo argenteria e oro, e faremo del bimbo uno sparviero d’acqua come noi: abbiamo bisogno di successori. I malandrini scoppiarono in un applauso malvagio: - Bene! - Chi farà il frate grigio? - Tu, Gufo? - È più astuto Bacialamorte! - È più forte Tigrotto. Il capo li sogguardò col suo ghigno e mise termine alla contesa. - Andrò io- disse.

Vestì il saio grigio d’un frate ammazzato poco prima, si tirò sugli occhi il cappuccio, attraversò il braccio di lago sopra un barcone e si congedò dai compagni. Attraversato il paese, prese la viuzza che s’inerpicava tra gli aranceti che cingono Cannero, come una corona di verde e d’oro. Il frate grigio camminò per circa un’ora. Alla curva del sentiero si fermò. Di là, non solo si dominava tutto il lago, ma si poteva intravvedere la villetta solitaria annidata tra un ciuffo di pini. In quel momento un lume s’accese ad una finestra della villa e, nel quadrato d’oro, apparve la testina biondissima di un bimbo: il suo visetto era rivolto verso il cielo stellato. Il bimbo ringraziava Iddio della buona giornata. Pregava per la sua mamma morta, per il babbo lontano, per il nonno che si era assopito lì accanto, nella poltrona. E pregava un pochino anche per sé: voleva un sogno d’oro durante la notte. Il brigante rise ferocemente: - Prega, prega pure! Nemmeno il tuo Dio potrà salvarti, tu diverrai un malandrino come me. Fece per muoversi ma non poté: i suoi piedi si erano attaccati alla roccia e dalla roccia saliva un gelo strano che gli intirizziva le gambe e le ginocchia. Si curvò a toccarsi e si accorse con terrore che le sue estremità erano divenute di pietra. E il gelo pauroso saliva sempre sempre più rapido, gli prendeva tutte le membra, gli serrava il cuore, gli offuscava il cervello. I compagni l’aspettarono invano lungo la riva, facendo la spola con i barconi neri nella notte nera. Al mattino il Gufo, temendo qualche disgrazia, salì per la viuzza dirupata, e tornò con gli occhi fuori dall’orbita. - Il nostro capitano è pietrificato. I briganti non vollero credergli e mandarono Tigrotto e Avvoltoio a vedere su per la montagna: ma essi pure discesero esterefatti. - Il capitano è attaccato alla roccia come una statua. Bacialamorte rispose incollerito. - Andrò io a vedere! E si avviò fischiettando col cappellaccio calato sugli occhi grifagni. Quando giunse accanto al frate grigio, gridò: - Ehi, capitano! Muoviti, capitano! Lo toccò e lo sentì tutto freddo. Allora se la diede a gambe lungo il pendio. I malandrini attribuirono a stregoneria la terribile trasformazione; lasciarono in pace il vecchio e il fanciullo della villetta e non immaginarono mai che la preghiera di un innocente avesse fatto il miracolo.