Credi di conoscere bene te stesso? Hai già scoperto tutte le tue potenzialità? Per me quella mattina di luglio è stata come l’inizio di una “nuova me”.

"Tum-tin-rin-tim-tam!"... “Mamma?!” Avevo solo tre anni, ero una bimba impacciata che viveva con la nonna a Vicenza, ma questa bimba aveva solo un obiettivo in testa: imparare a disegnare.

Le matite erano sparse per terra come bastoncini da shanghai, mentre sentivo la mamma sospirare, alzando gli occhi al cielo per poi chinarsi a raccogliere i colori. “Volevo solo disegnare” farfugliai “ma sono sem… “ non ho finito la frase perché mi sono accorta che mi stavano addosso gli occhi sognanti di mia madre, che dopo un istante si è affrettata a raccogliere le matite colorate, come se stesse aspettando da tanto quelle parole.

Ci siamo sedute al tavolo della cucina e subito abbiamo notato che non sapevo neppure tenere bene la matita in mano, figuriamoci disegnare! Però la mamma è determinata e io non mi sarei arresa subito, per una volta. Abbiamo iniziato da una cosa difficile: un gatto. Sapevo bene com’è fatto un gatto: quattro zampe, lunga coda, orecchie a punta e baffi lunghi, ma disegnare tutto ciò… è un altro discorso!

La mamma, come se niente fosse, aveva iniziato a muovere la matita a scatti qua e là per il foglio, così veloce e sicura di sé che sembrava di vederla dentro ad un video accelerato. Avevo cercato di imitarla muovendo la matita a caso ma dopo mezzo secondo mi si era attorcigliata tra le mani, scarabocchiando il foglio e cadendo con un colpo secco sul pavimento di marmo. Mia madre si è bloccata, come se qualcuno avesse messo in pausa il video, poi guardandomi con quei suoi occhi dolci e con aria colpevole annunciò: ”Ricominciamo, ma più lentamente”. Subito mi sono sentita rincuorata.

Concentrandomi, passo dopo passo, il mio gatto ha preso forma. Finito il mio capolavoro ero veramente soddisfatta: si capiva che era un bel felino a quattro zampe.

“Fatto!" ha sospirato mamma dando un’occhiata al mio felino, dopodiché ha lasciato cadere la matita dalle mani, facendo un balzo sulla sedia con occhi sbarrati sulla mia opera d’arte e la bocca aperta che quasi sbavava sulla carta. “Oh, che bel gatto…” e poi ”è più bello del mio!” ha ammesso lei abbassando la voce. Io, per tutta risposta, ho esclamato: ”Visto? E’ facile, basta andare con calma: chi va piano va lontano”.

Sono accorsi subito la nonna e il papà, che sono rimasti a guardare il mio disegno come fosse un quadro di Van Gogh. Dopo qualche minuto è arrivato anche il nonno dal lavoro e non ha avuto neanche il tempo di salutare la famiglia che già aveva il disegno a pochi millimetri dal naso. Ha sbirciato da dietro il foglio la mia faccia, con un sorriso da un orecchio all’altro.

Le sue parole non le dimenticherò mai:” chi potrebbe mai desiderare una nipote migliore?”

(Ivon)

Odio e disprezzo quella macchina utile, che risucchia tutto ed è rumorosa ma efficace: L’ASPIRAPOLVERE. Ecco il nome della cosa più odiosa del mondo. Ho sempre nutrito pensieri negativi nei suoi confronti.

Quel maledetto giorno, mia mamma stava facendo pulizie in soggiorno, io la stavo “aiutando” mettendo in ordine i miei peluche e giocattoli. Ero piccina e scatenata come un tornado, così piccina che avevo appena imparato a farmi i lacci alle scarpette nuove, non ne ero ancora del tutto capace. Stavo urlando dalla gioia, cantando e ballando, ovviamente male, perché non sapevo e non credo di saper ballare decentemente. Traboccante di entusiasmo mi misi a correre ovunque per la casa, anche se ero piccola correvo e saltavo, però era un errore… Caddi, tutta colpa di quel marchingegno aspiratore: inciampai nel tubo di plastica, che in quel momento mi sembrò ben più duro della semplice plastica. Caddi con il ginocchio rivolto verso il pavimento di mattonelle di marmo bianco indistruttibili. Piansi come non mai, sembrava che si stessero allagando il soggiorno e la cucina, mia mamma mi soccorse immediatamente, portandomi una bistecca congelata arrotolata in un asciugamano, perché in inverno non avevamo ghiaccio nel freezer. Mi ricordo ancora che era bianco, soffice e consolante come una nuvola. In quel momento arrivò mio padre con mia sorella, che era andata ad equitazione.

Dopo un po’ di urla e lamenti, la chiamai e le sussurai: “Silvia, ho imparato a farmi i lacci alle scarpe da sola, non sei contenta?”

Per questa disavventura nutro tuttora odio per l’aspirapolvere.

Il momento più noioso della vicenda fu quando mia mamma mi fece una ramanzina di almeno dieci minuti. Il bello è che io annuivo sempre, come gli asini, ma non avevo ascoltato una frase, anzi... forse una sì, mi pare che fosse una cosa di questo genere: “Lara, ti abbiamo ripetuto miliardi di volte di non correre, saltare, ma soprattutto non devi essere, fare, la scatenata, perché la casa non è enorme”. “Ma il problema è che io sono così”, avrei forse dovuto rispondere.

Ormai sono abituata a convivere con la tranquillità sia a casa, che a scuola, dove costa più fatica, e da quel giorno sto alla larga da quel terribile marchingegno, anche se a volte sono obbligata a fare le pulizie. In realtà ho ancora un po’ di paura, ma questo rimarrà un segreto tra me e voi.

(Lara)

Era un fantastico lunedì pomeriggio del lontano 12 settembre del 2012, alle 18:30, quando aprii la porta del campo e, con le mie prime scarpe da calcio appena comprate, pestai l'erba fresca, verde e tagliata alla perfezione.

Mi diressi al mio gruppo, conoscevo quasi tutti i miei compagni, perchè frequentavamo lo stesso asilo e incontrandoci per strada ci salutavamo subito.

