Aspromonte: sangue e veleni
Lo scioglimento dell’Esercito Meridionale, forte di cinquantun mila uomini (di cui oltre trentamila meridionali) che vennero rapidamente liquidati già nel novembre del 1860, non rappresentò un puro e semplice atto di ingratitudine o di irriconoscenza da parte della classe politica e militare piemontese. Come rileva Alfonso Scirocco “il problema, in realtà, è politico. Non si vuole lasciare un corpo armato a disposizione di Garibaldi, che è deciso a riprendere l’iniziativa rivoluzionaria nella primavera del 1861”.[1] Subito dopo la partenza di Garibaldi da Napoli il nuovo governo ha costituito i volontari in corpo separato, ne ha favorito la liquidazione offrendo una gratifica ai dimissionari e ha sottoposto a un umiliante scrutinio coloro che hanno fatto domanda di rimanere. Non si vuole inquinare il nuovo esercito con componenti senza una preparazione militare d’accademia, che spesso hanno raggiunto alti gradi meritati unicamente per il loro valore sul campo. Ma soprattutto i volontari rappresentano la componente militare democratica del Risorgimento, e la nuova Italia sabauda non può immettere nel proprio esercito una massa di potenziali repubblicani, sostenitori convinti della conquista di Roma, e in qualche caso addirittura di idee socialiste. Con lo scioglimento dell’esercito meridionale tramontava l’ultimo tentativo del partito democratico affinché si impiegassero le forze popolari nella liberazione della patria. Anche se, come si vedrà, il volontariato non avrebbe cessato di esistere come dimostreranno i tentativi di impadronirsi di Roma (soffocati nel sangue dalla nuova classe politica) di Aspromonte nel 1862 e di Mentana nel 1867.
Il 18 aprile, alla Camera di Torino, Garibaldi sostenne un violento scontro verbale con Cavour su questo argomento: il Generale criticò aspramente l’operato del governo attribuendo la grave situazione del Mezzogiorno (dove si stava sviluppando su larga scala il fenomeno del brigantaggio) allo scioglimento dell’esercito meridionale, e concluse il suo intervento chiedendo che esso fosse ricostituito “come principio dell’indispensabile armamento, come atto di giustizia e di sicurezza”.
La discussione parlamentare proseguì anche nei giorni 19 e 20 aprile, e riguardò soprattutto il problema di quegli ufficiali garibaldini che non si erano dimessi, ma che neppure volevano una commissione nell’esercito regolare. Che farne? Bettino Ricasoli presentò una mozione che prevedeva la ricostituzione di un corpo speciale garibaldino separato dall’esercito; la mozione fu approvata dalla Camera (194 voti favorevoli e 79 contrari) ma restò lettera morta: il 27 gennaio 1862 furono definitivamente sciolti gli ultimi avanzi dell’esercito meridionale.
Nei frenetici mesi che precedettero la burrascosa seduta parlamentare del 18 aprile, Ripari è a Torino ( o vi si reca spesso da Genova, dove risiede) in qualità di osservatore per seguire gli sviluppi della sorte dei volontari. La presenza del medico nella capitale sabauda, ormai divenuta prima capitale del nuovo Regno d’Italia, è documentata da due sue lettere inedite spedite a Garibaldi, da noi rintracciate nel Fondo Curatolo all’Archivio del Museo del Risorgimento di Milano. In queste lettere il dottor Ripari non fa mistero delle intenzioni che animano le persone che furono più vicine al Generale durante la campagna di Sicilia: il 25 febbraio 1861, da Torino, scrive:
[…] Tutti i di Lei amici sperano essere con Lei di nuovo e presto sui campi di battaglia. Questa vita inattiva è già incresciuta a tutti. […] Nella speranza di vederla quanto prima a menare ancora le mani, la prego ad avermi per sempre di Lei sincero e reverente amico
Dr. Pietro Ripari[2]
E ancora, sempre da Torino il 22 marzo 1861, raccomandando a Garibaldi un capitano al fine fargli ottenere una pensione:
De Maestri a Lei ben noto, mancante del braccio destro, trova che gli converrebbe ottenere la pensione di Capitano quale è. Egli si trova a Vercelli e mi disse di pregarla di una sua riga ad ottenere la pensione desiderata, ciò che faccio con questa, e più brevemente che posso per non tediarla. Qui non si sa ancora nulla a nostro riguardo. I di Lei amici stanno attendendo i di Lei ordini, e facendo voti che ella esca dall’isola per condurli a nuova gloria.
Ma neppure i medici del disciolto esercito meridionale avevano ricevuto un trattamento migliore. Un decreto del governo piemontese del 1850 stabiliva che i medici militari dell’esercito sabaudo fossero laureati sia in medicina che in chirurgia, e fin qui nulla di strano; lo stesso decreto concedeva il termine di un anno per conseguire la laurea mancante a chi non fosse in possesso di ambedue. Il medico che nel termine stabilito non avesse potuto documentare il conseguimento della seconda laurea richiesta, non poteva aspirare ad avanzamenti di grado, pur mantenendo l’impiego nell’esercito. Questo decreto fu applicato tal quale agli ufficiali medici provenienti dall’ex esercito borbonico e dai disciolti eserciti del Granducato di Toscana e dei Ducati emiliani, senza altre formalità, mentre un trattamento ben diverso fu riservato ai medici militari garibaldini: un reale decreto del maggio 1861 stabiliva che gli ufficiali medici che avevano fatto domanda di entrare in servizio nel nuovo esercito italiano, dovevano dimostrare di possedere ambedue le lauree o di conseguire la laurea mancante entro il 30 giugno dello stesso anno, cioè nel termine di neppure due mesi: praticamente impossibile. Non solo: chi non avesse potuto dimostrare il possesso della seconda laurea entro il termine stabilito non sarebbe potuto entrare nei ranghi del nuovo esercito, mentre chi già era laureato sia in medicina che in chirurgia (ed era il caso del nostro Ripari) avrebbe dovuto sostenere un esame di idoneità davanti a una Commissione governativa e conseguire almeno i quattro quinti della votazione massima in ogni materia d’esame. Questa norma, che oggi verrebbe riconosciuta da tutti palesemente anticostituzionale, venne contestata dal dottor Giuseppe Collotti e da altri cinque ufficiali sanitari garibaldini, che il 10 gennaio 1862 presentarono al Parlamento di Torino una petizione (registrata come n° 7771) perché fossero anche a loro “applicate le disposizioni emanate coi decreti 18/1/1860 e 28/7/1861 a favore dei Sanitari della Toscana e dell’Emilia”[3].
La petizione fu discussa nella tornata del 19 febbraio 1862, nella quale diversi deputati democratici (Bruno, La Farina, Bixio, Gallozzi) si espressero a favore della parificazione degli ex sanitari del disciolto esercito meridionale ai colleghi degli altri eserciti preunitari, contestando fortemente le argomentazioni del Ministro della Guerra, Della Rovere. Nella discussione emerse che, dei circa 210 medici che avevano prestato servizio nell’esercito meridionale, 71 furono dalla commissione dichiarati non idonei perché mancanti dei titoli o per altri motivi, 13 si presentarono all’esame di concorso, mentre 98, pur avendo i requisiti richiesti, si rifiutarono di sottoporsi alla valutazione: tra questi il dottor Ripari, che definirà il provvedimento “la buesca legge degli esami […] a tutto rigore applicata ai chirurghi, i quali recavano fatti scrutati scrupolosamente e lodati, per la quale dieci milioni d’Italiani avevano steso fraternamente la mano ai Piemontesi”:[4]
La scelta di Ripari (e quella di numerosi sui colleghi) di non partecipare al concorso fu sostenuta e accesamente difesa da Bixio nel suo intervento in Aula: “ Il signor Ministro ha detto: sono pochi quelli che si presentarono al concorso. Ma io osservo al signor Ministro che quando egli voglia prendere informazioni precise (e qui vi sono alcuni che possono dargliele), vedrà che ciò avvenne perché i migliori hanno considerato come un’offesa al loro amor proprio il vedersi sottoposti a un concorso. E questa è una suscettibilità che io comprendo e che tutti gli uomini sentono. E vuole che gli citi un nome? Dirò che il nostro medico-capo, il dottore Ripari, che era con noi a Roma e in tutte le campagne che bene o male abbiamo fatte (mi rincresce che qui ci entra anche il mio nome) è stato messo in galera per avermi curato a Roma, e tutte le raccomandazioni non hanno potuto far sì che egli potesse sortire; vi è restato sette o otto anni. Venne poi con noi nelle campagne del 1859, fu nostro medico nei Cacciatori delle Alpi; ci seguì nel 1860 in Sicilia. Egli non sarà un Tommasini, un Rasori, ma è un uomo rispettabilissimo che ha fatto il suo dovere; egli è vecchio, ha quasi 70 anni[5]. E voi, dopo ch’egli ha preso parte a tutte queste campagne, dopo il carcere sofferto, voi lo volete sottoporre all’esame di concorso come il primo che si presenti? Il signor Ministro comprenderà che in ciò ci è qualche cosa di umiliante. Egli quindi se ne è andato, vive a Milano in condizione non misera, perché un uomo come lui non è mai misero, ma non ha niente di troppo: e noi che l’abbiamo sempre visto con noi, sempre pronto a darci quel poco che poteva raccogliere da tutte le parti, lo vediamo adesso in condizione infelice, e questo perché è in vigore un decreto che prescrive che i medici subiscano il concorso. Ma mio Dio! ci è un ben altro concorso: il ministro lo sa benissimo, ci è il concorso di molti servizi prestati in momenti difficili. Ebbene molti altri si trovano nella condizione in cui si trova il dottor Ripari”.[6]
Secondo il deputato Bixio, il Ministro avrebbe dovuto accettare tutti i medici dopo aver accertato il possesso da parte loro della doppia laurea, senza alcuna formalità concorsuale, “anche quando si credesse che fossero in numero maggiore del necessario, ma in guerra non sono mai troppi i medici”, e dopo aver controllato “che avessero esercitato l’arte loro in modo palese e servito utilmente in campagna”, così come era usanza in Inghilterra.
Ma Della Rovere, ministro della Guerra, fu inflessibile: “Il deputato Bixio – replicò – ha citato il fatto del dottore Ripari, ch’io stimo molto. Ma io faccio avvertire cha a tale proposito, quando si debbono prendere disposizioni generali, non si può, né in senso sfavorevole, né favorevole, discendere a persone particolari. Se il dottor Ripari fosse stato solo nella sua categoria, certo si sarebbe ammesso senz’altro; ma, ove questo si fosse fatto, sarebbe stato d’uopo accettare quello che veniva dopo, poi l’altro, poi l’altro, e non v’era più ragione di fermarsi in questa via”[7]. Venne così preclusa a molti medici che avevano prestato servizio tra i volontari garibaldini la possibilità di entrare nel nuovo esercito italiano: ma altri drammatici avvenimenti si preparavano a fare il loro ingresso sulla scena politica.
Il 18 febbraio 1861 si era riunito a Torino il primo Parlamento Italiano: ne facevano parte 214 senatori e 443 deputati, rappresentanti tutte le regioni d’Italia tranne quelle ancora soggette all’Austria e al Papa.
