Metodiche

Nel corso del progetto sono state applicate una serie di metodiche di tipo archeometrico, tecniche di spettroscopia e spettrometria, oltre che di modellazione 3D e fotogrammetria.

LIBS

La LIBS (Laser-induced breakdown spectroscopy) è una tecnica di spettroscopia di emissione atomica che consente una rapida analisi multi-elementare sia qualitativa che quantitativa. La tecnica si basa sulla formazione di un plasma creato dall'ablazione e dall'evaporazione di un campione focalizzando un fascio laser impulsato sulla superficie dello stesso. Atomi e ioni vengono eccitati all'interno del plasma caldo e vengono emesse linee caratteristiche che possono essere analizzate spettroscopicamente. Quindi, le informazioni elementari possono essere ottenute dalle transizioni atomiche o ioniche specifiche e dai fotoni emananti associati.

Strumentazione LIBS portatile:

Fino a qualche anno fa, le applicazioni sul campo della tecnica LIBS erano limitate dalle dimensioni dell’apparato sperimentale, che al massimo poteva essere compattato nella forma di strumenti mobili, in ogni caso vincolati alla disponibilità della rete elettrica per l’alimentazione del laser, dello spettrometro, del computer e dell’elettronica associata.

Da qualche anno a questa parte, lo sviluppo della tecnologia ha consentito la realizzazione di sistemi LIBS compatti, funzionanti a batteria, che si sono dimostrati particolarmente efficienti nelle applicazioni di Scienze della Terra e per i Beni Culturali.

Uno strumento LIBS portatile è stato acquisito dall’Unita del CNR, ed è stato già testato con successo sul campo in una delle campagne sperimentali del progetto UDERLANDSCAPE. L’unica sostanziale limitazione dei sistemi portatili è la necessità di operare quasi a contatto con l’oggetto da analizzare, e questo può creare difficoltà in presenza di superfici irregolari.

D’altra parte, gli spettri acquisiti possono essere già analizzati in tempo reale utilizzando il software incluso nello strumento, che fornisce immediatamente e in maniera quantitativa la composizione elementare del materiale. Allo stesso modo, gli stessi spettri possono essere scaricati su computer off line, per applicare su di essi i diversi metodi analitici che sono stati sviluppati nel corso degli ultimi anni per una efficiente classificazione e quantificazione delle componenti elementari.

Luce Radente Interattiva (RTI)

Un modo molto efficace di studiare i profili superficiali di oggetti e strutture complessi si basa su una tecnica chiamata Reflection Transformation Imaging (RTI). La tecnica prevede l’acquisizione di una serie di immagini digitali della superficie, ottenute mantenendo la fotocamera fissa e variando l’angolo di illuminazione, mantenendo una geometria prefissata (stessa distanza dell’illuminatore dall’oggetto e angoli definiti), andando a coprire idealmente in maniera equispaziata una semi-sfera intorno all’oggetto.

Una volta acquisite le immagini, mediante un software open source si elaborano le foto per ottenere un modello ad illuminazione variabile, che può essere utilizzato proficuamente per evidenziare dettagli della superficie che potrebbero risultare poco visibili in una fotografia tradizionale, specie se, come spesso accade quando si usano flash o illuminatori montati sulla fotocamera, l’illuminazione è quasi perpendicolare alla superficie.

Durante l’acquisizione, la posizione della macchina fotografica può essere mantenuta utilizzando un cavalletto, o anche eventualmente in maniera manuale, avendo cura di non spostare apprezzabilmente il campo visivo della fotocamera. In questo ultimo caso, sarà necessario riallineare le immagini, utilizzando un opportuno software, per compensare i piccoli spostamenti della fotocamera tra uno scatto e l’altro.

La parte più critica di questo procedimento è il posizionamento dell’illuminatore ad una distanza fissa dall’oggetto e, soprattutto, la determinazione degli angoli radiali e azimutali corrispondenti alle singole immagini. In questo caso la costruzione dell’immagine RTI interattiva è sufficientemente rapida (pochi minuti) da consentire un controllo in situ e in tempo reale della qualità del modello e, in caso di necessità, porre rimedio a eventuali problemi.

Imaging multispettrale

Le tecniche di imaging multispettrale, tra le molte possibili applicazioni, sono particolarmente indicate per evidenziare iscrizioni e tracce di pittura non facilmente individuabili o leggibili ad occhio nudo.