Iniziai l'allenamento, mentre calava il buio. Un'emozione unica: sotto le luci soffuse del campo, con i palloni da calcio che volavano, gli strisci sulle ginocchia quando scivolavo sull'erba fresca, le esultanze più strampalate di quando si faceva goal, il rimbombo di quando le palle sbattevano contro i pali della porta.

In tutto questo c'ero io che avevo paura del mister, che era alto un metro e ottanta, un gigante per noi piccoli: non riuscivo neanche a parlargli.

Finito l'allenamento, mi fecero uscire a forza e, appena il mio piede fu al di fuori del campo, mi misi a piangere.

Quella volta non mi sono fatto la doccia al campo perchè non avevo il necessario, anche se avrei voluto tantissimo poter rimanere lì con gli altri.

Arrivato a casa telefonai a tutti i parenti per annunciare con orgoglio che avevo iniziato a giocare a calcio.

Il calcio per me non è solo uno sport, per me è la vita. Ci tengo talmente tanto che non lo abbandonerei mai, e lo sto dimostrando proprio in questi giorni: anche se in questo momento non potrei giocare perchè mi sono stirato l'inguine, minimo una volta a settimana mi alleno e... mi tengo il dolore.

(Riccardo)

Ho quattro anni e sono una bambina molto allegra e vivace, per di più non sto zitta neanche un secondo. La mia più grande passione è ballare con la mia migliore amica, Leti.

È un bellissimo giorno di primavera, il vento tra i capelli, il tiepido sole che scalda la terra e tutto che rinasce dopo un terribile inverno.

Sto andando, assieme a mia mamma, a casa della mia adorata Leti. Conosco a memoria casa sua, la cucina rossa, il piccolo bagno lì infondo e il "corridoio infinito", chiamato così perché percorre la casa in tutta la sua lunghezza.

Finalmente, dopo aver attraversato il "corridoio infinito", arrivo a destinazione: la cameretta tutta rosa di Leti. Appena varco la soglia, vengo travolta da lei che mi abbraccia calorosamente. Mi prende per mano e mi porta davanti alla sua parete-specchio, alza il volume della canzone e mi trasporta nel nostro mondo di fantasia.

Fingendo di essere delle ballerine famose, trascorriamo il nostro pomeriggio ideale.

Alla fine, caschiamo sul letto per riprendere le forze in vista dello “spettacolo”. Come ogni volta infatti, chiamiamo il nostro pubblico, cioè la famiglia di Leti e mia mamma, ed entusiaste mostriamo loro la coreografia appena inventata e provata allo sfinimento. Tutti applaudono e noi ci sentiamo molto soddisfatte del “duro” lavoro svolto.

È difficile spiegare a parole quello che provo quando, anche oggi che siamo cresciute, ballo insieme a lei, è come se il mondo si fermasse e l’unica cosa importante sia divertirsi e metterci amore.

Ed è proprio da quei primi passi che la mia passione è cresciuta, e adesso non posso farne a meno. Quando danzo mi sento libera dai piccoli e grandi problemi della vita e non poterei essere più grata di così a Leti, che mi ha trasmesso questa passione, che è per me come l’acqua per ogni essere vivente, per una piantina nuova, appena spuntata: vita!

(Catalina)

Di fronte a casa mia c'é un cane bianco e marroncino con gli occhi di ghiaccio che a guardarli mettono paura e, a ogni persona che passa, é un continuo abbaiare.

Anch'io, come tutti i vicini, avevo paura di lui, anche se mi piaceva molto e avrei voluto accarezzarlo .

Un po' di tempo fa, mentre giocavo, la palla finì nel giardino del cane. Cosa fare per recuperarla?

Tornai a casa con la speranza che i proprietari me la riportassero, ma non fu così.

Avevo paura, ma tenevo molto alla mia palla e dovevo farmi coraggio per andarla a recuperare.

Con il cuore in gola suonai il campanello e quasi subito mi risposero chiedendomi chi fossi e cosa volessi. Dissi che avrei voluto entrare per recuperare la palla.

Volevo a tutti i costi riavere la mia adorata palla!

Mi aprirono il cancello e, piano piano, con le gambe che mi tremavano, entrai.

Sentii abbaiare da lontano e mi paralizzai perchè sapevo chi stava per arrivare.

Non sapevo cosa fare, se provare a raggiungere la palla o scappare.

Mi feci coraggio, andai a recuperarla, e mi trovai faccia a faccia con la bestia.

Decisi di calciare il pallone, sperando che lo seguisse dandomi il tempo per scappare.

Però successe qualcosa che non avevo previsto: lui la seguì eccitatissimo e me la portò indietro.

Io gliela rilanciai e così diventammo amici e ora, ogni volta che lo vedo al di là del cancello, ricordo che le paure vanno sempre affrontate e superate.

(Luca)

Preparatevi per la cavolata del secolo... lacca e fiammiferi.

Già, è proprio come pensi tu lettore, lo so che stai pensando: “Ma questo è scemo o solo pazzo?”. Ebbene, sono costituito da entrambe le cose: per il 10% sono pazzo, per il 10% scemo e il restante 80% è puro spirito piromane.

La prova è quello che mi è accaduto in un normalissimo weekend che avrei dovuto trascorrere a casa dei miei nonni a Selvazzano, più precisamente a Tencarola. La loro casa vanta uno splendore vintage sulle altre case vecchie e diroccate, ormai abbandonate a loro stesse.

Pensai che, come il solito, nessuno avrebbe controllato quello che stavo facendo.

Già da tempo mia nonna mi chiama "il ragazzo coi fulminanti”, ovvero il ragazzo dei fiammiferi, ma neanche lei pensava che mi sarei spinto così oltre.

La verità è che mi diletta vedere la fiamma di un fiammifero, di un accendino o di un focolare. La fiamma è così pura, così solenne da incutere timore in chi ha il senno.

Il piacere che provo quando perdo il mio sguardo in essa non è un mio vanto, bensì un fardello, una dipendenza che mi consuma da dentro. Sono schiavo delle fiamme a tal punto da esserne ipnotizzato anche solo guardandole.