A queste regioni non ancora rappresentate in Parlamento si rivolgevano gli animi e i voti di tutti, e ne fu significativa manifestazione il voto del 27 marzo 1861 che proclamava Roma necessaria capitale d’Italia mentre il Partito d’Azione, impersonato da Garibaldi, si dava da fare per preparare nuovi movimenti nel Veneto e negli Stati della Chiesa. Così, nel momento stesso della proclamazione del nuovo Regno, la questione veneta e la questione romana si imponevano alla coscienza nazionale. Cavour stava volgendo i suoi sforzi al tentativo di risolvere la questione romana attraverso un accordo con Pio IX: in un discorso pronunciato alla Camera il 25 marzo 1860 aveva enunciato la sua teoria della “libera chiesa in libero Stato”, offrendo al Papa la libertà piena ed assoluta in campo spirituale in cambio della rinuncia al potere temporale. Ma il certosino lavoro diplomatico del machiavellico Conte non era destinato ad essere terminato: il 6 giugno 1861 a soli 51 anni Cavour moriva improvvisamente, probabilmente per un attacco di malaria, e il significato politico cha la sua scomparsa venne ad assumere (inteso come sbilanciamento politico a tutto favore della Francia) fu immediatamente colto da Ripari, che in una lettera datata 23 giugno 1861 e indirizzata a Garibaldi così scriveva:
Colla morte di Cavour, è pure morto il Piemonte per le future pratiche tra il Napoleonide e il nuovo Re d’Italia, si andrà facendo sempre più certa la fatale nequizia del colloquio di Plombières. Si mena gran vanto pel riconoscimento del Regno d’Italia dalla Francia, che sarà invece il più grosso papavero per gli Italiani. […] E noi dobbiamo per comando di Francia starcene qui con le mani in mano. Unica speranza per chi pensa seriamente alle cose nostre è Garibaldi, in Garibaldi è la fede del popolo. A Venezia hanno pianto e piangono ancora la morte di Cavour ma stanno fidenti in Garibaldi e la loro fede ha la forza e il convincimento di una religione. Che farà il Paese, che farà il Re? Vuolsi che patti segreti leghino il riconoscimento del Regno d’Italia a garanzia che nessuna forza di volontari assalterà Roma. Perciò dico che questo riconoscimento sarà il più gran papavero per gli Italiani.[8]
La politica di Cavour fu continuata dal suo successore, Bettino Ricasoli, ma l’intransigenza del Vaticano nel quale ancora dominava il Cardinale Antonelli fece arenare ogni tentativo. Caduto il gabinetto Ricasoli e subentrato nel marzo del 1862 Urbano Rattazzi, noto per le sue simpatie nei confronti dei democratici, si concretizzarono da parte del partito d’azione nuovi piani di lotta: nella primavera del 1862 Garibaldi compie tra entusiastiche acclamazioni un lungo giro in Lombardia per sostenere l’istituzione di un tiro a segno nazionale in ogni provincia. L’iniziativa si inserisce nell’ottica della costituzione di un esercito permanente su base popolare e nazionale così da rendere possibile, grazie ad un capillare e diffuso addestramento all’uso delle armi, una mobilitazione immediata in caso di guerra. Facendo affidamento, come nel 1860, sull’appoggio del Re, Garibaldi tenta in maggio un attacco in Trentino con alcune bande di volontari concentrate in provincia di Brescia, ai confini austriaci; Rattazzi, che in un primo tempo aveva fornito incoraggiamenti e appoggi, vedendo la situazione sfuggirgli di mano ordina di bloccare i volontari radunati a Sarnico.
Ma Garibaldi non demorde: vuole porre il Governo di fronte al fatto compiuto, come già era avvenuto nel maggio del 1860. Nel giugno del ’62 è a Caprera, dove convoca alcuni fidati compagni tra cui il dottor Ripari; il medico lascia Genova e raggiunge immediatamente l’isola dove si riunisce a un gruppo di fedelissimi tra i quali Missori e Guerzoni. A Caprera rimangono lo stretto necessario per preparare un po’ di bagaglio, poi il gruppo si imbarca per Palermo. Scrive Giuseppe Guerzoni: “Nessuno, di quanti invitati da lui [Garibaldi], lo accompagnarono a Palermo, seppe mai dal suo labbro né dove s’andasse, né perché s’andasse, tranne il vecchio Ripari che non lo abbandonava mai”. E a un amico genovese, quasi in codice, il medico comunicava: “L’aquila vola verso il sud”.
Lo sparuto gruppetto di garibaldini raggiunge Palermo dove, il 3 luglio, il Generale con l’autorità derivantegli dal suo grado di Gran Maestro della Massoneria propone l’affiliazione regolare alla loggia di rito scozzese “I Rigeneratori del 12 gennaro 1840 al 1860 Garibaldini” (della quale è Gran Maestro Venerabile Emanuele Sartorio) di tutto il suo Stato Maggiore: Pietro Ripari, Giacinto Bruzzesi, Francesco Nullo, Enrico Guastalla, Giuseppe Guerzoni, Giovanni Chiassi, Giovanni Basso, Giuseppe Nuvolari, Gustavo Frigyesi e altri ufficiali. “A tal fine – aggiunge Garibaldi – e con gli alti poteri a me conferiti gli dispenso dalle solite formalità”.[9] L’appartenenza alla Massoneria era infatti giudicata un utile strumento organizzativo, oltre che un efficace canale di raccordo delle varie correnti democratiche. E proprio da Palermo inizia una sorta di pellegrinaggio attraverso i “luoghi santi” del ’60: Alcamo, Calatafimi, Corleone. A Marsala, che due anni prima l’aveva visto sbarcare, il 20 luglio Garibaldi fa suo il grido che un anonimo aveva lanciato durante una funzione in Cattedrale: O Roma o morte! e inizia una nuova marcia attraverso l’isola, con l’incredibile acquiescenza delle autorità incaricate dal governo di interromperla. Sempre più volontari si uniscono alle colonne garibaldine, tanto che il Generale organizza definitivamente il corpo dei volontari in due battaglioni di bersaglieri, in tre reggimenti di fanteria e successivamente in altri due battaglioni di bersaglieri (il terzo e il quarto) più una compagnia di Carabinieri Genovesi (formata principalmente da Lombardi e Veneti). Le Guide vengono affidate al comando di Missori. Per rendere meno difficoltosi gli approvvigionamenti di viveri e acqua, i circa 3500 volontari vengono divisi in tre colonne che, attraverso percorsi differenti, convergono su Castrogiovanni (l’odierna Enna) dove si dovranno riunire. Ma, come rileva Alfonso Scirocco, “non era possibile illudersi sulla opportunità dell’impresa. Rispetto al 1860, mancavano troppi degli elementi che avevano permesso il miracolo dei Mille. I volontari non erano il fior fiore della borghesia, pronti al sacrificio per un grande ideale. Non affiancavano Garibaldi molti degli ufficiali che avevano messo in atto i suoi piani, come Bixio, Medici, Cosenz, Sirtori, diventati generali dell’esercito regio. Fuori della Sicilia la spedizione non godeva del favore dell’opinione pubblica: il trisettimanale satirico torinese Il Fischietto il 16 agosto raffigurava Garibaldi alla testa di scalmanati armati di fiaccole, e lo scongiurava di non mandare a fuoco una casa da lui stesso fabbricata. Infine non c’era l’appoggio, sia pur dissimulato, di uno Stato Sovrano”[10].
Una così eterogenea e raccogliticcia schiera di volontari, ancor più variegata di quanto pur si erano rivelate e si riveleranno altre colonne garibaldine, meritava profonda attenzione anche dal punto di vista sanitario: e così da Castrogiovanni, il 12 agosto, Ripari emanava una circolare (la n° 2) ai chirurghi “tendente ad avere l’elenco dei venerei, rognosi, perché siano lasciati al primo spedale che si incontrerà nel viaggio”. La circolare, intestata Ambulanza Generale Armata Garibaldi e indirizzata all’Onorevole Stato Maggiore Generale per l’Armata Garibaldi, invitava “i Signori Chirurghi di Battaglione, a volere sottoporre a visita regolare i soldati commessi alle loro cure mediche. Trovatini di affetti da malattia venerea e da altra che passi per contatto, ne segnino i nomi e mandino in un piccolo specchio il numero, distinguendo la malattia, a questa Ambulanza Generale per i prossimi provvedimenti. Dr. Pietro Ripari”. Quali fossero i “prossimi provvedimenti”, il medico li specifica in una nota esplicativa alla circolare stessa: “La quale circolare, ha per iscopo di far chiudere nel primo spedale che ci verrà fatto di incontrare nel nostro viaggio, specialmente i venerei, gente, oltre che inutile al servizio militare, essenzialmente dannosa per la inevitabile propagazione del morbo. Ne do notizia a questo Onorevole Stato Maggiore Generale, perché voglia d’Esso ajutarmi della sua autorità, quando la opportunità della esenzione la domandi. Con altissima stima. Dr. Pietro Ripari – Capo Medico”.[11]
Dopo tre giorni di sosta a Castrogiovanni, la marcia riprende e il 24 agosto i “ribelli” sono a Catania: anche in questa occasione si è proceduto a una prima organizzazione dei reparti e di nuovo Ripari è posto da Garibaldi a capo del servizio sanitario, coadiuvato dai medici dottor Enrico Albanese di Palermo e dottor Giuseppe Basile di Siculiana[12]. “Era naturale – precisa Ripari – che in Palermo io cercassi e d’Albanese, e di Basile; e trovatili, era pure naturale che io, conoscendone il merito, li domandassi di far parte della nuova ambulanza, che il Generale mi ordinò di ammanire piccola e volante. E fu il dottor Albanese che trovò mille franchi per le indispensabili spese di ferri d’operazione, di rimedi, di casse, ecc.”. Aggiunge ancora il medico in altra occasione: “Portavamo con noi una buona quantità di medicinali – varie cassette d’amputazione – filacce – bende – ecc. e in quantità tale d provvedere le varie ambulanze divisionali che potevano crearsi lungo il viaggio. Tutta roba che dallo sbarco di Rocca Falcone di Calabria Ulteriore di Calabria fino ad Aspromonte era naturalmente portata a schiena da bestie da soma”[13]
Il Generale spera di poter tentare l’impresa, sorretto dall’entusiasmo popolare e dal tacito appoggio del Governo; ma Rattazzi non ha lo spessore politico di Cavour e non può ripeterne le abili mosse: cerca di fermare Garibaldi disapprovandone l’operato e facendogli mancare il suo appoggio, ma senza la necessaria energia. Nella notte del 25 agosto i volontari varcano lo Stretto imbarcati su due vapori: invano parecchi autorevoli amici, tra cui Giacomo Medici, avevano scongiurato Garibaldi di fermarsi, ma non c’era stato verso di farlo recedere. A Torino, in Parlamento, erano state presentate parecchie interrogazioni sui discorsi che il Generale aveva tenuto in Sicilia, e il 3 agosto il Re aveva emesso un proclama nel quale deplorava che “ nel momento in cui l’Europa rende omaggio al senno della Nazione e ne riconosce i diritti […] giovani inesperti e illusi, dimentichi dei loro doveri, della gratitudine ai nostri migliori alleati, facciano segno di guerra il nome di Roma […]. La responsabilità e il rigore delle leggi cadranno su coloro che non ascoltano le mie parole”. All’orizzonte si profilano minacciose complicanze internazionali. A troncare gli ambigui indugi di Rattazzi interviene Napoleone III, che segue docilmente le imposizioni del partito clericale dominante a corte e che lo sostiene, e fa pressioni su Vittorio Emanuele perché arresti la marcia dei “ribelli” che minacciano Roma. Le rimostranze dell’Imperatore fanno sì che Rattazzi si risolva ad inviare il generale Enrico Cialdini con un buon nerbo di truppe per sbarrare ad ogni costo a Garibaldi la via per Roma.
