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Il d.l. 69/2024 è solo marginalmente un condono.
E' molto di più di un condono, perché introduce norme "a regime", più di finestre temporali di "sanabilità eccezionale".
E' un po' meno di un condono, perché interviene prevalentemente sull'ampiezza degli istituti di regolarizzazione già esistenti, amplificandone le maglie ma evitando l'inclusione di sanatorie "radicali".
In sintesi queste le innovazioni di maggior rilievo:
a) amplia il novero delle attività di edilizia libera, includendovi espressamente tende e pergotende, di cui offre una definizione legale, in buona misura ricognitiva degli approdi della giurisprudenza (alcuni anche riportati nella sezione "sentenze in pillole" del sito).
Tale modifica opera "a regime";
b) modifica il novero dei documenti probanti lo stato legittimo: nella precedente impostazione lo stato legittimo era documentato "procedendo" dal primo titolo (che consentiva/legittimava la costruzione dell'immobile) ai titoli che vi si erano succeduti. Nella nuova impostazione, invece, lo stato legittimo è dimostrato "anche" direttamente dall'ultimo titolo edilizio che ha interessato l'intero immobile, purché "rilasciato all’esito di un procedimento idoneo a verificare l’esistenza del titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa".
La norma, e soprattutto il suo inciso, apre a margini interpretativi (o meglio, incertezze interpretative), circa l'individuazione dei titoli idonei a dimostrare lo stato legittimo. Ad esempio, l'ultimo titolo che ha interessato l'intero immobile potrebbe essere anche una Scia (vedasi "Caso Milano") e la SCIA, pur in carenza di provvedimenti espressi, presuppone un procedimento di verifica dello stato legittimo (ai fini dell'esercizio del potere di inibitoria entro i termini di legge). Dunque a rigore sembrerebbe possibile ricavare lo stato legittimo anche da una Scia, ove riferita all'intero immobile.
Anche questa modifica opera "a regime";
c) parallelamente, include nel novero degli atti/documenti probanti lo stato legittimo anche (e non solo):
c.1) il pagamento delle sanzioni di cui agli artt. 33, 34, 37 (escluso il comma 2) e 38.
Tale innovazione è sostanziale: le sanzioni di cui agli artt. 33 e 34 vengono applicate in ragione di difformità dal p.d.c. che non sono sanate e dunque, per giurisprudenza pressoché univoca, pur scongiurando la demolizione (sol perché impossibile senza pregiudizio per la porzione residua di immobile) non "legittimavano" lo stato di fatto (dunque precludevano successivi interventi edilizi). Col nuovo intervento normativo, invece, il pagamento della sanzione "libera" l'immobile dalla sua illegittimità;
c.2) la dichiarazione del tecnico "di cui all'art. 34-bis" (cioè la realizzazione in difformità contenute entro le "tolleranze esecutive").
Anche questa disposizione è particolarmente significativa, in quanto le "nuove" tolleranze sono riferibili solo agli interventi realizzati in data anteriore al 24 maggio 2024, ma la dichiarazione del tecnico non ha termini di presentazione. Pertanto, almeno allo stato, parrebbe che sarà sempre possibile autocertificarsi lo stato legittimo, nei termini e con i presupposti di cui all'art. 34 bis;
Anche questa modifica opera "a regime";
d) modifica la disciplina del cambio di destinazione d'uso:
d.1) diviene sempre consentito il mutamento di destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale (norma di contenuto più chiarificatore che innovativo);
d.2) viene innovativamente consentito il mutamento di destinazione d'uso della singola unità immobiliare tra le categorie residenziale - turistico alberghiera - commerciale - direzionale, al ricorrere dei seguenti presupposti:
collocazione dell'intervento nelle zone A-B-C del D.M. 1444/68 (dunque tutte le aree ad eccezione di quelle zone industriali, zone agricole e zone destinate ad impianti ed infrastrutture);
transizione dell'unità immobiliare nella categoria prevalente dell'immobile (quella della maggior parte delle U.I);
per i soli primi piani fuori terra, il mutamento "verso" la destinazione residenziale "è ammesso nei soli casi espressamente previsti dal piano urbanistico e dal regolamento edilizio".
La norma, che nel complesso persegue il condivisibile fine di razionalizzare gli spazi già costruiti, consentendone la "conversione" secondo le esigenze concrete, pone non poche questioni interpretative: il mutamento "è sempre consentito", ma tale ampia concessione, vale anche quale deroga? E se si, a cosa?