Ma torniamo a noi. Ero lì davanti a quel fiammifero che avevo addagiato sul bordo del lavandino, ero pronto la bomboletta salda in mano… risuonarono tre tocchi di campana in quella notte fredda e cupa, dalla finestra potevo ammirare gli effetti del vento che impavido soffiava sulle spighe secche di grano. Quella era l’ora del giudizio, l’ora in cui un ragazzo sarebbe diventato un piromane.

Non sarebbe stata la mia prima volta, ma poteva essere l’ ultima.

Cinque,quattro,tre,due,uno e …

“Fermo, sei completamente diventato stupido?” urlò una voce nel corridoio oscuro e tenebroso.

Presi paura quando vidi arrivare … mia nonna! Già proprio lei, che era riuscita a scoprire il mio intento, accorgendosi della mancanza della lacca e dei fiammiferi.

“Nonna, cosa c’è?”, le chiesi.

“Fermati Edo, tu non sai quanto è pericoloso quello che stavi per fare!”.

“Si invece, lo so, ma io spruzzo la lacca e poi mi allontano quindi non è poi così pericoloso”.

“Tu pensi di essere abbastanza veloce, ma non lo sei: il ritorno di fiamma è molto più veloce di te!”

Dopo la strigliata che presi da mia nonna capii che non è sensato rischiare una lesione o ancor peggio con esperimenti avventati. Voglio solo dirvi che se intendete fare qualcosa di pericoloso è meglio che prendiate tutte le precauzioni possibili e immaginabili e siate ben consapevoli dei rischi: la vita è una e nessuno ve la ridarà, nonostante ciò dovete viverla come volete ma... SENZA RISCHI INUTILI, mi raccomando!

(Edoardo)

Oggi vi parleremo di una particolare specie vivente chiamata “Drogato Da Telefonino”, più comunemente detta “DDT”.

Il DDT è un animale goffo e strampalato ed è possibile osservarlo in varie sue manifestazioni e in vari luoghi.

Oggi in particolare vi spiegheremo il comportamento del DDT al supermercato, dove potrebbe capitarvi di imbattervi in questa specie ed essere costretti ad ascoltare conversazioni di questo tipo, seguite dal rumore del cadere di scatole di pisellini e vasetti di nutella.

“Ciao Mattia, come ti va la vita? Cosa?! Ti è morta la nonna? Sì sì, prendo pomodori e zucchine. No tranquillo ce l’avevo con il commesso. Poi che ti succede? Cosa?! Un terrorista dell’ISIS a preso tua figlia e le ha dato fuoco? No! Ho chiesto un etto di spianata calabra! Cosa?! Domani c'è il funerale di tua mamma? Signorina, qui accettate il bancomat? Giuro sul prosciutto crudo che ho appena comprato che ti sto ascoltando! Ci vediamo domani?Cosa?! Domani c'è il funerale del tuo gatto? Signorina, ha sbagliato a darmi il resto! Uffa, questo qui non ascolta mai nessuno, non so perché gli rispondo ancora al telefono che razza di maleducato!"

Tutta questa conversazione è interrotta frequentemente da continue cadute di barattoli di cetriolini. Ovviamente noi vi consigliamo di stare lontano da questa specie quando vi trovate nel suo stesso posto per non rischiare di essere travolto o, peggio ancora, contagiato dalla sua discutibile dipendenza.

(Marco)

N.D.P. (Nota Della Prof) Quella che segue è la prima parte del racconto "Prima o pOil" del nostro Daniele che, come un novello Dumas, ha ritenuto di dover suddividere la sua creazione in due capitoli, da pubblicarsi separatamente. Questa decisione balzana è ovviamente stata presa per rovinare le vacanze natalizie della povera De Martin, che scartando i regali sotto l'albero, mangiando il panettone e perfino cantando "Gingolbels, gingolbels, gingol oldeuei" non ha fatto altro che pensare con trepidazione all'incerta sorte di Benjicluff, di cui si è segretamente invaghita. Bada a te, Daniele: non deludere una donna innamorata!

Sottoufficiale Benjicluff, 18 Ottobre 4277. Coordinate presunte -78493 482032 4328, sulla base di riferimento del pianeta Sol.

"Visto che non esistono e probabilmente non esisteranno resoconti del nostro viaggio di esplorazione, ho deciso, anche su consiglio di Phil Buttercut, il capitano, di scrivere una sorta di diario di bordo, una scatola nera, anche se non sono più in produzione dal 3700.

Il viaggio iniziò quando il capo della polizia del nostro pianeta (C492, sistema Orione 10), Roodge, diede ordine a me e al mio amico Carl Leafter di cercare una nuova fonte di energia. In realtà il petrolio scomparve definitivamente nel 2500, e la Terra è l’unico pianeta fin ora scoperto ad avere la quantità giusta di pressione affinché si formi il petrolio; per quasi due millenni siamo andati aventi con fonti di energia rinnovabili, ma ora non basta più nemmeno questa per soddisfare duecentosettantaquattro galassie.

Recentemente, il più vecchio del consiglio degli anziani, Arold Walter, in punto di morte, ha fatto un sogno. Ha detto di aver visto un albero gigantesco, alto più di qualsiasi altra cosa mai costruita dall’uomo, con foglie grandi quanto un palazzo, e poi, all’improvviso, di aver notato un piccolo scoiattolo che gli si è avvicinato e ha detto:- Buongiorno, signor Walter. Quest’albero è la soluzione a tutti i suoi problemi. La sua linfa è la sostanza più potente mai esistita. Una sua sola goccia può dare energia a tutto il vostro mondo per due anni-.

Ovviamente vollero mandare qualcuno alla ricerca del fantomatico albero e scelsero me e Carl. Ci affidarono un’astronave e i primi due membri dell’equipaggio, il capitano Phil Buttercut, un po’ rude ma che sa il fatto suo, ed Eddy, il meccanico di bordo, con il suo team. Dei suoi compagni non mi fido molto, ma se lui mi dice che sono a posto io non ho nulla da obbiettare.

Siamo partiti circa sei mesi fa dal porto di Roc’Ooroc.