Nel frattempo i “ribelli”, che la mattina del 25 agosto erano sbarcati sulla costa calabra, hanno iniziato la loro marcia verso l’interno; entrano in contatto con le truppe regolari verso le 15.30 pomeridiane del 29 agosto, sull’acrocoro dell’Aspromonte. Garibaldi, di fronte ai 3500 bersaglieri di Cialdini che avanzano e resosi conto dell’inferiorità numerica delle proprie forze, per evitare un massacro ordina ai suoi di non fare fuoco, ma si svolge tuttavia un brevissimo scambio di colpi durato una decina di minuti, sufficiente a fare dodici morti e trentaquattro feriti dall’una e dall’altra parte. Lo stesso Garibaldi è colpito da due pallottole sparate dai bersaglieri: un proiettile gli produce una leggera ferita di striscio alla superficie esterna del terzo superiore della coscia sinistra; l’altro proiettile, probabilmente di rimbalzo, lo colpisce più gravemente al lato mediale dell’articolazione del piede destro e percorrendo un tragitto diretto verso l’esterno e il basso frattura il malleolo mediale, apre la cavità articolare lacerando la parte anteriore della capsula fibrosa e va a incastrarsi nella depressione delimitata dall’astragalo, dallo scafoide e dal cuboide (ma tutto questo lo si potrà appurare solo successivamente). Garibaldi viene adagiato sotto un albero; Ripari (che seguiva la spedizione nonostante fosse in quel periodo affetto da non meglio precisate “febbri intermittenti” – probabilmente di natura malarica - che lo debilitavano) non è il primo ad accorrere sul luogo del ferimento, contrariamente a quanto sosterrà sempre in modo ostinato : ha dovuto infatti allontanarsi temporaneamente dalla linea del fuoco per rincorrere gli addetti all’ambulanza che ai primi spari, spaventati, si erano dati alla fuga. Racconta il medico cremonese in una corrispondenza a “Il Diritto”:
Fissava allora io la nostra Ambulanza nel bosco a cinquanta passi circa dietro al centro della nostra linea, e stava guardando dalla spianata libera d’alberi l’avanzata rapida delle truppe regolari, giunte di già alla casetta Florestani. Dubitando di un attacco rifeci cammino verso l’ambulanza onde accertarmi dei sussidii che il bisogno possibile richiedesse. I mulattieri spaventati si erano allontanati internandosi nella foresta sì che mi fu forza correre a gran passi onde arrestarli. Ritornava in gran fretta e giunto alla estremità del bosco, le palle mi fischiarono intorno da sinistra abbattendosi nelle piante, per cui sentendosi già attaccati, presi a correre a tutta forza, e giunto sulla spianata, vidi, fulminato da tanta sciagura a venti passi da me il Generale ferito, portato a braccia da due dei nostri. Egli stesso, il Generale, fissò il luogo nel quale volle essere adagiato, e fu al labbro del bosco tra i primi alberi. Il suo grido era Viva Italia, Viva Italia […] Sopraggiungevano intanto il dottor Albanese e il dottor Basile […].[14]
Al suo ritorno può scorgere il Generale sorretto dal luogotenente Manci, da Enrico Cairoli, da Giovanni Civinini e da Turillo Malato mentre viene accompagnato in una macchia d’alberi. Cairoli, pur non essendo medico ma in virtù della sua esperienza di campi di battaglia, osserva e descrive i caratteri della ferita malleolare, la più grave, e diagnostica la ritenzione della pallottola penetrata “a livello dell’articolazione tibio-tarsica, circa all’altezza del malleolo esterno destro”. La prima speranza del medico solarolese, vedendo il suo generale muovere qualche passo da solo, è che egli non sia ferito, o che per lo meno non si tratti di nulla di grave: e questo fatto sarà ritenuto in seguito un elemento diagnostico favorevole nel giudicare illesa l’articolazione del piede e “libera” dalla pallottola.
Guardata la ferita – annota – la quale non presentava foro, considerata la forma di lei quasi triangolare, curva al lato interiore del malleolo interno, a bordi sottili e netti, quasi fatti da coltello anatomico, leggermente lacero contusi alla parte inferiore, considerato che il piede restava fermo e saldo nella sua postura naturale, che dalla ferita non esciva che un icore sanguinolento a gemizio leggerissimo, che il piede non presentava gonfiore di sorta da far sospettare frattura d’ossa né nel tarso, né nel metatarso, pensai, e sperai, che il proiettile feritore non fosse entrato, ma rimbalzato a dietro dopo l’urto. Questo pensiero mantenni anche in seguito, avendo visto che il piede non alterò in nulla il suo stato normale, sino al quarto giorno, nel quale subentrata la reazione, gonfiò per legge naturale e morbosa, e mi vi confermava maggiormente il fatto che il Generale fece da cinque o sei passi e più dopo colpito, e che lo stivale fu cavato senza bisogno di essere tagliato e senza che il Generale dasse [sic] indizio del benché più lieve dolore[15].
Sopraggiungono gli ufficiali di Stato Maggiore; prosegue Ripari: “Pensai d’avere i chirurghi dell’ambulanza, aggirandomi d’attorno al ferito, e pregando quanti vedeva mi facessero il favore di andarne in traccia, indicando la direzione ove trovarli – Arrivarono cessato il fuoco, mezz’ora dopo l’attacco – L’ ambulanza era perduta”.[16]
Si tratta di una affermazione grave e immotivata, che getta un’ombra sui colleghi e che, data successivamente alle stampe, imprimerà ingiustamente un marchio di inefficienza sull’ambulanza del corpo di spedizione garibaldino. In realtà, dalle testimonianze (compresa quella di Garibaldi) risulterà che gli altri due chirurghi furono immediatamente presenti accanto al loro capo medico, ma Ripari continuerà ostinatamente a sostenere il loro ritardato arrivo, cosa che getterà le basi per una definitiva, irreparabile rottura con il collega Albanese, come si dirà in seguito. Ad un esame più approfondito del ferito, i medici avvertono una tumefazione, come da corpo estraneo, “mezzo pollice circa al davanti del malleolo esterno” e a questo livello Albanese, su richiesta esplicita di Garibaldi, che nel frattempo si era acceso un mezzo toscano, (“Vedete se la palla c’è, toglietela e se necessario amputate”) e con l’approvazione di Ripari, pratica un’incisione abbastanza superficiale nel tentativo di estrarre il proiettile. L’operazione fallisce: “Operatosi il taglio degli integumenti per la lunghezza d’un pollice forse su quel corpo resistente, quel corpo resistente scivolò all’indietro, e la resistenza mancò”.[17] Ripari, nella sua qualità di capo medico, si oppone recisamente a che il taglio venga approfondito, rimandando l’intervento ad altro tempo e in altra sede, anche in considerazione del fatto che l’ambulanza era stata saccheggiata e privata degli strumenti necessari (non prima che, fortunatamente, Basile riuscisse a impadronirsi di una sacca con i “ferri d’arte” necessari alle prime cure), e nella convinzione (peraltro non condivisa dagli altri due chirurghi) che il proiettile non sia stato trattenuto ma che, colpito e fratturato l’osso, sia rimbalzato fuori. Non sarebbero mancate in seguito le critiche a questa decisione, come avrebbe ricordato lo stesso Ripari nella sua Storia Medica: “Fu detto che Albanese doveva approfondire di più il taglio e andare avanti nella ricerca del corpo resistente. È facile giudicare dalla quiete di un gabinetto. Non era ben certo che quel corpo resistente fosse la palla, nessuno la giudicò tale per alcuni mesi dopo”.[18]
Garibaldi, dopo essersi arreso al Generale Cialdini che, riverente e quasi timoroso, era venuto a lui, deve essere ora trasportato a valle. Si deve apprestare una barella d’emergenza, poiché nel frattempo alcuni soldati delle truppe regolari hanno saccheggiato o reso inservibile il già scarso materiale dell’ambulanza; vengono tagliati e assemblati alcuni rami d’albero, mentre alcuni cappotti militari servono a far distendere il ferito. Ripari definirà l’improvvisato mezzo di trasporto “un letto di tortura per angolosità scabre di rozzi rami d’alberi, aspri di curve e nodi, velati malamente da cappotti da soldato”[19] e pronuncerà parole durissime contro il governo di Torino accusandolo apertamente di aver voluto togliere definitivamente di mezzo Garibaldi, su istigazione di Napoleone III.
Il governo, che si diceva italiano, fatto briaco di gioia dal sentire ferito e prigione l’uomo, che nella sua prostituzione a Francia aveva ordinato fosse morto, se possibile atterrarlo di piombo; dimentico, o non curante delle universali leggi di guerra, per le quali, meno il caso di fuga di un esercito perdente, i feriti gravi vengono depositati od alle ambulanze, o nel più vicino spedale; ponendosi anzi deliberatamente sotto ai piedi quelle leggi, ordinava il trasporto immediato affrettato dei gravissimo ferito e per un viaggio di oltre dodici ore di tempo; nella speranza senza dubbio, che quello che non aveva fatto l’offesa materiale, potessero fare i disagi e lo strapazzo. […] Di quale irreparabile danno , né possibile ad essere calcolato, potesse quindi essere cagione un trasporto precipitato, senza mezzi, se non infelicissimi, ad un viaggio lungo montagnoso, orrido e crudele per dirupi e torrentelli da passare sopra sassi angolosi e mal fermi, che mandavano sobbalzato ad ogni tratto, scrollato duramente e stranamente il ferito - affannoso per raggio ardente di sole, per polvere scura vulcanica alzata a nugolo permanente da un battaglione di bersaglieri di avanguardia, rincalzata da retroguardia, sì che il giacente ne andava deturpato e sozzo capelli e barba, annerite e secche le labbra – non v’ha persona per quanto rozza, che non comprenda.[20]
Convinzione, d’altra parte, che traspare evidente anche dalle pagine dell’altro curante di Garibaldi, il dottor Albanese, il quale fra l’altro ricorda che il Generale alla fortezza del Varignano rimase più giorni senza un letto di ricambio (che gli fu poi allestito da un privato cittadino di La Spezia) e sino al 25 settembre non vennero provvedute né bende, né filacce, né sanguisughe, “niente insomma di quello che occorre per la medicatura di un ferito.
Sono quasi le 19 del 29 agosto: la piccola colonna che deve far discendere alla costa Garibaldi ferito si mette in marcia. Il Generale è barellato da otto ufficiali dello stato maggiore, che si daranno il cambio con altri ufficiali e soldati.
Dietro il Generale era il suo figlio maggiore Menotti a cavallo. Una palla morta gli si era fermata contro il polpaccio della gamba sinistra, battendolo in pieno, e gonfiandola da rendergli impossibile star fermo su di essa, e molto più il camminare.