Mentre il "nuovo" comma 1 bis, nel consentire il mutamento endo-categoria (di fatto già consentito), pone l'inciso "nel rispetto delle normative di settore", tale inciso manca - paradossalmente - nel comma 1 ter, che disciplina il mutamento tra categorie diverse.
Considerando che la norma opera a regime, è difficile ipotizzare una deroga alle disposizioni urbanistiche vigenti (diversamente opinando, si sottrarrebbe stabilmente agli Enti preposti, la possibilità di regolare le destinazioni d'uso (per quanto disciplinate dalla norma in commento), creando addirittura questioni di legittimità costituzionale. Idem a dirsi per i requisiti di abitabilità/agibilità, che non possono essere tout court derogati, in ragione degli interessi ad essi presupposti;
e) all'art. 31 co. 5 viene ridisegnata la sorte degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio dell'Ente. Le novità sono due: e.1) ove non contrastanti "con rilevanti interessi urbanistici, culturali, paesaggistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico", gli immobili acquisiti possono essere venduti dall'Ente (a condizione che l'acquirente rimuova gli abusi); e.2) la procedura di vendita (o comunque la procedura di non-demolizione dell'immobile acquisito) viene sottoposta a parere delle Autorità competenti. Non viene specificata la natura vincolante del parere, ma il legislatore tiene a precisare l'applicazione del silenzio-assenso (anzi, per come posta - "previo parere delle amministrazioni competenti ai sensi dell’articolo 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241" - la norma sembrerebbe quasi intendere che il silenzio s'intenda come fisiologica modalità di espressione del parere favorevole, quasi esonerandolo dall'obbligo di motivazione);
f) all'art. 34 vengono inasprite le sanzioni per la realizzazione di opere in difformità dal titolo (dal doppio si passa al triplo del costo di costruzione/incremento valore venale), qualora esse non possano essere rimosse senza pregiudizio per la porzione "legittima". "Maggiore spesa, maggiore resa", atteso che ai sensi del "nuovo" art. 9bis del T.U.Ed, il pagamento tale sanzione equivale a titolo attestante la legittimità dell'immobile;
g) l'art. 34-bis rappresenta forse l'unica vera norma di condono: vengono "tollerate" talune difformità, a condizione che siano state realizzate "entro il 24 maggio 2024".
g.1) nello specifico, non costituiscono violazione edilizia "il mancato rispetto dell'altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari ... se contenuto entro i limiti:
a) del 2 per cento delle misure previste dal titolo abilitativo per le unità immobiliari con superficie utile superiore ai 500 metri quadrati;
b) del 3 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo per le unità immobiliari con superficie utile compresa tra i 300 e i 500 metri quadrati;
c) del 4 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo per le unità immobiliari con superficie utile compresa tra i 100 e i 300 metri quadrati;
d) del 5 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo per le unità immobiliari con superficie utile inferiore ai 100 metri quadrati";
g.2) del pari non costituiscono violazione edilizia, ove realizzate entro il medesimo termine (24.5.2024), piccole difformità e realizzazione di opere "in riduzione" rispetto al titolo abilitativo. Nello specifico: "minore dimensionamento dell'edificio, la mancata realizzazione di elementi architettonici non strutturali, le irregolarità esecutive di muri esterni ed interni e la difforme ubicazione delle aperture interne, la difforme esecuzione di opere rientranti nella nozione di manutenzione ordinaria, gli errori progettuali corretti in cantiere e gli errori materiali di rappresentazione progettuale delle opere". Molte di tali "difformità" sarebbero in realtà regolate dalla Cila, per cui l'innovazione non si palesa particolarmente incisiva.
g.3) è inoltre importante evidenziare che entrambe le ipotesi di condono di cui all'art. 34bis (vale a dire le ipotesi in cui la tolleranza è riferita ai soli interventi anteriori al 24.5.2024) rientrano tra gli interventi esonerati da autorizzazione paesaggistica (per espressa disposizione dell'art. 3 co. 1 del d.l. Salva Casa, in c.d. con l'art. 2 co. 1 del d.P.R. 31/2017);
g.4) l'applicazione tale disciplina è subordinata all'assenza di pregiudizio per i diritti dei terzi. Tale assenza è attestata dal progettista. La norma consente di salvaguardare i diritti dei terzi anche con opere a farsi (previa acquisizione dei titoli necessari).