Il principio su cui si basano queste tecniche è la ricostruzione della risposta spettrale (in riflessione diffusa) della superficie studiata quando è illuminata con una luce bianca o approssimabile ad essa. Il colore che noi percepiamo di un oggetto è dato, per esempio, dalla combinazione della luce riflessa nella banda del blu (corrispondente alla zona spettrale delle lunghezze d’onda comprese tra 400 e 500 nm) del verde (500-600 nm) e del rosso (600-700 nm).

L’imaging multispettrale prevede l’acquisizione di immagini in intervalli spettrali ben definiti. Ci sono diversi metodi per ottenere queste immagini, quello più semplice prevede di interporre dei filtri ‘passa-banda’, che facciano passare, cioè, la luce corrispondente a lunghezze d’onda comprese all’interno della banda passante del filtro. Gli strumenti utilizzati per questo scopo hanno sensori che possono acquisire immagini anche al di fuori dello spettro visibile, in particolare nell’ultravioletto (lunghezze d’onda tra 200 e 400 nm) e, soprattutto, nell’infrarosso (tra 700 e 1100 nm). Questi sistemi, pur essendo molto performanti in termini di riduzione del rumore elettronico in condizioni di bassa illuminazione, sono strutturati per essere collegati alla rete elettrica e, pertanto, non possono essere utilizzati nelle condizioni tipiche del progetto UNDERLANDSCAPE.

Un’alternativa economica e compatibile con la necessità di utilizzare strumentazione compatta e alimentata a batteria è quella di utilizzare una fotocamera digitale commerciale, opportunamente modificata per sfruttare la sensibilità estesa del sensore nell’infrarosso ed equipaggiata con un opportuno set di filtri. Le fotocamere digitali commerciali hanno un filtro che blocca la luce infrarossa davanti al sensore, per riprodurre la sensibilità dell’occhio umano nelle bande del visibile. Rimuovendo il filtro taglia-infrarosso (è possibile farlo senza possedere particolari capacità tecniche, oppure si possono acquistare ad ottimo prezzo delle macchine fotografiche usate e già modificate in questo modo) si recupera la sensibilità del sensore da 200 nm fino a circa 1000 nm. A questo punto si possono continuare ad acquisire buone foto a colori (quindi nelle tre bande del blu, verde e rosso) applicando un filtro sull’obbiettivo che faccia le stesse funzioni di quello rimosso davanti al sensore (UV- e IR-cut); inoltre, si possono acquisire immagini nell’infrarosso, applicando dei filtri aggiuntivi (ad esempio, come nel nostro caso, si posso utilizzare filtri che consentono il passaggio della luce da 750 nm in su, e da 950 nm in su, rispettivamente, per ottenere complessivamente 5 bande spettrali indipendenti nel blu, nel verde, nel rosso, nell’IR vicino e nell’IR lontano).

Questo set di 5 immagini multispettrali viene quindi elaborato utilizzando degli algoritmi statistici che esaltano dettagli poco visibili o migliorano la leggibilità di iscrizioni quasi cancellate dal tempo e dalle intemperie. Il CNR ha sviluppato, nell’ambito del progetto, un algoritmo chiamato IFF (Interesting Feature Finder) che elabora automaticamente il set di immagini spettrali per separare le componenti associate a materiali con diverso comportamento ottico e quindi, idealmente, aumentare il contrasto tra substrato e dettaglio/iscrizione/pittura. C’è da notare che una rudimentale separazione basata sul comportamento ottico si può ottenere anche a partire dalla semplice immagine a colori (quindi con le tre sole bande del rosso, del verde e del blu – RGB in inglese) utilizzando un software chiamato DStrech, sviluppato appositamente per questo scopo e disponibile come plug-in del software open source e multipiattaforma ImageJ.

Ricostruzione 3D

Per la ricostruzione di un modello tridimensionale delle grotte sono state sperimentate diverse metodologie. 

1) La classica fotogrammetria con macchina fotografica digitale, soddisfacente dal punto di vista del risultato complessivo. Una fotocamera digitale di tipo reflex consente di acquisire numerose immagini in tempi relativamente brevi; inoltre, la possibilità di modificare i parametri di acquisizione (tempo di esposizione, diaframma, sensibilità) rende meno difficoltosa l’applicazione di questa tecnica in condizioni di bassa illuminazione. È anche possibile, ma idealmente non consigliato, l’uso di illuminatori a batteria ricaricabili per migliorare la visibilità dei particolari più in ombra. Non è normalmente necessario, né opportuno, l’uso del cavalletto. Per quanto questo approccio possa considerarsi probabilmente da preferire rispetto ad altre strategie di acquisizione, non si deve trascurare il fatto che in strutture di grandi dimensioni possono essere necessarie migliaia di fotografie per una ricostruzione soddisfacente. Inoltre, la ricostruzione del modello avviene utilizzando software commerciali, relativamente costosi e in tempi abbastanza lunghi. Non è quindi possibile costruire il modello in situ, con tutte le difficoltà associate al fatto che qualsiasi eventuale problema nell’acquisizione delle immagini (può spesso succedere che alcune zone non siano state coperte da un numero sufficiente di immagini per ricostruirne correttamente i dettagli) si evidenzia quando ormai non è più possibile porvi direttamente rimedio.