Era un ben mesto spettacolo. Bersaglieri avanti che per pudore di una vittoria peggiore di una sconfitta camminavano in silenzio. Il Generale superante della testa e del petto il folto cerchio de’ suoi che gli erano intorno, calmo di una tranquillità seria, fumante il suo mezzo sigaro. Cattabene assiduo a lasciar cadere da vasi di legno da soldati l’acqua a spilli sulla ferita. Menotti disegnantesi colle erculee sue forme dietro la testa del padre contro la bianca luce del giorno che andava mancando – il procedere lento per la difficoltà del cammino – la solitudine della campagna deserta – la mestizia silenziosa di tutti, attestavano che un grave fatto e solenne era avvenuto, al quale prendevano parte, dal quale erano tocchi gli uomini e la natura.[21]
Per quattro ore e mezzo, questo primo spostamento avviene di notte: al fine di evitare cadute ed eventuali rovesciamenti del ferito che “non poteva che essere scrollato a balzi e sussulti” durante l’attraversamento di ruscelli e sentieri ingombri da macigni, Ripari chiede e ottiene dal comandante delle truppe regolari delle lanterne militari al fine di poter rischiarare l’accidentato percorso. Così, senza troppi problemi “senz’altro maggiore danno che di fieri conquassi al portato”, il gruppo raggiunge verso mezzanotte la capanna di tal pastore Vincenzo, un ripostiglio montano ingombro di botti, sacchi ed attrezzi agricoli, dove Garibaldi viene adagiato su un tavolato di legno appena ricoperto da paglia ammuffita. L’aria della notte è fredda, e Ripari cerca di proteggere il suo paziente dai gelidi spifferi dando ordine coprire i telai delle finestre con cappotti militari arrotolati. Per tutta la notte i medici vegliano l’illustre paziente, che riposa a tratti, fuma per buona parte del tempo e alle due del mattino chiede un caffè. La ferita viene mantenuta con bagnature fredde. Il polso tuttavia si mantiene regolare e i chirurghi non rilevano aumento della temperatura corporea.
Sorta l’alba del 30, ed essendo stabilito che la barella di prima troppo dura al ferito, venisse sostituita da una meglio addatta [sic]; Albanese il quale aveva notate certe aste lunghe, grosse abbastanza e forti, che servivano di sostegno a una vite, la quale vi camminava sopra coi suoi tralci, fattele calare, si pose all’opera e ne riuscì un mezzo di trasporto più comodo, sebbene più pesante. Il maggiore Basso, uomo di mare, affezionatissimo al Generale e suo fidato segretario, come pratico, saldò il tutto con corde, sì che verso le sette del mattino fu ripreso il cammino per Scilla.[22]
Furono altre otto ore di cammino, “pericoloso per scoscendimenti paurosi, abbominando per afa soffocante di Sole, per nube perenne d’arena calda e scura, - e sosta di mezz’ora a S. Angelo”. Si cerca di recar sollievo al Generale riparandogli il capo dal sole cocente con fronde d’albero. Ben presto l’iconografia popolare si impadronirà di questa via crucis laica, e si moltiplicheranno i dipinti e le cromolitografie raffiguranti il trasporto di Garibaldi ferito; tra queste, la più nota è quella tratta da un olio di Gerolamo Induno che, sullo sfondo di un riarso ed assolato paesaggio calabrese raffigura la colonna di soldati e di volontari che attorniano la barella sulla quale giace Garibaldi; in primo piano, vestito di nero e con l’inseparabile alto cappello di feltro, si distingue il dottor Ripari che, sciabola al fianco, sostiene un garibaldino ferito.
Alle 14 il drappello raggiunge Scilla, e verso le 16 una lancia imbarca Garibaldi trasportandolo sulla pirofregata Duca di Genova; del gruppetto di “ribelli” che seguiranno il Generale nella prigionia del Varignano, oltre ai tre curanti Ripari, Basile e Albanese, fanno parte anche il figlio Menotti, Basso e Bideschini. Nel sua esposizione dei fatti, a questo punto Ripari passa in rassegna tutte le possibili complicazioni, ortopediche e neurologiche, che al ferito sarebbero potute sopraggiungere a causa del disagiato trasporto; “le quali conseguenze funeste – conclude – se non sono avvenute, non fu certo per previdenza del Governo che adoperasse ad impedirle, ma perché la fortuna ha seguito il suo figlio prediletto persino nella gravissima ferita, confermandolo così anche ai meno credenti destinato a stabilire veramente ad imperitura la unità del proprio paese […].”[23] Dopo un giorno di navigazione la Duca di Genova getta le ancore nel golfo di La Spezia, al largo della fortezza del Varignano, luogo destinato alla detenzione dei “ribelli”. Lo stesso giorno 31, Ripari stila una relazione medica[24] sull’avvenuto che i colleghi approvano e sottoscrivono: sarà il primo dei numerosissimi bollettini medici che i tre curanti, prima dal Varignano poi da La Spezia e da Pisa, emetteranno quasi quotidianamente e che verranno ripresi dai principali giornali nazionali, e delle frequenti corrispondenze che Ripari invierà al “Diritto” e al “Movimento” per informare l’opinione pubblica delle condizioni di salute di Garibaldi.
Lo sbarco del Generale avviene solo alle 14 del 2 settembre, dopo 28 ore di sosta nel porto di La Spezia probabilmente in attesa di “ordini superiori”, tanto che i medici curanti si sentono in dovere di inoltrare al Comandante della fortezza una vibrata protesta per i disagi a cui viene sottoposto il ferito[25]. Al Varignano attendono Garibaldi e i suoi amici, di fatto prigionieri, alcuni locali non propriamente accoglienti: a provvederli di tutto quanto il necessario si occuperà il dottor Prandina di Chiavari, giunto su richiesta di Menotti che già lo aveva conosciuto come medico militare durante la campagna del ’59. “E fu ventura la venuta del Prandina, - riconosce Ripari - che noi da strettezza per poco dissimile da vera povertà, ci trovammo tutti adagiati ad un tratto e per opera sua in una morbida opulenza. Ogni cosa fluiva al Varignano, quasi per virtù d’incanto, e quello che più monta, poté il Generale togliersi al ribrezzo di pezze sucide da ospedale, dalle quali era forzato vedersi avvolto il piede a mantenerlo coperto degli empiastri; ebbe lenzuoli finissimi e finissima ogni altra maniera di biancheria”.[26]
Sull’accaduto, al momento, nessun comunicato ufficiale, tanto che “Il Diritto” nel numero 247 del 6 settembre può scrivere in apertura: “ In attesa che cessi il malaugurato silenzio governativo, pubblichiamo noi la relazione dei fatti di Aspromonte, quale venne compilata dallo Stato Maggiore del Generale Garibaldi” e fa seguire su cinque colonne il lungo racconto di quanto avvenuto sui monti della Calabria, firmato, oltre che da Ripari, anche da Bruzzesi, Bideschini, Corte, Cattabene, Cairoli, Guastalla, Manci, Nullo, Albanese, Turillo Malato, Basile, Frigyesy e Basso. Sullo stesso numero seguiva la pubblicazione della relazione medica redatta da Ripari, Basile e Albanese e, ripresa dal “Movimento”, la lettera di protesta (v. nota 22) con il seguente commento della Redazione: “Pubblichiamo poi una protesta, che troviamo nel Movimento, la quale darà una conveniente idea dei principi d’umanità a cui s’inspira il Ministero Rattazzi-Depretis. Le son vergogne delle quali dobbiamo arrossire come italiani; ma chi se ne ricopre sarà trattato come merita dalla storia imparziale”. A ribadire la mancanza di notizie ufficiali da parte del Governo, “Il Diritto” scriveva ancora sul numero 251 del 10 settembre: “L’egregio Dott. Ripari, comprendendo le ansietà da cui siamo agitati dall’assoluta inscienza di quanto erasi sperato per la ferita del Generale Garibaldi, innanzi al 5 settembre, ha voluto con rara cortesia mandarcene speciale ragguaglio. Egli peraltro avrà dovuto indovinare che le nostre ansietà sarebbero state assai minori, quando prima del giorno 5 avessimo potuto sapere che il Generale Garibaldi era stato affidato alle sue sollecitudini e a quelle dei suoi egregi colleghi, i dottori Albanese e Basile. Ma di questi non conoscevamo neppure la presenza nel Corpo dei Volontari capitanato dal Generale Garibaldi. E del dottor Ripari, al cui nome ci ricorse immediatamente il pensiero, temevamo che qualche disgrazia di ferimento o prigionia lo avesse colpito, appunto perché in tutti quei primi giorni nessuno ci aveva potuto dare notizie di lui. Ecco ora la lettera che come amico e come capo medico della spedizione egli ci dirige”. Segue una dettagliata relazione dei fatti di Aspromonte, datata dal Varignano 6 settembre e firmata erroneamente “dottor Carlo [sic] Ripari” nella quale il medico solarolese riassume al Direttore del giornale lo scontro, il primo intervento sulla ferita, il trasporto di Garibaldi sulla Duca di Genova e i primi consulti avvenuti al Varignano. E in chiusura la raccomandazione: “Vi prego quanto so e posso signor Direttore a stampare nel vostro giornale al più presto possibile queste mie parole, perché sia dissipata quella tenebra, che sento con sorpresa e dolore addensata ancora attorno ad un fatto di tanto grave importanza, quale si è quello di una ferita grave toccata dal più grande e più santo uomo vivente”.