g.4) per le violazioni "future", invece, resta il limite per tutte del 2% della misura dell'unità immobiliare;
g.5) sarebbe interessante capire se nel concetto di "violazione edilizia" rientrino anche le norme inerenti all'agibilità, atteso che nella pratica non è raro il caso di immobili (soprattutto nuovi e/o derivanti da ristrutturazioni radicali/demoricostruzioni con difformità esecutive relative ad altezze interne e/o dimensioni interne di poco inferiori ai parametri normativi (d.m. Sanità 5.7.1975 e Regolamenti Edilizi);
g.6) al comma 2-bis il legislatore chiarisce che tali difformità, non costituendo violazioni, non richiedono titolo ma devono semplicemente essere dichiarate dal tecnico, direttamente all'atto della dichiarazione di stato legittimo resa al fine di ottenere nuovi titoli edilizi. Pertanto non si apre una "finestra" di condono, essendo già sanate di diritto tali difformità, al ricorrere dei presupposti indicati dall'articolo;
g.7) per gli interventi ricadenti in zona sismica, la dichiarazione di stato legittimo presuppone l'intervenuta acquisizione dell'Autorizzazione sismica (e/o della dichiarazione del decorso del termine a seguito della trasmissione dei calcoli per gli interventi privi di rilevanza ovvero di minore rilevanza);
h) all'art. 36 (sanatoria di opere realizzate in assenza / totale difformità / variazioni essenziali dal p.d.c. / scia ex art. 23.01) il requisito della doppia conformità viene integralmente confermato;
i) le innovazioni più significative sono tutte racchiuse nel "nuovo" art. 36 bis del T.U.Ed.
i.1) La norma disciplina le ipotesi di:
parziale difformità dal permesso di costruire / Scia ex art. 23.01;
difformità e/o assenza di Scia;
i.2) il requisito della doppia conformità viene sostituito da una sorta di "duplice conformità": l'intervento deve essere conforme, cumulativamente:
alla disciplina edilizia vigente al momento della realizzazione;
alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda (di sanatoria);
i.3) l'innovazione più significativa, però, è quella della sanatoria condizionata: l'Amministrazione può subordinare il titolo in sanatoria alla realizzazione di interventi (art. 36 bis co. 2).
Questa norma risolve un'infinta casistica, atteso che il divieto di modificare la res ai fini dell'ottenimento della sanatoria (anche quale declinazione della "doppia conformità") era condizione ostativa della sanatoria stessa (e, magari, modifiche minime impedivano di sanare interventi ben più consistenti);
i.4) è inoltre espressamente disciplinata la sanatoria parziale: l'Amministrazione pone, quale condizione, la rimessione in pristino della porzione di intervento non sanabile (art. 36 bis co. 2 );
i.5) se l'opera è stata realizzata in assenza/difformità dall'autorizzazione paesaggistica, l'Amministrazione procedente deve acquisire il parere vincolante dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Il parere cessa di essere vincolante ove la Soprintendenza non si pronunci entro 90 giorni e l'Autorità preposta entro 180 giorni;
i.6) sulle istanze di sanatoria si forma il silenzio assenso: il termine è di 45 giorni dal ricevimento della domanda, mentre le sanatorie segnalate con Scia si consolidano nell'ordinario termine di 30 giorni (il legislatore risolve, così, un nodo insoluto della giurisprudenza, ove contemporaneamente resistevano 3 orientamenti sulla natura del silenzio in ordine alla scia in sanatoria: accoglimento [Tar Salerno], inadempimento [orientamento maggioritario], diniego [orientamento minoritario]).
Il termine per provvedere è sospeso per la durata dei termini a provvedere all'autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Il termine è invece interrotto (dunque ricomincia da zero) dalle "esigenze" istruttorie, e riprende a decorrere dalla ricezione dei documenti;
i.7) questioni interpretative: decorsi i termini per i pareri paesaggistici, l'Ufficio "provvede autonomamente". Non è chiaro se nella decisione debba refluire anche una valutazione di compatibilità paesaggistica, ovvero si intenda acquisito un parere favorevole per silentium (ipotesi che, dalla lettera della norma, sembrerebbe da escludersi);
premessa: il progetto della "Superlega" e le sue alterne fortune: come noto ai più, la Superlega è una competizione ideata da alcuni "top club" di calcio europei.
Questi hanno progettato un nuovo torneo, in buona parte simile alla Champions League organizzata dalla UEFA.