2) L’uso della fotocamera di un cellulare o di un tablet, per acquisire un filmato delle superfici da modellizzare in tre dimensioni. La fotocamera di un telefono cellulare è normalmente più luminosa di una fotocamera tradizionale, e quindi può sopperire alla difficoltà di modificare i parametri di acquisizione che caratterizza la maggior parte dei telefoni cellulari di fascia intermedia. In modalità ‘normale’ si riescono tipicamente ad acquisire 24 fotogrammi ad alta risoluzione in un secondo di filmato, e se si ha la possibilità di acquisire il filmato in modalità ‘slow motion’, si può arrivare fino a quasi 300 fotogrammi per secondo. Questo vuol dire immagazzinare in tempi molto brevi una grande quantità di immagini (riducendo quindi il rischio di avere zone sotto-campionate) che possono poi essere automaticamente ridotte al numero necessario per garantire una ricostruzione 3D di ottima qualità. È importante che durante l’acquisizione del filmato il movimento non sia eccessivamente rapido, per evitare di avere fotogrammi ‘mossi’. In modalità ‘slow motion’ quest’accortezza è meno importante, ma in queste condizioni i filmati sono più ‘pesanti’ dal punto di vista delle dimensioni e anche i fotogrammi sono in proporzione meno luminosi a causa del tempo di esposizione più ridotte. Le condizioni ottimali di acquisizione dipenderanno dall’illuminazione e dalle dimensioni della struttura da modellizzare.

3) L’ultimo approccio testato non prevede una ricostruzione del modello basata sulla fotogrammetria, ma sfrutta direttamente il sensore di distanza (LIDAR) che caratterizza alcuni telefoni e tablet di ultima generazione. Il sensore di distanza funziona con un principio simile a quello del radar: un impulso, in questo caso di luce, viene inviato sull’oggetto, e si misura il tempo complessivo che intercorre tra l’invio dell’impulso e l’arrivo del segnale riflesso dall’oggetto. Conoscendo la velocità dell’impulso, che è quella della luce, si determina la distanza percorsa dall’impulso tra andata e ritorno, e quindi la distanza dell’oggetto dal sensore. L’acquisizione è molto rapida: il sensore lidar di iPhone/iPad emette 576 micro-fasci laser paralleli (nella regione dell’infrarosso) che misurano la distanza dell’oggetto e, conseguentemente, ricostruiscono il profilo della superficie nella zona inquadrata. La mappa 3D risultante viene poi interpolata su un’immagine a colori convenzionale di 256x192 pixel. Vengono acquisite 60 mappe 3D della superficie al secondo. Il modello completo si costruisce facendo una scansione delle superfici, con una strategia analoga a quella utilizzata per l’acquisizione di un filmato 2D. Il grosso vantaggio di questo sistema è la possibilità di acquisire il modello 3D molto rapidamente e verificarne la qualità in tempo reale. Esistono ottimi software di ricostruzione che girano sul telefono o sul tablet, anche gratuiti, che facilitano moltissimo le operazioni. Il limite di questa metodologia è la risoluzione del sensore LIDAR (dell’ordine di un centimetro) e il range limitato a circa 4-5 metri. L’impossibilità di ricostruire superfici a distanza maggiore di qualche metro è un forte limite per grandi grotte caratterizzate da volte alte. C’è da dire che alcuni software immagazzinano, insieme al modello 3D, anche le immagini a colori acquisite per la texturizzazione del modello; quindi, andrebbe verificata la possibilità di integrare il modello a bassa risoluzione con un modello invece fotogrammetrico, costruito utilizzando queste immagini. Il vantaggio in questo caso sarebbe quello di avere in tempo reale un modello completo, per quanto a bassa risoluzione, utilizzando il sensore LIDAR, da cui però sarebbe possibile anche ottenere un modello fotogrammetrico a risoluzione più alta sfruttando le immagini contemporaneamente acquisite.