L’arrivo al Varignano dei dottori Riboli e Di Negro, avvenuto già il 3 settembre, aveva messo in allarme e aveva fatto prevedere al medico solarolese ciò che in realtà avvenne nelle settimane successive: un viavai continuo di chirurghi, alcuni pressoché sconosciuti, altri veri luminari della chirurgia italiana ed europea, giunti per visitare l’illustre paziente, infilare il loro dito e i loro specilli nel tragitto della ferita (con pratiche che oggi definiremmo senza dubbio maldestre), esprimere il loro parere e proporre la loro cura. Ma su questo aspetto della faccenda Ripari ha le idee ben chiare: convoca i due colleghi ad un briefing e dice loro:
Intendiamoci dunque bene – mio desiderio è che l’ambulanza abbia sola l’onore di portare a guarigione la ferita del Generale, dico a guarigione, perché per me tengo, sono convinto anzi che toccheremo ad un fine felice. Voi nella relazione del 31 agosto siete firmati quali curanti, e facenti parte dell’ambulanza generale, dovete mantenervi nel vostro grado, sostenere l’onore di quella. Consulti provocheremo, quanti stimeremo necessari, ma per ciò che si riferisce a materiale esecuzione d’arte deve essere fatto da voi. Quanto vi dico non riguarda me, quando poniate mente alla età mia troppa, ed al non avere io mai esercitata di proposito l’arte. Bene tocca a voi direttamente che giovani quali siete, avete avanti a voi l’arringo il più splendido, nel quale ad dimostrare il vostro valore. Che rispondete? – Risposero affermando sé parati a prestare l’opera loro d’arte, non solo per debito, ma per cuore, coscienti di poterla dare, quale la importanza del caso, la virtù e la gloria grandissima del ferito domandavano. Rifiutai quindi ogni concorso di chirurgo, accettando invece di gran cuore il dottor Prandina […].[27]
Ripari ritiene quindi i suoi collaboratori perfettamente all’altezza dei loro compiti di chirurghi militari, e per l’onore dell’ambulanza della quale è capo-medico avoca ad essa, e non ad altri, la gestione dell’illustre ferito. Non sbaglierà nella sua valutazione: in particolare il dottor Basile si dimostrerà un operatore particolarmente gradito a Garibaldi per la sua abilità nella medicazione quotidiana della ferita, tanto da meritarsi un affettuoso attestato di stima da parte del Generale.[28]
Il primo consulto avviene il 4 settembre presenti, oltre ai tre curanti, anche il professor Luigi Porta, direttore della Clinica Chirurgica dell’Università di Pavia, il professor Francesco Rizzoli di Bologna, il professor Ferdinando Zannetti, professore di Clinica Chirurgica all’Istituto di Studi Superiori in Firenze, e i dottori Di Negro , Riboli e Prandina. In questo consulto, l’opinione che prevale è quella di Porta, il quale ritiene che la palla sia rimbalzata e non sia stata trattenuta nell’articolazione. All’autorevole parere si uniformano tutti i medici presenti, e possiamo immaginare la soddisfazione di Ripari, che, “con una costanza degna di miglior causa, che si trasformò poi in cocciutaggine”[29], aveva sempre sostenuto questa tesi. “Non a torto l’Arrigoni ravvisa in questo atteggiamento ostile del Ripari la gelosia del vecchio ed orgoglioso capo dell’ambulanza verso i due giovani colleghi (specialmente verso il Basile) i quali erano peraltro molto più esperti di lui nel campo chirurgico”.[30] Anche Albanese quindi, da sempre sostenitore della ritenzione del proiettile, si adegua alle conclusioni del consulto; unica voce fuori dal coro è quella di Basile il quale, dopo aver visto pubblicata la relazione del Porta senza alcun accenno alla sua diversità di opinione, scrive una lettera al luminare pavese esponendo le sue ragioni. La pubblicazione della lettera di Basile sul giornale di Genova “Il Movimento” viene impedita da Ripari, Albanese e Prandina, preoccupati di evitare qualsiasi polemica tra i medici che seguono Garibaldi, ingenerando così nell’opinione pubblica, fortemente preoccupata per la salute del Generale, il sospetto che l’Eroe non sia adeguatamente seguito nella sua malattia : tale pubblicazione è però solo ritardata, e Basile ha così l’opportunità di far sentire la sua voce. È questa la prima incrinatura nel gruppo dei curanti.[31] La presa di posizione di Basile sarà fortemente criticata da Ripari: in una lettera indirizzata al collega alcuni mesi dopo il medico cremonese scriverà:
Dici: la mia diagnosi, e ti lamenti di Porta che non ne fece caso. La diagnosi era complessa, e quindi non puoi dirla esclusivamente tua. Tu non apristi bocca al consulto del 4 settembre, per cui Porta non ti nominò non sapendoti uomo dell’arte. Come poteva adunque Porta fare caso della tua opinione se non la conosceva? Tu avresti dovuto parlare il quel giorno 4 e combattere al letto dell’ammalato la opinione di quel Professore. Non avendolo fatto non puoi onestamente scrivere come fai; io solo mi tenni fermo nella mia opinione e dissi: che la palla era dentro al piede; etc. etc. etc.”.[32]
Non è nostra intenzione tediare il lettore con la cronistoria dei nove consulti che portarono, in 86 giorni di infermità, ben 25 medici specialisti, alcuni luminari della medicina ottocentesca italiana ed europea, altri oggi dimenticati, al capezzale di Garibaldi ferito; esistono al proposito numerosi approfonditi studi, anche recenti, di autorevoli storici della medicina. Si alternarono al letto dell’illustre ferito, come si è detto, anche personalità di livello europeo, come il chirurgo inglese Sir Richard Partridge, medico del Royal Hospital di Londra e Professore di Anatomia[33], il chirurgo personale di Napoleone III Auguste Nélaton e il famoso chirurgo russo Nikolaj Pirogoff; ci sia tuttavia permesso di accennare al “maxiconsulto”, fortemente voluto e sollecitato da Ripari, allarmato dalla diagnosi di Agostino Bertani che, giunto al Varignano il 17 ottobre, ha sottoposto il piede ad “un tasteggiamento lungo, minuto ed anche premente”, ed ha esplorato il tramite della ferita con il dito e con un grosso specillo curvo, giungendo alla conclusione che, per non mettere in pericolo la vita del Generale, si sarebbe dovuto procedere all’amputazione dell’arto. Il 29 ottobre, a La Spezia[34], si radunano attorno al letto di Garibaldi ben 18 medici (Porta, Rizzoli, Zannetti, Cipriani, Bertani, Di Negro, Palasciano, Gherini, Riboli, Tommasi, Odicini, Cartonelli, Zopfy, omeopata svizzero, e i diretti curanti) per un nuovo e forse ingiustificato consulto generale: ma nonostante la discussione sul caso clinico protrattasi dall’una alle cinque del pomeriggio il referto che viene emesso ( e che esclude ad ogni modo l’amputazione) è ancora una volta dubitativo: “L’esplorazione della ferita del generale Garibaldi, fatta colla tenta e col dito, sebbene riuscisse incompleta per le sofferenze dell’ammalato, e non rilevasse la presenza della palla, pure per i criteri ottenuti con la esplorazione medesima e per altri dati, si opina oggi dai consultanti che il proiettile esista nella ferita”.[35] Insomma, ancora una volta lo stesso quesito: la palla è o non è stata trattenuta nell’articolazione? Sarà giocoforza prima o poi procedere all’amputazione o si potrà salvare l’arto? La soluzione, che oggi sarebbe alla portata di qualunque medico alle prime armi grazie a una semplice lastra radiografica, allora sfuggiva anche ai più famosi luminari che potevano appoggiarsi unicamente alla clinica e alla semeiotica. Viene inoltre da chiedersi: se il piede, anziché quello del generale Garibaldi che molti ritenevano personaggio ancora necessario al compiersi dell’unità nazionale, fosse stato quello di un semplice fantaccino si sarebbe indugiato così tanto e così tanti sforzi si sarebbero fatti per evitare l’amputazione? Certamente no; in ogni modo, la situazione viene in un certo senso sbloccata dall’arrivo a La Spezia, il 28 ottobre, del celeberrimo specialista francese Auguste Nélaton, che, dovendo rientrare a Parigi, sottopone Garibaldi a una visita piuttosto rapida, ma lascia ai medici italiani una relazione veramente dettagliata nella quale tra l’altro si legge: “ Je pense que la balle est contenue dans la plaie, que c’est elle que le stylet rencontre à deux centimètres et demie de l’orifice”[36], e sconsiglia vivamente di procedere all’amputazione; “In conclusione, per quanto riguarda la proposta di un’amputazione, io non prendo in considerazione questa estrema risorsa se non nel caso in cui, contro ogni probabilità, insorgesse qualche grave complicazione come ascessi profondi, suppurazione abbondante e continua, scadimento evidente delle condizioni generali; in una parola, un pericolo di morte”.[37] Promette inoltre l’invio da Parigi di uno specillo di sua invenzione, che potrà essere d’aiuto nel localizzare la palla e facilitarne l’estrazione. Nélaton invierà una lunga e precisa relazione clinica sulla condizioni di Garibaldi che sarà pubblicata sulla Presse Médicale Belge nel n° 47 del 9 novembre. E a proposito del consulto di Nélaton, è opportuno ricordare come questo fu enfatizzato dalla pubblicistica scientifica francese, suscitando lo sdegno del Dr. Basile che in appendice alla sua opera sui fatti di Aspromonte ricorda come lo scopo sia “di celebrare il glorioso nome del Prof. Nélaton, deprimendo i meriti non solo dei chirurghi curanti il Generale, ma bensì degli altri medici consulenti, onde far risaltare la gloria della chirurgia Francese a danno dell’Italiana”[38]. In effetti, il compilatore della rivista L’Année Scientifique et Industrielle , Louis Figuier, nell’annata 1863 alla pag. 315, ricordando “l’ammirevole diagnosi del Prof. Nélaton”, scrive che “sul campo di battaglia di Aspromonte i chirurghi italiani convocati attorno all’illustre ferito perdono la testa; invece di procedere con coraggio all’estrazione immediata della palla, essi tremano alla sola idea di toccare questa sacra carne e praticano, sul lato esterno del piede, cioè sul lato opposto all’entrata del proiettile, un’incisione che, spinta più profondamente, avrebbe permesso di estrarlo”. In realtà Nélaton non criticò l’operato dei tre medici, anzi nella sua relazione elogiò il loro metodo di cura, come ricordato anche da Ripari nel suo lavoro. “Ciò dimostra – commenta Basile –come il signor Figuier sia digiuno d’arte chirurgica, e specialmente in materia d’arme a fuoco”. Anche il Professor Michelangelo Asson[39], in una memoria letta qualche anno dopo (1868, Sullo stato attuale della chirurgia in Italia) all’Ateneo Veneto così si esprimerà al proposito: “Che, se qualche ingiusto dispregiatore della chirurgia nostra, a vituperarne i fasti sotto il riguardo delle ferite della guerra allegasse, come necessario riuscito l’intervento dell’illustre francese prof. Nélaton ad iscuoprire la palla che perforò nel funesto fatto d’Aspramonte [sic] il piede, nel proprio nodo, al Generale Garibaldi, legga la storia medica di questa grave ferita, stampata a Milano l’anno 1863 dall’onorevole dott. Pietro Ripari, capo medico della spedizione; e, seguendone la narrazione, ne’ vari periodi della curagione, si avvedrà siccome la presenza della palla fosse già stata riconosciuta da parecchi chirurghi italiani anche inanzi l’arrivo del prof. Francese. […] Chi leggerà con buona fede e con la necessaria attenzione la storia ingenua del dott. Ripari ne trarrà argomento, anziché di biasimo, di lode e d’onore alla nazionale chirurgia”.