La UEFA e la FIFA, che di fatto detengono il monopolio dell'organizzazione di tornei - soprattutto internazionali - di calcio, ai quali partecipano sia le squadre promotrici della Superlega che i rispettivi giocatori, ha reagito muscolarmente a tale iniziativa, minacciando ed applicando sanzioni a tutti i promotori (salvo rinuncia alla competizione) e finanche ai singoli calciatori (inibendone la partecipazione ai tornei FIFA e UEFA, come competizioni tra nazionali e competizioni internazionali tra club).
la questione giuridica in estrema sintesi: la Superlega ha ritenuto che l'operazione di FIFA e UEFA non fosse compatibile con il diritto comunitario.
In sintesi, FIFA e UEFA sarebbero titolari di fatto (ancorchè non di diritto) di una posizione dominante nel mercato dell'organizzazione delle competizioni calcistiche.
In tale posizione non potrebbero riservarsi la preventiva approvazione di competizioni ulteriori e diverse.
la posizione della Corte di Giustizia: con sentenza del 21 dicembre 2023, la Corte di Giustizia ha:
innanzitutto, evidenziato che il mondo del calcio consiste in un mercato, anche di rilievo economico;
in secondo luogo, ha accertato la posizione dominante di FIFA e UEFA;
sulla scorta di tali premesse, non ha escluso a priori che FIFA e/o UEFA si riservino la facoltà di approvare e/o contrastare competizioni "nuove", ma ha sancito che tale potere risulta illegittimo - ed illegittimamente esercitato - laddove non ne siano preventivamente fissati i presupposti e le regole procedimentali. Nel caso in esame, non sussistendo requisiti prefissati, si è consumato un abuso di posizione dominante.
Considerazioni dell'autore: il calcio non è solo un mercato, ma è veicolo di valori e svolge una rilevante funzione sociale, aggregativa ed educativa.
Se l'aspetto mercantile è certamente tutelato dalla sentenza della Corte, che mira a conformare a legalità la posizione dominante assunta da FIFA e UEFA, non può non evidenziarsi come, per la peculiare rilevanza extra-economica, il mondo del calcio - e dello sport in generale - non dovrebbe essere lasciato ad una auto-regolamentazione così ampia.
La stessa competizione, in effetti, dovrebbe essere rappresentazione ed attuazione - al pari di ogni manifestazione sociale - dei valori fondanti dello Stato di diritto, e/o dell'Unione Europea.
La de-regulation, invece, è il dominio del più forte.
Premessa - cosa sono i tetti di spesa: Come noto, le Ragioni distribuiscono il budget da assegnare alle strutture sanitarie convenzionate, mediante determinazione dei cd. "tetti di spesa" da assegnare a ciascuna struttura.
Il tetto di spesa segna il limite massimo delle prestazioni che la Regione rimborserà (o meglio, remunererà) alla struttura.
La determinazione dei tetti di spesa, dunque, è un momento centrale nella predisposizione della politica aziendale delle strutture convenzionate, e da essa può dipendere anche la loro stessa esistenza (qualora le prestazioni convenzionate rappresentino il core-business della Società).
Per tale ragione i criteri di determinazione dei tetti, che vengono discrezionalmente stabiliti dalle singole regioni, sono spesso attenzionati dal G.A.
Il punto controverso: su di uno specifico punto, tuttavia, si rivela un andamento non del tutto univoco: la possibilità di computare, tra i diversi criteri, anche quello relativo alle prestazioni erogate "extra-budget" nel periodo di riferimento.
Trattasi di prestazioni che l'operatore eroga a proprio carico (anche se sarebbe più preciso dire "a proprio rischio"), oltre il tetto assegnatogli per l'anno di riferimento.
Sul punto si contrappongono diversi principi dell'ordinamento.
Per un conto, infatti, l'espletamento delle prestazioni extra-budget è sintomatico - al pari dell'espletamento delle misure infra-budget - della capacità complessiva della struttura di erogare un certo numero di prestazioni e, parallelamente, è conveniente "stimolare", in qualche misura, l'erogazione di un maggior numero di prestazioni (che, del resto, restano a carico del soggetto erogante, senza caricare i costi della Regione).
Per altro conto, però, l'erogazione delle prestazioni extra-budget è (tendenzialmente) una prerogativa dei big players, che sono gli unici a poter assumere un tale costo/rischio.
