Una scheda poco credibile
Loriano Macchiavelli sul film A parte di Vincenzo Fattorusso
Chi leggerà questa scheda prima di vedere il film A parte di Vincenzo Fattorusso, sappia subito che non ci troverà un apporto critico. Troverà una storia, quasi un racconto. Troverà una testimonianza parziale e non del tutto credibile perché viziata dal mio aver vissuto una parte di quella storia, dall'esservi io ancora completamente immerso. È il gioco e spero che lo si accetti. Se no, si dica pure (e si scriva) che sono di parte. O, ancora meglio, a parte.
Per il suo film A parte Fattorusso è partito da lontano e ha fatto la scelta giusta perché è da lontano che viene questa storia esemplare (nel senso che è una delle tante, oggi dimenticate) di Luciano Leonesi e di un periodo della storia di Bologna. Viene dalla Resistenza, come veniva dalla Resistenza un certo sindaco chiamato Giuseppe Dozza. E il sindaco della Liberazione, nelle immagini del film, noi lo incontriamo subito. E capiamo subito, se abbiamo anche solo un briciolo di memoria storica, perché Dozza, e solo Dozza, poteva ricostruire quella Bologna uscita distrutta dai bombardamenti, senza abitazioni, senza strade, senza case, senza scuole, senza trasporti... Senza tutto e che è poi diventata l'isola felice sulla quale sono campati, e hanno costruito la loro carriera, i sindaci venuti dopo. Fra quei bambini che Fattorusso, a distanza di una vita, fa incontrare di nuovo con Dozza, forse c'ero anch'io. Di sicuro c'era Luciano Leonesi. C'era la sua generazione, che è partita da lì, da quei giorni e da quei gesti. Il film è in due parti. La prima: il documento di un passato che sembra troppo lontano e ci riporta immagini scovate chissà dove e che avevamo dimenticato. La seconda è la vita di ieri e quindi ci racconta e racconta l'attualità. L'accompagna la voce narrante e pacata di Luciano Leonesi, al quale è dedicato il film. Ci spiega, Leonesi, come sono accadute, e perché, certe cose e ci fa capire che si era partiti con l'impegno di costruire un futuro decente. E, se si voleva, lo si poteva plasmare come la creta che prende forma sotto la carezza delle sue mani. Due parti, un solo movimento, una storia di oggi. La Liberazione non è poi il medioevo, le colonie estive e le sfilate per la strade di Bologna, con l'abito della festa, stanno lì, a due passi dietro di noi, anche se noi non guardiamo indietro perché ci fa un po' schifo quello che eravamo. Così ci ha ridotto la società che stiamo vivendo: vergognarci del nostro passato. Politico e sociale. Una stagione che, purtroppo, non si ripeterà, o almeno non oggi, perché i tempi sono cambiati, la gente è cambiata, i politici sono cambiati e la cultura è cambiata. Scrivo purtroppo perché oggi, a mio giudizio, mancano i valori che hanno ricostruito Bologna. "Ma", dice, "oggi Bologna non è da ricostruire". Vero, Bologna è quello che è. Allora parliamo del valore della pace. Che non è esporre una bandiera con i colori dell'arcobaleno. Noi, che avevamo sentito lo scoppio delle bombe e le raffiche dei mitra, la sognavamo e facevamo di tutto perché durasse eterna. Ci siamo illusi. Il film di Fattorusso, per chi abbia voglia di leggere dentro le immagini, alla fine è questo che fa: mostra come eravamo e ci fa capire che era giusto essere come eravamo. E se c'è qualcosa di cui dobbiamo vergognarci, non è quel passato: è ciò che siamo oggi. Allora eravamo fatti così: per montare uno spettacolo teatrale sul problema della Palestina, non ci accontentavamo di leggere ciò che altri scrivevano. Volevamo vedere. E allora prendevamo su la nostra utilitaria e, con poche lire in tasca (che nessuno ci sponsorizzava), attraversavamo mezza Europa e arrivavamo in Siria e in Libano, dove c'erano i campi profughi dei palestinesi e li filmavamo con una otto millimetri da quattro soldi (era quello di cui disponevamo e grazie tante!) e riportavamo a casa le loro dichiarazioni incise su un registratore che con il sole a picco di quella estate e di quei paesi, si deformava. Ma è ancora lì a testimoniare il passato di stenti e la lenta morte di un popolo. Sulla quale, domani, ma non è detto, piangeremo le nostre lacrime tanto tardive quanto inutili. Come sono lì, nel film di Fattorusso, le immagini dei Leoncini di Giordania, o almeno i pochi scampati ai massacri in terra di Giordania, che vivevano la loro infanzia a imparare come si maneggia la dinamite e come si spara con il mitra.
Mettiamo un candelotto di dinamite
sotto il cuscino del mondo,
finché noi riposiamo sul filo spinato.
Che il nostro sangue macchi i vetri del mondo.
Che esso macchi il volto del mondo.
Di questo mondo.
Questo mondo non riposerà mai in un letto.
Donna del mondo:
il nostro sangue macchia la bambola di tua figlia...
E ancora:
Ecco, questo è un mitra: uccide, se vuoi.
Ecco, questa è una bomba: distrugge, se vuoi.
Ecco, questo è un pugnale: colpisce, se vuoi.
Eravamo negli anni '70, nel 1970, e così cantavano, con le lacrime agli occhi, i loro poeti. Una profezia. Oggi sotto il cuscino del mondo quel candelotto di dinamite c'è. Aspettiamo solo che esploda. In quegli stessi giorni, i nostri ragazzi frequentavano i campi solari ai Giardini Margherita, inventati da Giuseppe Dozza, dove imparavano a dipingere, a lavorare il legno e la creta. C'erano entrambi, i loro bambini e i nostri, nel testo teatrale portato poi in Piazza Maggiore. Così si cercava di costruire una nuova generazione. Voglio dirvi di un popolo che sfida la morte, s'intitolava il testo. Mai sfidare la morte. La morte vince. Io vorrei che ricordassimo. Il film di Fattorusso ci aiuta.
loriano macchiavelli, 6 novembre 2006