Intanto si sta pensando da parte dei curanti di trasferire Garibaldi da La Spezia a Pisa, dove il Generale avrebbe trovato un clima più mite e maggiori comodità per le cure data la vicinanza del professor Zannetti, che i tre medici considerano l’unico vero e affidabile punto di riferimento in mezzo al carosello di consulenti che nelle ultime settimane hanno visitato il Generale. È Ripari a motivare a Zannetti questa decisione, il 5 novembre:
Io desidero, voglio per quanto sta nel mio voto, che il Generale siesi a Pisa. Lo voglio perché vicino a Voi: io e i due primi curanti, l’Albanese e Basile, , non possiamo che guadagnare per qualsiasi fortuita e disgraziata complicazione d’aggravemento della parte malata nel grandissimo piagato. Lo voglio perché la coscienza me lo comanda, lo voglio perché voi siete tale individualità che si ama quanto si stima, e potete garantire ai presenti e ai futuri, che più importa, l’operato e l’operabile nella malattia del Generale. Debbo pure parlarvi, come suol dirsi, col cuore in mano, a quale condizioni passerà il Generale a Pisa, intendo condizioni pecuniarie, perché qui vi paga assai poco e Voi sapete certo che i mezzi finanziari sono assai limitati nel Generale. Si andrebbe in un albergo o in una casa privata? A queste quistioni bisogna che la vostra gentilezza risponda, perché bisogna che voi sappiate che vi è chi intenderebbe portarlo in propria casa a tutte sue spese in Lombardia. A me piacerebbe anche dal lato politico che il Generale passasse a Pisa, e di là se ne andasse dopo un dato tempo a Napoli ed altrove. La Lombardia la escluderei naturalmente per il clima troppo freddo e nebbioso e per altre ragioni che voi immaginate di certo.[40]
L’8 novembre, per via d’acqua, Garibaldi viene trasferito sul vapore Moncalieri da La Spezia alle foci dell’Arno e da qui, su di un battello attrezzato sul quale hanno trovato posto oltre al Generale anche Ripari, Albanese, Basile, Menotti, Prandina e Vecchi, a Pisa dove per la comitiva è stato fissato alloggio all’Albergo delle Tre Donzelle, l’albergo pisano migliore di quei tempi. Una stampa popolare ci rende visivamente (in modo fantasioso ma senz’altro verosimile) il trasferimento del Generale a Pisa via acqua: un battello governato a poppa da un timoniere sotto un grande tricolore e a prua da un rematore che voga alla veneta, ha eretto al centro un grande baldacchino ornato da ghirlande e coperto da tessuti drappeggiati che scendono a lambire le acque dell’Arno. Sotto questo felze, riparato dal freddo e dall’ umidità della stagione e adagiato su un mucchio di cuscini, le gambe sotto una pesante coperta, sta Garibaldi che guarda serenamente come in una fotografia l’osservatore, affiancato alla sua destra dal dottor Prandina e dal dottor Albanese. Alla sua sinistra il dottor Ripari, con il suo consueto alto cappello e un pesante mantello. Completano il piccolo equipaggio il segretario di Garibaldi, Guerzoni, l’altro curante dottor Basile, il figlio Menotti e Candido Augusto Vecchi. Attorno numerose imbarcazioni con passeggeri festanti.
Del trasferimento a Pisa di Garibaldi da’ sollecita notizia Il Diritto, che nel numero 311 del 9 novembre cosi’ scrive: “ Ultime notizie – Da Pisa, alle ore 3.45 pom. Ci fu ieri spedito il seguente telegramma. Il Generale Garibaldi in questo punto giunge felicemente per l’Arno. Grandissima accoglienza. Mezz’ora dopo ci veniva trasmesso quest’altro dispaccio dei medici curanti. Il Generale e’arrivato a Pisa felicemente. Accoglienze entusiastiche. Ripari-Prandina-Basile-Albanese.”
Pochi giorni dopo l’arrivo a Pisa, il 15 novembre, giungono da Parigi i due specilli promessi da Nélaton, e Ripari si affretta a darne comunicazione al professor Zannetti:
[…] E’ arrivato lo strumento del Nélaton, immaginato a stabilire la presenza o no della palla. È un’asta metallica a manico rotondo, che termina in un piccolo globetto di porcellana. Se la palla esiste, si pretende che toccata da qualsiasi punto della piccola sfera debba su questa lasciare il segno del piombo. L’invenzione è assai semplice. Sta a vedere se risponderà. Al vostro arrivo avremo provato lo strumento e notatone il risultato.[41]
Il primo tentativo di localizzare la palla con lo specillo di Nélaton, condotto il 16 novembre, è deludente: secondo Ripari lo Zannetti “introduce nella ferita per primo lo specillo ordinario che a 4 centimetri è arrestato da un corpo che a lui rende sensazione di scheggia ossea; sensazione ripetutasi introducendo lo specillo di Nélaton ed altro specillo a punta piatta di sua invenzione”.[42] Si ripete il tentativo il giorno 20, con esito più fortunato: così Ripari prosegue nel suo resoconto:
Entra [nel tragitto della ferita] dopo di lui [lo Zannetti] il dottor Basile collo stesso specillo, ed eccitandolo io, parlandogli piano all’orecchio a spingere con un po’ di forza lo specillo, questo dà un piccolo suono secco ben distinto nel profondo silenzio della generale aspettazione, come se superato un ostacolo avesse lo specillo urtato contro un corpo duro, dopo avere percorso a un tratto la distanza di un mezzo centimetro forse. Fregasse bene in giro, gli era stato detto allora, la punta dello specillo contro il corpo che toccava: il che da lui eseguito, e cavatolo di poi, lo vedemmo tutti tinto in nero per due buoni terzi della circonferenza del suo bottoncino di porcellana.[43]
Il professor Tassinari, docente di chimica all’Università di Pisa, accerta che i residui sullo specillo sono “vero e schietto piombo”. Habemus papam: “il proiettile feritore era alla fine trovato e stava a quattro buoni centimetri di profondità dall’ingresso della ferita, in linea retta colla articolazione del piede sulla tibia”.[44] Per la verità la localizzazione del proiettile era stata tentata anche in altro modo: il 10 novembre era giunta a Ripari una lettera da Milano, a firma di un tal Sig. Raffaele Tarelli, “fisico dilettante” residente in via S. Maria Valle al n° 5, nella quale si consigliava ai medici l’allestimento di un’apparecchiatura elettrica sul cui funzionamento il solarolese si dilunga alle pagg. 98-99 del suo lavoro. Il Professor Riccardo Felici, Ordinario di Fisica all’Università di Pisa, aveva fatto portare un galvanometro. Ma lasciamo a Ripari stesso la spiegazione del funzionamento di tale macchina:
Si piglino due sottilissimi aghi di acciaio, si isolino separatamente mediante filo di seta, poi si uniscano e si leghino paralleli con filo pure di seta e si copra il tutto con vernice di gomma od altro corpo isolante; non restino scoperte che le estremità degli aghi, in guisa però di non aver contatto tra loro. Le due punte di una di queste estremità si mettono in comunicazione con una buona pila termo-elettrica (nella quale sia interposto un galvanometro per misurarne la intensità) le due punte dell’altra estremità di questi aghi che essendo riuniti costituiscono una maniera di specillo) s’introducano nella ferita. Essendo minima in detta pila la resistenza interna non si avrà alcun indizio di corrente finché lo specillo sarà a contatto con sostanze animali, mentre si otterrà la corrente intera quando si giunga a toccare la palla metallica. […] Questo suggerimento sembra attuabile e fecondo di risultamenti.
In effetti, questo dispositivo allestito dal Professor Felici era risultato efficace nel rilevare la differenza di potenziale elettrico quando fu provato su una pallottola tenuta tra le dita, ma purtroppo una volta inserito nel tragitto della ferita non aveva fornito un risultato conclusivo per la conferma della diagnosi. Ben vennero quindi gli specilli di Nélaton.
Il 22 sera Basile introduce nella ferita una spugna preparata per dilatare il tragitto; la mattina del 23 la ritira con attaccata alla punta una scheggia ossea. Introdotto nuovamente lo specillo di Nélaton, questo si arresta a 4 centimetri ed esce ancora tinto di nero. Il Basile racconta che “non volendo mancare ad un’ alta civiltà medica e di riguardo verso il professor Zannetti” gli presenta una pinzetta dentata ad anelli e lo invita ad estrarre la palla, operazione che lo Zannetti esegue senza difficoltà e senza che l’illustre paziente avverta disagio o dolore. Presenti alla memorabile estrazione, oltre a Ripari, Albanese e Basile, sono anche Menotti, il fisico professor Felici, il dottor Cuturi direttore dell’Ospedale di Pisa, Basso e il belga dottor Jean Baptiste Allart, che pubblicherà un dettagliato resoconto dell’avvenimento nella Presse Médicale del 30 novembre. Il 24 novembre Il Diritto dà tempestiva notizia del riuscito intervento con questa breve comunicazione:
Riceviamo sa Pisa il seguente telegramma:
Bollettino sanitario, 23 novembre
(spedito ore 10.01 – ricevuto ore 1.30)
Il Prof. Zannetti ha estratto la palla in un minuto. E’ una palla da bersaglieri sformata ai lembi.
Ripari-Basile-Albanese
Abituati oggi ad una informazione “istantanea” a mezzo dei moderni mezzi di comunicazione e dei cosiddetti “social”, può non stupire questo modo di mettere al corrente l’opinione pubblica: ma si consideri che all’epoca la pubblicazione dei quotidiani bollettini medici redatti da Ripari, Basile e Albanese a mezzo soprattutto dei giornali Il Diritto, Il Movimento e Lo Zenzero, costituì una vera e propria informazione “in tempo reale” a favore di tutti coloro che erano ansiosi di conoscere l’evolvere delle condizioni di salute del personaggio più noto e amato al momento, sia in Italia che all’estero.
La “palla” finalmente rimossa e la cui forma è accuratamente riprodotta nelle illustrazioni litografate a corredo dei lavori di Ripari e di Basile (ma non di Albanese) si presenta frammentata e deformata. Ripari approfondisce nella sua relazione, mediante una puntuale nota[45], le caratteristiche della “palla” estratta. Questa pesava circa 22,5 grammi, ovvero il 50% del peso di una pallottola sparata normalmente dalla carabina in dotazione ai bersaglieri, era deformata e si presentava con due facce, una concavo-scabra l’altra convessa-liscia, con due punti convergenti a ferro di cavallo. Ripari descrive altri aspetti del proiettile e le caratteristiche della ferita, traendo alcune conclusioni che riportiamo in sintesi. Il proiettile, prima di colpire il piede del generale aveva percosso un corpo duro, che lo aveva reso molto meno micidiale. Il medico solarolese riteneva che la parte rimasta del proiettile fosse entrata con la sua base e che avesse colpito “con sì poca forza da fermarsi dentro il piede”, appoggiandosi sulla tibia senza frantumarla. Lo studio della posizione della pallottola, in relazione alla dinamica dell’evento (tutti i testimoni concordano sul fatto che il Generale dopo essere stato colpito aveva fatto ancora qualche passo) gli consentì di dedurre che la pallottola, penetrando con scarsa potenza e seppur sparata da meno di 200 metri, grazie alla tensione dei tendini estensori - la tibia per questo motivo faceva con il piede un angolo acuto - solcò solo il corpo dell’osso e così non ebbe modo di arrecare danni più importanti di quelli che in effetti fece. In altri termini Garibaldi (queste le conclusioni di Ripari) fu ferito da una palla inerte, sparata da una distanza relativamente prossima e fu fortunato perché era in movimento; in conclusione la pallottola, passando tra tendini e ossa, non ebbe modo di procurare grandi danni. Forse se Albanese avesse potuto procedere immediatamente, come era sua intenzione e non fosse stato dissuaso dal Capo Medico Ripari e da Basile, il proiettile sarebbe stato estratto già sull’Aspromonte. Ripari conclude la nota ammettendo che: “La sporgenza sulla quale fu praticata la incisione in Aspromonte era quindi veramente rappresentata dalla palla, la quale col suo margine anteriore acuto liscio libero tagliente della sua base, guardava la parte esterna del piede”.