Favorire questi players, dunque, cela risvolti anticoncorrenziali ed in ogni caso penalizzanti per le piccole e medie realtà.
Le posizioni della giurisprudenza: l'ultimo arresto era, ad oggi, accomodato sulla sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, n. 8161/21, che aderisce alla seconda tesi (rilevanza anticoncorrenziale e penalizzate per le p.m.i, dell'inclusione del fatturato extrabudget tra i criteri di determinazione dei tetti di spesa).
Di recente, però, si segnala una pronuncia tendenzialmente difforme: T.A.R. Catanzaro, sez. II, n. 435/23. In essa prevale l'ambito di discrezionalità riconosciuto all'Amministrazione, in uno alla constatazione della capacità sintomatica delle prestazioni extra-budget, quale indice di capacità operativa della struttura convenzionata.
Considerazioni conclusive: la sentenza del T.A.R. Catanzaro, per quanto di certo rilievo, non prende posizione sui principi di cui alla sentenza 8161/21.
Tale considerazione non consente di ritenere pienamente sussistente un vero e proprio contrasto giurisprudenziale: i principi fissati dal Giudice di appello non sembrano (almeno allo stato) concretamente messi in discussione.
Seppure in sede cautelare monocratica, il Consiglio di Stato si è pronunciato, con il decreto in epigrafe, sul delicato tema del limite dell'onere di diligenza informatica che la P.A. può legittimamente pretendere dal privato.
Ovviamente la pronuncia si concentra sui rapporti tra P.A. e privato non professionista (es. avvocato, progettista etc) ed introduce, con evidenti elementi di novità, un nuovo argomento: il limite massimo di "tecnica" e "diligenza" che la P.A. può pretendere dal comune cittadino, nell'utilizzo degli strumenti informatici.
Il punto in effetti è cruciale, perché dietro alla "digitalizzazione" potrebbe in realtà celarsi una "impermeabilizzazione" della P.A, che diventa inaccessibile ai cittadini con meno dimestichezza verso lo strumento informatico.
Così rendendo più oneroso ogni rapporto con l'Ente Pubblico e, con esso, con la partecipazione alla Repubblica: istanze, interlocuzioni, concorsi.
Il tema era ormai inevitabile.
Ora, di volta in volta l'Amministrazione prima ed il suo Giudice poi, sanno di dover individuare (la prima) e giudicare (il secondo) la ragionevolezza e la proporzionalità delle scelte e degli equilibri, in tema di "diligenza informatica"
La trasparenza non è un valore assoluto.
Se ancora possono dirsi esistenti i cd. "interessi incomprimibili", tra di essi non vi è la trasparenza.
Per tale ragione occorre un compiuto bilanciamento di interessi. Se non è predeterminato "a monte" dal legislatore, non può essere elisso anche "a valle", dall'Amministrazione e/o dal Giudice.
Il conflitto di interessi emerge, spesso, tra trasparenza e riservatezza (anche "imprenditoriale": know how, strategie commerciali, tecniche acquisite, progetti di esecuzione, ottimizzazione dei costi e/o delle risorse, strategie fiscali, etc. ...).
Quando si parla di riservatezza "imprenditoriale", ci si trova al cospetto di un asset di competenze e conoscenze di certa rilevanza economica (le imprese investono notevoli risorse per l'acquisizione delle proprie competenze).
Ed è evidente che tale interesse non possa essere sic et simpliciter vanificato da una istanza di accesso agli atti, eventualmente nelle forme dell'accesso civico generalizzato (dunque, senza neppure obbligo di allegazione di un interesse e/o di una particolare legittimazione).
Se ne snaturerebbe la funzione: non trasparenza della P.A, ma "binocolo" per spiare il vicino.
L'ordinamento non è privo di difese.
Per l'accesso civico generalizzato, è pacifico l'obbligo di ponderazione degli interessi in conflitto.
E' lo stesso art. 2 del d.lgs. 33/2013 a premettere che la facoltà di accesso civico è “garantita, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti”. Non accorda una preferenza predeterminata, né istituisce un automatismo, ma “seleziona” quale interesse rilevante, qualsiasi interesse pubblico o privato.
Come sinteticamente – ed efficacemente – evidenziato dal Consiglio di Stato, “nel confronto tra accesso documentale classico e accessi civici, generico ed universale – si guadagna in estensione ciò che si prede in intensità” (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 1817/19).