Circa due mesi fa ci siamo fermati a Minerhía per rifornimenti, uno scalo non molto sicuro, e abbiamo assunto due nuovi aiutanti: Joan, la centralinista, loquace e amante della cucina italiana, e Anne Audin, medico e biologa di bordo, molto concentrata sugli studi e un po’ introversa.

E poi c’è quel Gregor.

È successo tutto stamattina. Joan mi ha svegliato verso le sei dicendomi che avevano trovato un pianeta verde. Uno degli oblò della mia cabina è anche un telescopio e, osservandolo da là, notai che in realtà si trattava di un pianeta come gli altri, ma era interamente ricoperto da foreste, che gli davano questo colore.

Aumentai l’ingrandimento e cercai di vedere qualcosa oltre le fronde, anche se non era semplice, ma non vidi mai né animali né corsi d’acqua.

Scendemmo in esplorazione io, Phil e Carl con un minimo di marinai per le urgenze.

Joan ci teletrasportò sulla cima di un albero non molto alto e scoprimmo che i rami erano così grossi e intricati che ci si poteva camminare sopra senza problemi.

Trovammo un piccolo buco tra le fronde e cercammo di capire a che altezza fossimo. Almeno duecento metri, ci parve, ma come tutti sanno dall’alto le cose sembrano più corte e dal basso più lunghe. In seguito scoprimmo che l’altezza variava dai cinquecento metri ai quattro chilometri.

Cercammo di contattare Joan perché ci portasse più in basso, ma le comunicazioni non funzionavano.

Ci portammo verso il margine della chioma, sperando di poterci calare da là, ma le fronde erano troppo fitte.

Girovagammo per la foresta saltando di albero in albero, cercando un punto da cui scendere.

Dopo un po’ uno dei marinai urlò:- Capitano Buttercut, signor Benjicluff, ho trovato il punto perfetto-

In effetti aveva trovato un buon posto: un incavo tra i rami, che fungeva da scudo ad una zona riparata abbastanza ampia, con un angolo che dava nella radura sottostante che sembrava fatto apposta per metterci una scala.

Da lì avvistammo sotto di noi un singolare fagotto di stoffa penzolante, che assomigliava molto ad un kilt. Fagotto di stoffa che conteneva un ragazzo minuto, con un viso pallido e scavato. Indossava una di quelle tute da penitenziario arancione fosforescente.

Con un gancio lo tirammo su e lo sdraiammo sulle foglie.

La tuta aveva una targhetta con il suo nome: Gregor.

Nel mentre i contatti con la nave si erano ripristinati e Joan ci riportò sulla nave, decidendo di mantenere come base nel pianeta il rifugio naturale appena scoperto..."

(Continua)

(Daniele)

"Sull’attenti, il drago ha attaccato di nuovo!" Lord Saladin, turbato dall’avvenimento, continuava a gesticolare per fare schierare al meglio tutti gli arcieri. Uno dopo l’altro si disponevano sotto le possenti merlature e le massicce mura, tremanti per la paura.

Quel dannato Rathalos dei Fulmini attaccava incessantemente il villaggio da tre giorni. Per ora aveva ucciso solo qualche capo di bestiame, ma oggi era diverso, aveva un bersaglio: il palazzo reale. Gli arcieri continuavano a respingerlo, ma, chiaramente, stavano soltanto rinviando l’inevitabile: scagliavano le frecce sempre con meno convinzione per paura di essere il prossimo bersaglio. Poi il mostro colpì le mura abbattendone una parte e, ripetendo lo steso attacco, distrusse la torre della reggia, portando via una persona elegantemente agghindata…

"Non può essere mia figlia!" La mattina era cominciata nel trambusto: gli appelli per capire chi era deceduto rivelarono che era proprio la principessa a essere stata rapita. "Dovevate difendere la città!" continuò il re furioso. "Abbiamo fatto quello che potevamo…" si giustificò Lord Saladin.

Saladin era il capo della guardia e per questo aveva avuto il titolo di “Lord”; era rispettato da tutti, però era molto misterioso e solitario; infatti mentre a tutti piacevano le feste del regno lui preferiva rimanere da solo sul molo.

"Allora, visto che sei così bravo, sarai capace di ritrovare mia figlia." Disse il re lentamente, come se stesse parlando a un bambino. Saladin conosceva tali provocazioni e sapeva che doveva rispondere in qualche modo di sì. "Credo sia arduo, ma azzardabile" replicò, quindi, contrariato. "Allora azzarderai, perché se entro due settimane la principessa non sarà a casa tu perderai sia il posto che la testa!" urlò il re al limite tra la pazzia e l’isteria e se ne andò sbattendola porta.

I giorni seguenti per Saladin furono molto impegnativi: si fece forgiare una nuova armatura e due mazze, visto che le armi che usava erano insufficienti per uno scontro di tale difficoltà. L’armatura era fantastica: in ferro lucido e bronzo, le rifiniture in oro e pietra-drago; i colori grigio, blu dominavano in tutto il pettorale e i gambali, mentre sui bracciali, sugli stivali e sull’elmo spiccavano preziosi intarsi a forma di albero, il simbolo della città. Anche le mazze erano un vero capolavoro: di dimensioni contenute, di acciaio splendente e con incastonate sulla sommità punte di cristallo iridescenti.

Saladin aveva già un’idea di dove andare: la Foresta del Silenzio, perché gli anziani narravano di come in quelle aree avessero avvistato dei Rathalos volanti. Il problema era che quelle terre non erano mai state esplorate. Arrivare nei pressi della Foresta del Silenzio non fu molto difficile, grazie ai consigli degli anziani dei villaggi che attraversava; nonostante questo fu un viaggio molto lungo: dovette cavalcare attraverso boschi, guadare fiumi e scalare ripide montagne. Era ormai da più di un giorno che aveva oltrepassato l’ultimo villaggio conosciuto e aveva appena attraversato una enorme, silenziosa e stepposa pianura, che separava il mondo noto dall’ ignoto, quando intravvide una enorme foresta.

