3. Salute, ambiente 

e consumo di suolo

Il rapporto capitalistico tra città e territori circostanti appare sempre più caratterizzato da un atteggiamento di tipo predatorio, con le risorse, territoriali e sociali, messe a profitto, l’ambiente rurale e montano trasformato in un parco giochi per decomprimere lo stress urbano, con la conseguente distruzione di boschi e la cementificazione di nuovo suolo per la costruzione di alberghi, centri commerciali, stazioni sciistiche. Altrove invece gli spazi verdi vengono destinati alla costruzione di mostruosi impianti di incenerimento dei rifiuti urbani iper-prodotti dall’industria capitalistica. Le conseguenze di questi atteggiamenti sono ampiamente visibili: terreni abbandonati e suoli cementificati che non assorbono acqua producendo allagamenti, come accaduto nelle Marche e poi in Emilia nel corso dell’ultimo anno. 


Lo sviluppo capitalistico ha innescato cambiamenti climatici e trasformazioni negli equilibri della natura ormai irreversibili di cui le grandinate distruttive nel mezzo dell’estate, da un lato, e incendi devastanti e incontrollabili dall’altro, sono le manifestazioni più evidenti. Eventi, questi, che si sommano allo stato di dissesto idrogeologico in cui versa il nostro Paese, all’edificazione selvaggia, alla mancanza di politiche per la rigenerazione e il riuso dell’esistente; nei territori colpiti dai terremoti o da altri eventi catastrofici anziché recuperare e mettere in sicurezza edifici e abitazioni si pensa a sfruttare la situazione per generare nuovi profitti e/o al contempo spopolare le aree interne. 


In questo contesto la risorsa idrica è sempre più concentrata nelle mani di grandi multinazionali (a volte anche a capitale pubblico) che ne privatizzano l’uso affinché sia fonte di profitti mentre la sua scarsità – provocata dalle scelte del capitale – la sta trasformando in causa di conflitti anche bellici. Solo liberandola dalle leggi economiche capitalistiche potremo restituirla alla sua naturale funzione di fonte primaria e insostituibile di vita.Anche le campagne extracittadine sono oggi sotto attacco della cementificazione: soltanto 17.8 milioni di ettari sono oggi territorio non cementificato nel nostro paese, ed anche i luoghi più insospettabili sono oggi oggetto degli interessi dei costruttori e di chi pensa di poter trasformare anche gli edifici presenti nelle cosiddette “aree interne” in occasioni di speculazione sul mercato finanziario. 


Le stesse dinamiche di privatizzazione e di messa a valore dell’esistente producono una città finanziarizzata e respingente, in grossa parte pensata come vetrina per il meccanismo del turismo di massa, con affitti alle stelle, il costo della vita aumentato e la mancanza di spazi in grado di aumentare la qualità della vita. Mentre le sue periferie vengono private di ogni servizio pubblico universale e gratuito a cominciare da quello sanitario, scolastico, sociale; in questo modo anche attaccando il salario indiretto e condannando le proletarie e i proletari a relazioni sociali ed economiche sempre più degradate: lavoratori ipersfruttate sia dall’economia “legale” che da quella “illegale”.


Queste stesse logiche agiscono nei territori extra-urbani dove la privatizzazione delle risorse, la distruzione dei luoghi, la carenza di servizi e l’allontanamento delle popolazioni favoriscono l’addomesticamento della natura alla produzione del profitto (attraverso il turismo, gli allevamenti e le coltivazioni intensive, i cicli più nocivi dell’industria). È in questi territori che la delocalizzazione delle opere di smaltimento di rifiuti della città ammalano gli abitanti e rendono l’ambiente invivibile e incapace di garantire una vita degna per chi lì abita. 


Di fronte a questo quadro, che spesso si serve dell’emergenza come arma strategica per imporre direzioni, rivediamo in azione alcune forme di conflitto nei territori interni, dove emerge una necessità di riappropriazione collettiva dei beni e delle risorse, dall’acqua all’aria pulita, dai terreni adibiti ad “usi civici” alla opposizione a inceneritori o al riemergere di “grandi opere” come il ponte sullo stretto di Messina. A fronteggiare questi costanti tentativi di messa a valore contrari alla salute collettiva, stanno prendendo corpo diverse forme di autorganizzazione sui territori, che passano per diverse strategie di lotta: presidi, cortei, ma anche sperimentazione di modalità alternative della socialità.


Pensiamo sia utile allora una discussione che connetta la salute con l’ambiente e l’uso del territorio (dal consumo di suolo alla sua devastazione, fino alle servitù militari). Consapevoli che la guerra fra NATO e Russia in corso di svolgimento sul suolo e a danno delle popolazioni Ucraine e Russe mostri come la crisi capitalistica ci avvicini sempre più a scenari apocalittici e intanto produce già oggi qui da noi l’impoverimento di lavoratrici e lavoratori, la messa ai margini di ogni politica ecologica, l’orientamento della spesa pubblica verso le armi, la necessità di imporre la pace sociale attraverso una sempre più difusa politica di repressione militare e sociale.


Per questo motivo pensiamo sia importante chiamare a raccolta tutte quelle realtà in grado di dare il loro contributo, da diverse angolature, per comprendere quali sono le conseguenze sul piano della salute di opere, progetti e azioni volte a nuove forme di consumo di suolo, alla gestione privata delle risorse. Da questo confronto è possibile immaginare diverse e nuove forme di mobilitazione e lotta che mettano al centro l’autorganizzazione e la necessità di ripartire da una rottura con l’esistente. L’occasione data dai tavoli di discussione del 9 settembre a Metropoliz riteniamo possa essere proficua per una discussione sulla guerra interna per tenere insieme istanze e vertenze che si uniscono nell’idea che l’unica grande opera debba essere la difesa della salute delle persone e dei territori, della casa, del salario e del reddito. Per individuare parole comuni su ambiente, territorio e salute che ci accompagnino anche verso le mobilitazioni contro la guerra previste per il 21 ottobre 2023.