Anche la giurisprudenza di merito ha fatto applicazione del principio: “sul piano dell’intensità, è caratterizzato da pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso documentale, posto che – in presenza di controinteressi rilevanti – lo scrutinio di necessità e proporzionalità risulta orientato dalla massimizzazione della tutela della riservatezza e della segretezza, in danno della trasparenza” (T.A.R. Sardegna, sent. 254/21).
Vi è poi il profilo processuale.
Il sindacato giurisdizionale spesso non può prescindere dalla piena contezza del contenuto dell'offerta tecnica (e, con esso, del patrimonio di competenze di cui si è detto innanzi).
La diversa sede (processuale invece che procedimentale), tuttavia, non vale a giustificare una ultronea compromissione dell'interesse-riservatezza.
Anche perché sia il diritto ad un ricorso effettivo che il diritto alla riservatezza "imprenditoriale", appartengono al medesimo genus della tutela della concorrenza.
Il punto di mediazione è stato trovato dalla Giurisprudenza Comunitaria (CGUE sent. 7 settembre 2021, causa C-927/19) ed è dato dal cd. accesso riservato.
Qualora risulti effettivamente un segreto industriale meritevole di tutela, e del pari la conoscenza del suo contenuto sia imprescindibile per la decisione della causa, il Giudice può assumere gli atti "riservati" e valutarli senza sottoporli alle parti.
Nella mediazione, dunque, chi ci perde è il contraddittorio in senso stretto.
L'indirizzo è timidamente seguito anche dalla giurisprudenza nazionale (Consiglio di Stato, ord. 3897/21).
Resta ferma l'ipotesi in cui, acquisiti gli atti in modalità "riservata" (cioè in plico chiuso diretto al solo Collegio giudicante, non depositato al fascicolo telematico), il Tribunale disconosca l'esistenza di un segreto commerciale.
In tal caso, infatti, gli atti dovrebbero ritornare accessibili alle parti, con piena riespansione del contraddittorio processuale.
La sesta Sezione del Consiglio di Stato (con sentenza n. 5746/22) prende posizione sulla possibilità di formazione del silenzio assenso, nelle ipotesi di non conformità dell'attività oggetto di istanza al paradigma legale che la regola.
Il caso emblematico è la richiesta di titolo edilizio per la realizzazione di un'opera in contrasto con il regolamento urbanistico.
Soprattutto in tempi un po' più risalenti (e comunque recenti) si è spesso preferita la tesi secondo cui il silenzio assenso non varrebbe a legittimare istanze ad oggetto attività illegittime.
Ciò, secondo lo schema per cui il silenzio non può valere ad ottenere più di quanto un provvedimento espresso avrebbe consentito (tornando all'esempio di cui innanzi: una istanza di p.d.c. recante un progetto in contrasto con il ruec, andrebbe definita con un provvedimento di diniego. Con il silenzio assenso, invece, l'istante ottiene più di quanto la disciplina "di settore" gli consentirebbe).
Il punto è che tale impostazione vanifica l'istituto di semplificazione, sconfessando una valutazione di opportunità già operata a monte dal legislatore.
L'effetto pratico di questa impostazione, è che l'Amministrazione sarebbe sempre in tempo per individuare motivi di diniego, perché la loro semplice ricorrenza non consentirebbe al silenzio assenso di perfezionarsi.
Così l'istanza sarebbe eternamente pendente, e l'Amministrazione non consumerebbe mai il potere di decidere in senso sfavorevole all'istante: in breve, il silenzio assenso non restituirebbe alcuna certezza dei rapporti.
Così si è fatta largo, ormai da tempo, la tesi più "radicale", secondo cui gli istituti di semplificazione (silenzio assenso, scia) prescindono dalla conformità dell'attività al paradigma normativo che la regola.
Molto efficace la sintesi operata con la sentenza citata: "il dispositivo tecnico denominato ‘silenzio-assenso’ risponde ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia ‘equivale’ a provvedimento di accoglimento (tale ricostruzione teorica si lascia preferire rispetto alla tesi ‘attizia’ del silenzio, che appare una fictio non necessaria). Tale equivalenza non significa altro che gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Con il corollario che, ove sussistono i requisiti di formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge.
Reputare, invece, che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi alla disciplina della annullabilità: tale trattamento differenziato, per l’altro, neppure discenderebbe da una scelta legislativa oggettiva, aprioristicamente legata al tipo di materia o di procedimento, bensì opererebbe (in modo del tutto eventuale) in dipendenza del comportamento attivo o inerte della p.a.