Man mano che si avvicinava poteva osservare i maestosi alberi che le conferivano un aspetto magico, irreale, stupendo, ma allo stesso tempo spaventoso, terribile, proibito. Finalmente era arrivato alla Foresta del Silenzio. Con grande soggezione vi si addentrò: gli alberi superavano i trenta metri, le piante erano di specie sconosciute, ricoperte di insetti e parassiti dai colori sgargianti e inimmaginabili; ovunque guardasse era una nuova emozione. Lo stupore, però, era spesso sostituito dal terrore di fare un passo falso o di perdere l’orientamento. L’esplorazione andò avanti fino ad una piccola radura. Legò il cavallo ad un tronco e, guardandosi attorno, il cuore gli balzò in gola: il terreno era disseminato da enormi impronte di forma inconfondibile. Era nel posto giusto.

Ma, all’improvviso, il silenzio fu interrotto da un rumore, un ruggito, dei passi, di nuovo un ruggito, ora più basso e rauco. Il terrore si impadronì totalmente di Saldin: stava tremando, non riusciva a muovere le braccia, il sangue gli si era ghiacciato nelle vene, sudava; sudava freddo. Non sapeva cosa si celava dietro di lui, ma dentro di sé ne era già sicuro; si girò lentamente.

Era faccia a faccia con il Rathalos. Due occhi scuri, opachi, profondi, freddi, due opali incastonati in un volto cristallino, lo osservavano. Dal tozzo corpo si dipartivano due grandi ali e, sulla schiena, vi erano grosse pietre trasparenti che sembravano racchiudere dei fulmini.

Saladin non sapeva che fare: dimostrarsi amichevole, attaccare, scappare o… cosa? Attaccare, questa fu l’idea che gli parve più sensata. Ma… aveva forse scelta? Non aveva tempo di pensare. Sguainò le mazze e si scagliò contro il drago.

Brutta scelta: il mostro era più pronto di lui; lo azzannò ai fianchi e lo scaraventò a terra. L’armatura resistette ottimamente, ma questo contrattacco gli fece subito capire una cosa: doveva giocare di furbizia. Corse verso la foresta, dove il mostro sarebbe stato intralciato dagli alberi. Il drago lo seguì, ma il fitto bosco gli fece perdere di vista la sua preda. Il Rathalos continuava a passo lento, poco convinto, e con la testa spostava brutalmente alberi abbattendoli come fossero fuscelli.

Il mostro era tesissimo; lanciava rapide occhiate qua e là, avanzando fino a che Saladin, che si era lanciato da sopra un albero, gli piombò sulla schiena, colpendolo con poderose mazzate. Dal canto suo il Rathalos cercava di disarcionare il nemico e, accennando tentativi di volo, sbatteva da un albero all’altro. Il duello continuò fino a che il drago si scaraventò nella radura sbalzando lontano Saladin nell’impatto. Una densa nube di fumo separava di due lottatori stremati.

"Fermi!" Una dolce voce riempì l’aria.

Entrambi cercarono con lo sguardo l’origine di quel suono e focalizzarono la principessa. A Saladin comparve un piccolo sorriso sotto l’elmo, il drago, invece, la osservò con sguardo ingenuo, come quello di un docile cane che osserva il padrone con obbedienza. La figlia del re si diresse verso il drago e gli sussurrò: "Tranquillo, è solo un umano, non è cattivo." Saladin sgranò gli occhi incredulo: "Come, tranquillo a lui?!". "E’ grazie a lui che sono scappata" disse la principessa, come fosse ovvio. "Ma io ti devo riportare a casa!". "No, ti prego, lì mi aspetta il matrimonio con Ghelon che mio padre ha voluto per creare un’alleanza; ma io non voglio vivere con quell’uomo!" Esclamò lei con ribrezzo.

Saladin si guardò attorno, c’erano almeno tre draghi ad osservarlo, come guardie del corpo: non aveva possibilità di riportarla al palazzo con la forza. Ma… se quella fosse stata un’opportunità per seguire Eris, che era dovuta partire con la sua famiglia per la lontana isola di Moga? Non poteva certo tornare al villaggio: senza la principessa era un uomo morto. Forse questa che gli veniva offerta era una seconda possibilità per realizzare il futuro che sognava ogni volta che si sedeva sul molo e, socchiudendo gli occhi, riusciva ancora a vedere il sorriso di Eris e a sentire la sua dolce voce che gli sussurrava innamorata:"Ti aspetto…".

(Matteo)

Chi non conosce Eminem non sa cos'è il rap. Io amo la musica. per me ascoltare musica non è semplicemente ascoltare delle canzoni, ma viaggiare in un mondo tutto mio, come quando si legge, ed è una cosa di cui non riesco a fare a meno. Per esempio, non riesco mai a stare fermo con le mani senza battere un ritmo, anche se so che certe volte posso dare fastidio, soprattutto quando mi parte un attacco di "ritmite" acuta.

Ascoltare musica per per me è una cosa di vitale importanza. Ascolto molti generi musicali, in particolare il rap, che è anche il mio genere preferito, sia in italiano che in inglese. I miei rapper preferiti sono l'italiano Gemitaiz, e naturalmente Eminem, un artista americano che per me è un esempio, perché lui aveva un sogno che ha realizzato lottando e senza arrendersi al primo ostacolo. A volte butto giù qualche rima e improvviso un po' di freestyle.

Ascolto anche anche il rock, che è un genere a cui mi dedico anche come musicista, con la mia Fender rosso fiammante. Suono la chitarra da quattro anni e naturalmente è il mio strumento preferito. Il gruppo rock che più mi piace sono gli AC/DC . Certe volte ascolto anche musica heavy metal, in particolare i Kiss.

Infine il blues, che è il genere che più mi piace suonare. Suono perché suonare è una cosa fantastica e rilassante. Suono anche perché mi piace vedere la felicità negli occhi dei miei genitori, e dei miei amici a cui faccio sentire quello che so fare, ma soprattutto suono perché dà soddisfazione a me, che mi appassiono imparando ogni nuovo pezzo. Inoltre per me la musica è una cosa fondamentale, perché quando sono triste mi tira su di morale. Infine la musica è come un sonnifero, infatti mi rilassa così tanto che posso addormentarmi con le cuffiette nelle orecchie senza problemi, anche se poi i miei genitori me le tolgono. Le cuffiette... il mio rifugio, la mia salvezza: mi isolano dagli altri e mi aiutano a concentrarmi senza dare fastidio a chi mi sta attorno. IO+MUSICA=WOW!