In anni recenti, se da una parte Arrigo Petacco ritiene di aver individuato sulla scorta di documenti dell’epoca il feritore di Garibaldi nel luogotenente Luigi Ferrari[46], dall’altra ha riscosso interesse la nuova ipotesi del Prof. Gennaro Rispoli, primario chirurgo dell’Ospedale Ascalesi di Napoli e appassionato studioso di Storia della Medicina, il quale ha prospettato assieme ad altri esperti un’assai differente dinamica del ferimento, basata sulle numerose relazioni cliniche che furono redatte dai tanti medici che, come si è visto, visitarono Garibaldi e sull’aspetto del foro di entrata del proiettile attraverso lo stivale indossato dal Generale e oggi conservato al Museo Centrale del Risorgimento di Roma. Vi si nota un foro bruciacchiato, di tipo lacero-contuso, quale potrebbe causarlo un colpo di pistola, esploso a breve distanza, ossia tra un metro e mezzo e tre metri. In base alla localizzazione del foro nello stivale e della lesione ossea, la traiettoria del proiettile fu dall’alto in basso, come si legge anche nelle numerose relazioni cliniche. Nel Museo è in mostra anche il proiettile, estratto dalla ferita e conservato per anni dal figlio Menotti: pesa poco più di 22 grammi (come indicato da Ripari nel suo lavoro), mentre quelli delle carabine dei bersaglieri, pesavano 45 grammi. Inoltre, Garibaldi era su un’altura ed i bersaglieri arrivarono dal basso, attaccando da almeno 200 metri di distanza, armati di carabine, che avevano sufficiente gittata per colpire così da lontano, ma ovviamente con traiettoria dal basso in alto; i garibaldini erano armati invece di pistole e qualcuno era forse ignaro che con esse si poteva colpire solo a distanza ravvicinata di venti o trenta metri. Rispoli ne conclude che potrebbe essere stato un inesperto garibaldino a far fuoco con la pistola ed a colpire Garibaldi, che gli era vicino. Suggestiva e inquietante è anche una lettera spedita in data 19 novembre 1862 da Milano a Zannetti dal professor Ambrogio De Marchi Gherini, chirurgo primario presso l’Ospedale Maggiore e che insieme a Zannetti visitò il Generale il 9 ottobre. Gherini è autore di un “Vade Mecum per le ferite d’arma da fuoco” pubblicato a Milano nel 1866, e quindi persona qualificata per esprimere giudizi in merito. Scriveva Gherini a Zannetti nella citata lettera: “Oggi venni assicurato che la ferita del generale è stata fatta con un revolver. Aveva ben ragione di dire il professor Porta che una palla da bersagliere non poteva essere passata per la piccola ferita che egli esplorava. Che la cosa stia tra me, voi, il Generale e Ripari. Segretezza!”. Perché il medico solarolese viene indicato come depositario di un segreto, condiviso solamente con Garibaldi, Gherini e Zannetti, che non bisognava divulgare? E chi assicurò Gherini che il proiettile feritore era stato sparato da un revolver? La ragione per cui Gherini raccomandò il riserbo sull’ipotesi di un colpo di revolver, potrebbe essere che la versione ufficiale del ferimento per un colpo di carabina sparato dai bersaglieri aveva attirato universali simpatie, anche internazionali, su Garibaldi e si sarebbe rivelato controproducente rivelare che il Generale era stato vittima involontaria del “fuoco amico”. È da rilevare, tuttavia, che Gherini scrisse la lettera citata il giorno prima ( 19 novembre) che venisse accertata la presenza della palla nella ferita, e tre giorni prima che Zannetti la estraesse e si scoprisse che era solamente un frammento della palla di carabina, la quale evidentemente s’era frantumata nell’urto contro qualche roccia: tale frammento rimbalzò con traiettoria dall’alto in basso e colpì il piede con violenza ormai fortemente ridotta, tanto che non riuscì a trapassarlo da parte a parte, come avrebbe invece fatto una palla di carabina che lo avesse colpito direttamente o un proiettile di revolver sparato da distanza ravvicinata. Questa, come si è visto, è la dinamica del ferimento sostenuta da Ripari successivamente all’estrazione del proiettile ed esposta nel suo lavoro, ipotesi della quale prese nota anche Gherini condividendola, come dimostra la relazione di un suo collega d’ospedale, pubblicata nel gennaio 1866. Insomma, ancora oggi la ferita di Garibaldi ad Aspromonte continua a far discutere e probabilmente, come tante altre vicende della storia italiana, continuerà a mantenere lati oscuri.
Si concludono così tre intensi mesi in cui un numero impressionante di medici (almeno 25 tra italiani e stranieri), su richiesta di consulto o presentatisi spontaneamente, ha dibattuto ogni aspetto diagnostico e terapeutico: la palla è stata trattenuta o no? Si dovrà amputare o no? Quale medicazione è meglio adottare? Non è stato trascurato nemmeno l’aspetto dietetico: quale alimentazione è meglio far seguire al Generale? Ripari rivendica l’interruzione, verso la metà di settembre, “della dieta delle tre minestre al giorno” ritenuta dal solarolese non tollerabile dall’illustre paziente, con la ripresa di un “cibo animale valido, con caffè e biscotti la notte”; scelta motivata dal permanere di un “pungente e gagliardo appetito”[47]
Ma la conclusione della vicenda, che si è risolta nel migliore di modi da tutti auspicato fin dall’inizio, lascia l’amaro in bocca all’incontentabile dottor Ripari: a giudizio del medico solarolese la palla sarebbe dovuta essere estratta dal Basile stesso, che medicò sempre con cura il Generale, che fu il primo a documentare l’esistenza della palla il 20 novembre con lo specillo di Nélaton, e che infine procurò la dilatazione del tramite della ferita con la spugna preparata. Meglio sarebbe stato che il Basile non avesse ceduto all’ultimo momento la gloria dell’estrazione a Zannetti e “il prof. Zannetti – così si esprime con acredine Ripari – avrebbe forse meglio provveduto alla dignità d’arte se avesse detto egli stesso al dottor Basile – cavate voi la palla – accontentandosi di dirigerne egli stesso l’estrazione”. [48] E ancora: “Quel proiettile estrasse il professore Zannetti di Firenze, e forse non doveva, perché la operazione troppo facile a un Professore già in alta fama, troppo meglio conveniva ad uno dei curanti il ferito, quali appartenenti all’ambulanza generale, della quale era dovere, l’onore della quale comandava, che l’uno de’ suoi chirurghi, i quali avevano ricevuto il ferito in Aspromonte, accompagnatolo lungo il viaggio, circondato di solerti amorose cure sapienti al Varignano, alla Spezia in Pisa, capacissimi entrambi di estrarla, la cavasse”.[49] Da queste parole traspare evidente il rincrescimento e la delusione del vecchio cremonese nell’aver visto sfuggire il merito dell’estrazione ai colleghi dell’ambulanza della quale era il capo-medico e che secondo lui avrebbe dovuto da sola provvedere alla guarigione del Generale; parole, quelle di Ripari, tuttavia ingenerose perché lo Zannetti non si vantò mai della propria abilità ma anzi attribuì sempre il felice esito della vicenda al lavoro complessivo svolto dagli altri medici e soprattutto dai curanti. Ma oramai i dissapori dell’irascibile dottor Ripari con i colleghi non si sarebbero più sanati, in particolare con l’Albanese sul quale, fin dai primi di novembre nelle lettere allo Zannetti, il cremonese riversa svariate ed ingiuste accuse: l’amor proprio troppo spinto, una insopportabile prosopopea, le scarse doti come docente universitario, lo sfoggio una cultura medica che in realtà non possiede: “Riapro la lettera – scrive Ripari a Zannetti il 6 dicembre 1862 – per dirvi che Albanese sta leggendo un libro con tavole sull’applicazione della fasciatura amidata, libro che gli ha portato Prandina, chiamato qua da lui. Poi l’Albanese andrà cinguettando di nomi, d’autori, di maniera da tenersi nell’applicare la fasciatura stabile e sempre per dare a intendere che fa tutto lui. Mi direte che v’è della passione in me parlando d’Albanese. No, Professore carissimo. Gli è che io aborro i tristi e quell’imbecille è tristissimo. Dubito anzi sia alquanto offeso al cervello ed egli lo senta, giacché fa pediluvi quasi ogni giorno”.[50] A proposito della fasciatura amidata proposta da Albanese, il dottor Allard (in una comunicazione inviata a La Presse Médicale Belge[51]) ricorderà come questo trattamento che il medico siciliano e Prandina fortemente sostenevano, sia stato accanitamente contrastato da Ripari e Basile, favorevoli piuttosto all’applicazione sulla ferita di cataplasmi di farina di lino.