Inoltre, l’impostazione di “convertire” i requisiti di validità della fattispecie ‘silenziosa’ in altrettanti elementi costitutivi necessari al suo perfezionamento, vanificherebbe in radice le finalità di semplificazione dell’istituto: nessun vantaggio, infatti, avrebbe l’operatore se l’amministrazione potesse, senza oneri e vincoli procedimentali, in qualunque tempo disconoscere gli effetti della domanda".
Ovviamente, salva "l’ipotesi della radicale inconfigurabilità giuridica dell’istanza: quest’ultima, cioè, per potere innescare il meccanismo di formazione silenziosa dell’atto, deve essere quantomeno aderente al ‘modello normativo astratto’ prefigurato dal legislatore " (cfr. sent. cit.).
Legittimo affidamento: principio astratto o concetto giuridico determinato?
Tutti ne abbiamo sentito parlare, nei più disparati ambiti del diritto: responsabilità precontrattuale, annullamento dei provvedimenti amministrativi, novelle legislative, per citarne alcuni.
Anche il contenuto di massima del principio è "genericamente" noto, e potrebbe sintetizzarsi come "un'aspettativa qualificata nella conservazione dello status quo ante" (con la dovuta precisazione che il legittimo affidamento può avere sia una accezione pretensiva che oppositiva).
Così, dunque, può pacificamente concludersi che il l.a. rappresenti un parametro di legittimità (a seconda dei casi, di una norma, di un provvedimento o un comportamento).
Così posto, però, il legittimo affidamento non si smuoverebbe dall'astrazione. E la sua indeterminatezza lo renderebbe uno strumento giuridico inefficace.
Non è questa la sede per riepilogare la storia del principio, che contrasterebbe con la sinteticità dell'articolo.
Può invece evidenziarsi come l'Adunanza Plenaria, con la recente sentenza n. 10/2022, nel riepilogare (essa si) la teoria del legittimo affidamento, ha enucleato gli elementi che consentono di indagare la ragionevolezza (e quindi la legittimità) degli atti che ne vengono in opposizione.
Così riuscendo nel pregevole scopo di consegnare all'interprete uno strumento certo, cioè un procedimento ermeneutico predeterminato.
Si è così prospettato un vaglio trifasico (in cui vengono esaminati 3 criteri in sequenza):
a) il primo step: occorre verificare che effettivamente l'affidamento possa dirsi "legittimo". Tale step si suddivide in due sub-criteri:
a.1) il primo: la situazione giuridica deve essersi consolidata in conformità alla norma regolatrice e deve essersi protratta per un ragionevole lasso di tempo, durante il quale deve essersi conservata la buona fede (soggettiva) del soggetto che versa in affidamento;
a.2) il secondo: la modifica della situazione "consolidata" deve essere imprevedibile;
b) il secondo step: la ricorrenza di una "causa normativa adeguata": l'intervento "avversativo al legittimo affidamento" deve essere giustificato dalla necessità di salvaguardare un interesse (almeno) di pari rango;
c) il terzo step: deve esserci proporzionalità tra il sacrificio imposto al legittimo affidamento ed il beneficio che ne consegue l'interesse che si intende tutelare.
Gli strumenti del diritto devono consentire di "risalire" dall'incertezza alla certezza. L'Adunanza Plenaria sembra essere riuscita nello scopo.
Non di rado si pone il dubbio sul titolo edilizio necessario per la trasformazione di una finestra in una porta-finestra, e/o comunque sul titolo necessario in tutte le ipotesi in cui vengono modificati i prospetti.
A tal riguardo, giova premettere che la disciplina non è indifferente alla collocazione dell'intervento su immobile vincolato, e/o alla rilevanza dell'intervento (ove alle modifiche prospettiche si associno anche ulteriore elementi di rilevanza edilizia).
Con il d.l. 76/2020 ("decreto semplificazioni"), infatti, il legislatore ha inequivocabilmente chiarito che la mera modifica dei prospetti - se eseguita su immobile non vincolato - non è condizione sufficiente ad attrarre l'intervento nell'alveo del permesso di costruire.
Per tale ragione, come da ultimo ribadito dal Consiglio di Stato, sent. 467/22: "simile intervento [trasformazione di finestre in porte-finestre - n.d.r.], invece, comportando una modifica dei prospetti, è sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'art. 3 comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/01, e deve essere segnalato con SCIA".