(Francesco M.)

Solita vacanza natalizia di quattro anni fa, solita località sciistica: Asiago.

Solita giornata tranquilla a sciare sulla neve? NO!

Quel giorno le piste mi scorrevano sotto gli sci con lentezza e tranquillità. Però volevo fare di più: andare più veloce. Non che si trattasse di una prova così eroica, però, per chi ha le mie capacità sciistiche, si può tranquillamente definire impossibile.

Allora presi una decisione importante: percorrere la pista più “facile” tutta ad “ovetto”. Inutile stare a spiegare quanto fossi gasato a tentare un numero “pericoloso” senza il permesso dei miei genitori… ottima idea, Matteo!

Dopo la partenza piena di convinzione, gioia e sicurezza di poter conquistare il mondo, o meglio, la pista, arrivò il panico: gli occhialoni mi erano così stretti da farmi uscire gli occhi dalle orbite, lottavo contro il terrore per riavere il controllo dei miei piedi; ma, appena iniziai a prendere confidenza con le mie estremità impegnate da scarponi e attacchi, dovetti cercare di schivare i bambini sparsi sulla pista come birilli (ovviamente non dovevo fare strike), riuscendo addirittura a non investire nessuno.

In questo momento starai pensando: “Non potevi sterzare e rallentare?”. Ottimo suggerimento, peccato che quando me ne accorsi ero già così veloce da non toccare più terra… Dovetti comunque provare a rallentare, persi l’equilibrio, caddi e cominciai a rotolare. Gli sci si staccarono, uno cadde alla mia destra e l’altro sul ginocchio, tranciando tutto, ma proprio tutto, compresa la carne, fino a rimbalzare sull’osso.

Immaginando la scena penserai: “Che male avrai sentito, poverino!”. In verità non ero per niente cosciente di quello che mi era successo e, probabilmente, il freddo della neve mi aveva un po’ anestetizzato. Sapevo soltanto due cose: che avevo male e che, con mio sommo imbarazzo, tutti mi stavano guardando.

Mentre aspettavo soccorsi il sangue usciva a fiumi dalla ferita, macchiando la candida neve.

Dopo quella che mi è sembrata un’eternità è arrivata una motoslitta con la barella. Ma la mia disavventura non poteva terminare qui: mi hanno legato col viso rivolto verso il tubo di scarico, tanto che durante il tragitto stavo per morire, non dissanguato, bensì per soffocamento da monossido di carbonio.

Dopo questo traumatico spostamento, fu incredibile la mia gioia nel vedere l’ospedale, luogo solitamente associato a disperazione e dolore!

Fu solo quando ero già là da un po’ che iniziai a prendere coscienza di quello che mi era successo. Mi ricordo anche quanto i medici mi avessero trasmesso ansia e paura mentre mi stavano portando in sala operatoria. Poi ricordo come il dottore, prima di fare l’anestesia, avesse cercato di mettermi a mio agio; cosa difficile se non impossibile, soprattutto considerando il fatto che avere diverse luci accecanti puntate e delle persone estranee attorno non è una delle situazioni più “normali” che ti possano capitare!

E’ stato anche particolarmente “piacevole”, per me che avevo solo otto anni, la minaccia del medico, ad un mio flebile lamento, di far tornare mio padre in sala d’attesa.

Tutto sommato la “cucitura” della mia ferita andò ottimamente, perché subito dopo l’anestesia, momento dolorosissimo, non sentii più niente.

Quando tornai a scuola, mi piacque tantissimo vedere lo stupore negli occhi di miei compagni e rispondere alle loro domande come un eroe di guerra che aveva rischiato la vita per la Patria. Al contrario, avevo avuto soltanto un’idea abbastanza ribelle e decisamente stupida, mettendo non solo a repentaglio la mia vita, ma anche quella di altri bambini.

Cos’ho imparato? Beh, aspetta un attimo… ah giusto: la prossima volta mi farò legare dal lato giusto della motoslitta... cos’altro se no?

(Matteo)

Quando avevo sette anni desideravo tanto un compagno di gioco che avrei potuto coccolare e con cui avrei anche potuto litigare, qualche volta. Volevo un piccolo batuffolo di pelo che mi sapesse ascoltare e magari anche disturbare. In parole povere, sognavo un gatto molto “coccoloso”.

Già da qualche mese continuavo a chiedere a mia madre un piccolo animaletto per giocarci insieme. Finalmente quel giorno era arrivato e io, ansiosa, aspettavo il nuovo ospite. Il silenzio della casa venne interrotto dal suono del campanello: era mia madre con un pacco molto speciale per me. Posò dolcemente il peso sul tappeto del soggiorno cercando di non urtare il divano. Sembrava che si muovesse tutto a rallentatore, come in uno di quei film d'avventura. E fu così che presi per la prima volta tra le braccia una piccola e morbidissima palla multicolore di una bellezza indescrivibile, ai miei occhi addirittura soprannaturale.

Aveva quattro zampette quasi senza artigli, un nasino a cuoricino e due occhi verdi come smeraldi. Assomigliava ad un tigrotto, non solo per l'aspetto ma anche perché, dopo averlo messo giù, si è subito intrufolato sotto alla scrivania, facendo da guardia a quel poco di polvere che c'era.

Appena saliti i gradini delle scale e arrivati al secondo piano, lui vide una potenziale e gustosa preda dimenarsi in una piccola gabbietta: era il mio canarino verde, giallo e blu. Il cacciatore in erba corse, fece un balzo, ma...si trovò spiaccicato sul pavimento, mancando di pelo la fortezza del suo prelibato antipasto.

“Aspetta un attimo” pensai “a questo punto servirà un nome per questo terribile predatore!" Non riuscivo a decidermi, ma un giorno, mentre stavo sfogliando una rivista nell'ultima pagina vidi foto di gatti e cani e questo mi fece ricordare che era giuntaa l'ora di battezzare il mio micino. Perciò lessi i nomi delle didascalie, ma nessuno gli stava davvero bene, a parte “Lulù”, il nome di un gatto tale e quale al mio che mi guardava dalla pagina della rivista. Quindi, se quel gatto si chiamava cosi', allora anche il mio si sarebbe chiamato Lulù.

La cosa buffa è che solo dopo due anni scoprii che Lulù è un nome da femmina, mentre il mio tigrotto è uno splendido micio!

(Nicol)

Quanti libri avete letto quest’estate? Beh, io più di venti, leggere è la mia grande passione, ma non ho sempre avuto questa sete di lettura…

Una volta pensavo di dover terminare un libro al giorno perché altrimenti credevo di non riuscire a ricordarmi la trama il giorno dopo.

Ad oggi però la situazione è cambiata, non passa giorno in cui non legga: è il mio passatempo preferito… l’ho già detto?

Io leggo alla prima occasione che mi si presenta: per esempio al ritorno da Roma ero in treno e siccome mi ero dimenticato a casa il libro mi sono immerso in una guida turistica della città che avevo appena visitato ; oppure quella volta in cui stavo scendendo in Calabria con mia zia, sempre in treno, e avevo a portata di mano solamente i tre libri più piccoli che avevo portato, mi sono facilmente immerso anche in quelli e sei ore dopo quando arrivammo a Catanzaro Lido, la nostra meta, li avevo già finiti tutti da un pezzo.

Come lettore sperimento molto e quasi sempre mi immedesimo nel personaggio, infatti ho letto di tutto, dal giallo ai fantasy, dai racconti storici ai libri sulla matematica, dai racconti d’avventura a quelli comici oppure a quelli fantascientifici.

I miei generi preferiti sono il fantasy, il giallo e i racconti avventurosi. Trovo che alla fine dei conti questi generi non sono poi tanto diversi: in tutti e tre bisogna usare l’intelletto e la fantasia per scoprire chi o che cosa si nasconde rispettivamente dietro le vesti del mago malvagio, dell’assassino o dentro il bosco; è proprio per questo che sono emozionanti ed avvincenti. Usando l’intelletto e la fantasia si possono creare immagini nella mente che poi possono venire smentite o confermate nella pagina dopo.

Il mio protagonista ideale dovrebbe essere un ragazzo coraggioso, combinaguai, sprezzante del pericolo, spericolato ed agile ma con un compagno di avventure che per carattere e statura sia al suo opposto, ovvero: goffo, prudente, aracnofobico, claustrofobico, fifone e cervellone; solo così saprà tenere a bada il protagonista e tenerlo in vita fino alla fine del racconto. Così, solo alla fine del libro, il protagonista si renderà conto di quanto sia stato fortunato ad incontrare il suo amico e vedrà confermato il proverbio “chi trova un amico trova un tesoro”.

Io amo la lettura non solo perché è un passatempo, ma anche perché in un momento difficile puoi rifugiarti in un luogo che a volte è reale e a volte surreale e farlo tuo: il libro!

E poi dentro al libro non si è mai soli, c’è sempre qualcuno che ti coinvolge nelle sue avventure: il personaggio.

(Pietro)

Arrivammo in spiaggia. Era una calda mattina d’estate, con il sole appena sorto e la salsedine nell'aria. Un silenzio assoluto, rotto soltanto dal frenetico rumore del battito delle ali dei gabbiani. Era molto presto e la spiaggia era deserta.

Avevo circa quattro anni quando entrai per la “prima” volta in acqua. In realtà la mia prima volta al mare fu a qualche mese, ma ovviamente non me la ricordo.

Però ricordo bene questa volta, la seconda: ce l’ho impressa nella mente e nel cuore. Ero con i miei genitori e con una mia amichetta dell’epoca, Martina. Incominciammo a giocare con la sabbia e a fare castelli, noi volevamo entrare in acqua, ma secondo i miei genitori non era ancora l’ora adatta.

Provavo mille sensazioni, ero in ansia, non vedevo l’ora di entrare, ma allo stesso tempo ero entusiasta ed emozionata. Ogni tanto andavamo a riempire il secchiello con l’acqua.

Odiavo, anzi odio, le alghe, perciò ogni volta che entravo in acqua facevo finta che le alghe fossero squali affamati. Il metodo degli squali funziona tuttora, e sto alla larga da quegli affari mollicci.

Io e Martina avevamo indossato i salvagente e lei anche i braccioli, perché aveva paura di affogare. Era arrivato il momento tanto aspettato, il momento di tuffarci in mare! L’acqua mi arrivava alle ginocchia e faceva molto caldo. Abbiamo giocato con la palla, ci siamo schizzate, fatto piccole immersioni e tuffi. Questo è un particolare che non mi ricordavo, ma mia mamma me l’ha sempre raccontato.

Dopo aver finito di giocare, dovevamo uscire e andare a casa, ma io non ne volevo proprio sapere. L’unica cosa che mi convinse a farlo fu il ricordo del mio orsacchiotto, rimasto solo soletto sulla sdraio.

Sono passati otto anni da quei primi bagni; ma anche ora non posso fare a meno di accorrere al richiamo del mare, alla sensazione della sabbia tra le dita, al riflesso del sole sulle onde.

(Catalina)

La musica era appena iniziata, io ero lì che cercavo di continuare a contare, ma dopo pochi secondi persi il conto e, mi limitai solo a... danzare.

Io e mia sorella sin da piccole andavamo pazze per il ballo, ed era da tanto tempo che volevamo iniziare un corso di danza. Mi ricordo che quando non avevamo niente da fare e avevamo del tempo libero andavamo in una stanza in cui non c'era nessuno e dove c'era uno specchio, prendevamo un telefono, mettevamo su un po' di musica e facevamo finta di essere delle ballerine di danza classica famosissime e professioniste, oppure inventavamo coreografie. Una volta abbiamo persino organizzato uno spettacolo da far vedere ai nostri genitori che durava ben due ore, non è riuscito tanto bene, ma la cosa che mi è piaciuta di più è che ci avevamo messo tutto il cuore per organizzarlo.

E finalmente, dopo tanto tempo, il 20 Settembre 2014, i nostri genitori hanno deciso di iscriverci a una scuola di ballo, ovvero Padova Danza.

Il primo giorno è stato un po' difficile, ma vedere le mie compagne che ballavano benissimo mi ha aiutato. Quel giorno provai Danza Moderna e due giorni provai anche Hip Hop. Ed è così che, lezione dopo lezione, giorno dopo giorno, un anno di corso finì, Giugno arrivò e arrivò anche il momento di far vedere a quasi mille persone cosa avevo imparato in un anno, cosa amo fare con tutta me stessa.

Mio padre accompagnò mia sorella e me fino al Teatro Geox, dove ci siamo preparate, e tutti noi del corso eravamo circondati da una magia, una magia indescrivibile, che ci ricordava tutti i momementi passati insieme, tutte le volte che abbiamo sbagliato ma ci siamo aiutati a vicenda, sempre con il sorriso.

Io stavo tremando, avevo paura di cadere, di inciampare... ma quando entrai in scena, iniziò la musica e si accesero le luci, mi dimenticai tutti i miei problemi e le mie paure e mi preoccupai solo di sorridere e di divertirmi. In quel momento capii che il palco era il mio posto e che avrei voluto ballare per tutta la mia vita; perché è una cosa straordinaria mettere un qualsiasi tipo di musica, triste o allegra... e lasciarsi trasportare.

E capii anche che sentire e vedere tutte le persone che mi applaudono e mi apprezzano per il mio talento mi fanno felice.

E spero che tutte qusete emozioni contrastanti; sensazioni di gioia e paura, paura di dimenticare o sbagliare una parte e gioia di sentirsi importante alle fine del pezzo, le vivrò ancora per moltissimo tempo.

(Sabina)

Lo avreste mai detto che dalla sete di vendetta avrebbe potuto nascere una grande passione? Io no, me è proprio quello che mi è successo.

Un sabato della fine della quarta elementare ero stata invitata alla festa di compleanno di un mio compagno, era stata organizzata al palaghiaccio, perché Filippo, il mio compagno, faceva hockey. Giovanni, il suo migliore amico, continuava a farmi dispetti, io volevo rincorrerlo e farlo cadere ma non sapevo come fare, perché non sapevo pattinare, sui pattini avevo un’andatura a soldatino e me ne stavo aggrappata alla balaustra per paura di cadere.

Ad ottobre decisi di iniziare i corsi di base per imparare, così alla festa successiva mi sarei vendicata. L’ultima cosa che mi sarei aspettata è che mi sarei appassionata tantissimo: chiesi a mia mamma di portarmi ad allenarmi non una ma due volte a settimana, lei acconsentì e così imparai qualcosa in più.

L’idea della vendetta mi aveva abbandonato da tempo, nemmeno mi ricordavo di Giovanni e i suoi scherzi idioti: con i pattini ai piedi volavo più in alto di queste sciocchezze infantili, volevo solo migliorare.

Mentre preparavamo il saggio di fine anno, l’allenatrice Anna, che era la responsabile del preagonismo, faceva delle selezioni per far passare con lei le ragazze più meritevoli. Era arrivato il mio turno: mi sentivo eccitata, mi tremavano le gambe, ero diventata tutta rossa, avevo paura, mi sentivo impotente. Quando finì l’allenamento, Anna chiamò le ragazze che avevano superato la selezione; l’elenco si allungava e ormai mi ero arresa, ma verso la fine ho sentito esclamare: “A.G.!”.

Ero contentissima, però non sapevo se andare avanti con lei, per diventare più brava, o rimanere con le mie amiche. Decisi di andare avanti, mi sentivo in colpa per Alice ed Emma, ma sapevo bene che se volevo diventare brava dovevo continuare!

Dopo lo spettacolo feci qualche lezione con Anna, ma non mi seguiva mai, era attenta solo alle allieve che aveva da più tempo.

Un giorno Anna ci presentò altre due allenatrici: una si chiamava Ludmilla, era vestita tutta di nero, urlava, aveva una faccia seria che metteva paura, ma ci guardava una ad una; l’altra si chiamava Marina, era più giovane, ma dolce e capace. Quando le ho viste ho capito che avrei voluto essere allenata da loro. Ne parlai con i miei genitori e mia mamma è riuscita ad inscrivermi nel loro gruppo, sempre al preagonismo. Io pensavo che mi sarei allenata con tutte e due, invece mi ritrovai nel gruppo di Marina, che insegna sincronizzato.

Pesto sentii il bisogno di allenarmi di più e nuovamente mia mamma parlò con Ludmilla, lei disse che io avrei potuto allenarmi con il gruppo di agonismo, con lei: ero felicissima! Marina era d’accordo, diceva che con loro avrei spinto di più che con il sincro. Dopo alcune lezioni con il gruppo di agonismo, Ludmilla mi chiese se volevo allenarmi sempre con lei, avvisandomi che sarebbe stato molto faticoso.

Ci fu un grande cambiamento nella mia vita: non più tre volte, ma cinque, durante la ginnastica non potevo più andare a bere o riposarmi un attimo, ma dovevo lavorare senza sosta. All'inizio facevo meno, mi riposavo un po’ tra un esercizio e l’altro. Su indicazione di Ludmilla. Il primo giorno di vera ginnastica, provai a fare tutto senza sosta ma finì male, perché rimasi letteralmente senza fiato! Dopo un mese di prova, che superai benissimo, decisi di continuare senza più riposarmi.

Un altro grande sacrificio per me riguarda la scuola: ora devo fare i compiti nelle piccole pause o la sera, quando torno dall'allenamento. Tutto questo sacrificio mi sta aiutando ad affrontare in modo diverso molte cose: sono migliorata a scuola, sto imparando molto più in fretta che quando praticavo il sincro, sono più organizzata e credo di più in me stessa. Questo non vuol dire che io non abbia dei cedimenti, ma credo di saperli affrontare meglio di prima.

Riguardo ancora ai sacrifici, non sono l’unica a farli: anche i miei famigliari hanno dovuto cambiare tutte le abitudini a seconda dei miei orari di allenamento, i miei genitori mi portano dal palaghiaccio alla palestra, i miei fratelli mi aiutano con i compiti.

E pensare che tutta questa passione e collaborazione sono nati da un desiderio di vendetta!

(Greta)