In realtà si ha l’impressione che le accuse del capo-medico siano dettate più da motivi personali che da fatti oggettivi: divergenza di opinioni sulle cure e sulle medicazioni e, soprattutto, differenze caratteriali. Nulla invece emerge dalle parole dell’Albanese nei confronti del suo superiore, se non un naturale, comprensibilissimo sentimento di stupore e delusione per le critiche immeritate a lui rivolte. “Veramente io non poteva mai credere – scriveva Albanese a Zannetti il 24 dicembre 1862 - in un uomo in cui non avea mancato mai di rispetto e pel quale sentivo della stima, tanto odio e tanto rancore a mio riguardo. Ma basta, voglio scusarlo e perdonargli tutto il male che volea ed intendeva farmi col pensare alla sua estrema eccentricità. In ogni modo il passato mi sarà d’insegnamento per l’avvenire”.[52] Ma l’acredine di Ripari nei confronti del collega non si limiterà purtroppo solo alle parole: verso la metà di dicembre, poco prima che Garibaldi si imbarchi per Caprera insieme a Basile e a Albanese, il medico solarolese si presenta al suo Generale con una dichiarazione che ha accuratamente preparato. In questo documento si asseriva che Albanese, in Aspromonte, si era presentato a soccorrere il ferito solo mezz’ora dopo la fine dello scontro a fuoco: Ripari chiede a Garibaldi di sottoscrivere questa dichiarazione ma il Generale, che sa bene come sono andati i fatti, si rifiuta recisamente, anzi, ha durissime espressioni nei confronti del suo capo medico e lo congeda a male parole. Albanese, informato della cosa direttamente da Garibaldi, così si sfoga con il Professor Zannetti: “ Ciò è un’infamia, una vile calunnia. Il Generale mi rispose di lasciarlo cantare, è un povero asino che raglia, soggiungendomi di non far pettegolezzi […] Il Generale mi ha voluto ciò dire per provarmi quale immensa opinione ha di me e per significarmi che Egli non dimentica e non dimenticherà mai che ad Aspromonte alla sua ferita io solo accorsi e lo medicai. Io ho voluto scriver tutto a Lei per mostrarle sino a qual punto può arrivare l’invidia e la perfidia”.[53]
A seguito del duro diverbio con Garibaldi, Ripari il 16 dicembre decide seduta stante di partire per Milano senza dire nulla a nessuno, solo avvertendo all’ultimo momento il Generale. “Voglio sperare che non tornerà più in Caprera, e che durante la mia vita non ci avrò più nulla a che fare”[54], commenta Albanese. Ripari quindi non accompagna il suo Generale a Caprera, dove egli, desideroso di un po’ di quiete ma soprattutto per sottrarsi alle pressioni dei numerosi esponenti politici che continuamente lo visitano a Pisa, ha deciso di trasferirsi la settimana di Natale; lo accompagnano quindi nell’isola Basile e Albanese: Basile si fermerà a Caprera fino al 23 gennaio, quando farà ritorno in Sicilia ritenendo Garibaldi in “perfetta convalescenza” e quindi non più bisognoso di cure. Motiverà questa sua decisione in una corrispondenza al “Diritto” nella quale dichiarerà che il Generale “era andato alla pesca e che camminava di già con le grucce[55]”. Albanese invece protrarrà il suo soggiorno nell’isola per altri sei mesi, fino alla guarigione completa di Garibaldi, ritenendo ciò un “sacro dovere”, come scriverà a Zannetti il 23 gennaio 1863: “Oggi parte il Basile. Io resto e resterò fino a che il Generale sia completamente guarito: il fare diversamente sarebbe un’infamia, equivarrebbe a un abbandono. Io fui il primo a medicarlo ed io sarò l’ultimo: ancora la ferita non è entrata nel periodo di riparazione. Tuttavia segue la eliminazione ed ieri è venuta fuori una scheggia piccola. Che Basile vada poco mi importa, io però resto. So bene che i miei affari vanno a rompicollo ma non so fare altrimenti, adempio qui a un sacro dovere”.[56] Traspare, dalle parole di Albanese, un forte dissenso per la prognosi avventata formulata da Basile a proposito della ferita, dissenso che si tramuterà ben presto in aperta ostilità nei confronti del collega quando il Basile, a giustificazione della sua partenza da Caprera, pubblicherà sul quotidiano genovese “Il Diritto” una lettera nella quale sosterrà pubblicamente la “perfetta convalescenza” di Garibaldi. Ciò provocò il forte risentimento di Albanese che, in polemica risposta alla lettera del collega, pubblicò sempre sul “Diritto” ai primi di febbraio una sua interpretazione dello stato di salute del Generale; da Caprera, scriveva Albanese al professor Zannetti, il 6 febbraio 1863: “Ancora non so comprendere la ragione pella quale Basile ha voluto così bassamente mentire. Il Generale ne è rimasto indignato e se risponderà a ciò che io ho scritto su di lui al Diritto avrà una smentita solenne dal Generale stesso. Ma basta di questo vile insetto”.[57] Il “gesuita Basile” ( è un definizione di Albanese) in un primo tempo si accinse a replicare, ma in seguito decise di lasciar perdere “per private ragioni”, riservandosi di rispondere quando “dileguato ogni dubbio fosse allontanata ogni supposizione di passione d’animo esagitato”; solo successivamente inserirà la lettera di risposta ad Albanese nel suo lavoro sulla ferita di Garibaldi[58]. Grazie al reperimento fortuito e allo studio di un interessantissimo carteggio[59] tra Ripari e Basile, oggi conservato in un archivio privato, siamo in grado di affermare che dietro questa decisione di Basile ci fu lo zampino del medico solarolese che lo consigliò di sospendere momentaneamente la polemica con Albanese e di rinviare tutto alla pubblicazione del lavoro al quale il collega di Siculiana si stava allora dedicando. Anche il dottor Basile (come del resto gli altri due curanti) aveva infatti concepito l’idea di dare alle stampe una sua Storia Medica degli avvenimenti di Aspromonte, e aveva chiesto al suo capo-medico la disponibilità a correggere il manoscritto mano a mano che il lavoro procedeva; Ripari, nonostante in quel periodo fosse fortemente impegnato nella redazione e nella pubblicazione del proprio scritto sullo stesso argomento, aveva assicurato al collega la più ampia collaborazione, anche se il compito si rivelerà ben presto assai gravoso: il 19 agosto 1863 il medico cremonese avverte il collega:
Ti assicuro che è una fatica non piccola avere a trattare uno scritto d’altri, e da lontano. Vedrai da quello che ricevi oggi se ti pare che vada bene; avvisami se trovi che non abbia sin qui interpretato bene il tuo concetto. Bada anche a questo, che io non conservo nulla, e tutto quello che ti mando è scritto sulla carta che ricevi. Credo bene, che tu tornerai a copiare di tuo carattere per consegnare poi alla stampa il tuo lavoro. Io ti manderò prestissimo altro pezzo del tuo lavoro e credo anche dentro la settimana, o al più tardi al principio dell’altra. Stento anche a leggere il tuo scritto per la minutezza di esso e l’inchiostro un po’ bianco.[60]
E altrove: “ In molti luoghi manca affatto di senso, ed ho dovuto supplire io. Vedi tu se abbia supplito bene”. E ancora: “ Intendo che tu non parli affatto di me. Io non sono un uomo da chiacchiere. Siccome io tratto con te con schietta amicizia, così io desidero che per amicizia non mi nomini affatto”. Questa volta però la nota ritrosia di Ripari a sentir parlare di sé non c’entra; il fatto è che gli appunti stilistici o grammaticali che il solarolese muove allo scritto del collega sono il problema minore: Ripari non è assolutamente d’accordo con la interpretazione che Basile dà degli avvenimenti e, soprattutto, con la descrizione che il collega siciliano fornisce della ferita al piede di Garibaldi, descrizione che contrasta con quella della prima relazione medica del 31 agosto, sottoscritta da tutti i curanti. “In realtà io non so che pensare di te. Io però, perché se do una parola la mantengo, continuo a mandarti il tuo lavoro un po’ corretto, per cui capirai che non intendo mettere per parte mia impedimenti alla tua pubblicazione”[61]. Ripari quindi si dissocia dall’interpretazione che dei fatti dà il Basile, tiene comunque fede all’impegno preso di correggere il manoscritto del collega ma non vuole figurare “complice” di un’esposizione degli avvenimenti di Aspromonte che egli non approva affatto: “Quando si scrive per la stampa bisogna essere coscienziosamente veritieri” , sentenzia in una lettera del 23 agosto[62]; e ancora: “Aspetto […] il rinvio dello scritto di mia mano stimando non dover lasciare prove di avere avuto parte nel tuo lavoro, il quale non consuona al convincimento mio, vi è anzi al tutto contrario. Tu vuoi stampare questo tuo lavoro; e sia; io me ne lavo le mani. Parmi averti detto quello che un amico doveva; non giovano impigli: io non so che dire. Per parte mia credo di avere fatto più di quello che doveva, prestandomi a cosa che la mia coscienza rifiuta. Addio”[63].
Il disaccordo con il punto di vista del collega siciliano è tale che in alcune lettere Ripari consiglia l’amico di rinunciare al suo lavoro perché, pubblicando una versione dei fatti non veritiera, egli potrebbe esporsi alle critiche di Albanese e dei numerosi esperti che hanno visitato Garibaldi e, addirittura, mettere a repentaglio la propria reputazione di medico:
Ora, che andrai stampando la tua storia, ed ostinandoti nel tuo errore? Ogni uomo dell’arte, leggendo le relazioni di Porta, di Nélaton e degli altri, si convincerà che tu asserisci il falso, e che perciò sei in errore. Albanese non può dimandare di meglio per confutarti con ragionamenti e convincerti proprio col fatto, pubblicando la fotografia del piede del Generale, nello stato in cui si trova adesso, dalla quale apparirà con troppa evidenza che la ferita d’ingresso per davanti è alla base del malleolo interno; la incisione mezzo pollice davanti al malleolo esterno. Tu avrai perduto tutto quello che io ho cercato farti guadagnare nella mia Storia, e non resterai che il materiale medicatore del Generale. […] Crederai forse che io ti parli come faccio perché mi rincresce questo tuo disconfessare quanto ho stampato io nella mia storia. Non è per questo certo, né può essere, perché anzi acquisterà maggior valore quel mio scritto. Io ti parlo per il solo tuo vantaggio, e per l’onore tuo, e dell’ambulanza generale. Del resto tutti sono padroni di fare quello che credono, e tanto è vero che ti mando accomodato parte del tuo lavoro, e seguirò a mandartene subito un’altra parte, e così sino alla fine.[64]
Ripari ritorna sull’argomento nella lettera del 27 agosto:
Invece di ostinarti a volere scrivere e stampare una Storia tua della ferita del Generale […] tu avresti dovuto procurare che la mia Storia fosse apparsa più che fosse possibile nell’Isola, perché la figura che fai da quella non sarebbe né sarà mai maggiore per una nuova storia che tu potessi scrivere. Se tu fossi uomo da capirla, avresti compreso che a te non conveniva parlare di te stesso; e della diagnosi, e della cura, etc. Io aveva pensato a tutto per te. Ma pare che tu non abbia inteso nulla. Io aveva data una lezione al Zannetti, che si andava a tutto tuo onore; tu avevi l’attestato del Generale; insomma, non so che potessi desiderare di più. L’Albanese vi era nominato come parte terza, o quarta, e questo avrebbe dovuto bastare a qualunque pretesa. Colla tua storia finiresti a ucciderti affatto. E perciò ti consiglio ad abbandonare al tutto il pensiero. Per questo per altro io non posso impedire la tua volontà, e se vuoi stampare questa tua storia e dare così in mano all’Albanese le armi per combatterti, e per ferirti, tale sia di te. Scrivimi una parola sola, ed io ti manderò tutto il resto che ho in mano del tuo scritto, raggiustato come l’altro. Mi valga però questo mio parlarti schietto, il quale si è della mia natura, il ripeterti che il tuo lavoro ti ucciderà del tutto nel credito come chirurgo. Come può essere che avvenga altrimenti di un uomo che ha medicato tre, quattro volte al giorno, e per mesi, un piede ferito, e che sostiene il falso contro autorità grandissime per merito, e contro il fatto parlante del piede, che può essere visto da tutti?[65]
Abbiamo già accennato alle critiche alle quali Basile si era esposto, lasciando anzitempo Garibaldi a Caprera affidato alle cure del solo Albanese: anche Ripari, a questo proposito, aveva espresso il proprio netto disaccordo sulla scelta del collega e glielo ricorderà nella lettera del 27 agosto: “Tu hai voluto lasciare Caprera quantunque io ti dicessi che non ti conveniva, e so che altri ti ha tenuto lo stesso linguaggio. Adesso raccogli quello che hai seminato. A me duole assai: io ho fatto di tutto per sostenerti, e tu non hai fabbricato che la tua rovina”[66]. Ma di fronte alle velenose accuse che Albanese aveva pubblicato sui giornali (“Il Dr. Basile dica ciò che crede di meglio nel suo interesse, fa il suo dovere – il mio sarebbe quello di evitare le conseguenze del suo mentire – che mentre fa ritenere inutile ogni mia dimora qui, mi rende responsabile di quanto possa accadere al Generale, che lui dice guarito, mentre ancora non lo è”), Ripari non lascia solo il giovane collega al quale, nonostante i disaccordi, è legato da sincera amicizia (firma le lettere a lui indirizzate “il tuo Ripari”). Ne è testimonianza un foglio di taccuino, conservato nel citato carteggio e datato 19 febbraio 1863, non firmato ma vergato con la fitta, minuta e inconfondibile calligrafia del medico cremonese, nel quale Ripari suggerisce a Basile le argomentazioni atte a confutare le critiche di Albanese; lettera che Basile riporterà tal quale a firma sua alle pagine 28-30 della sua Storia della ferita del Generale Garibaldi, come risposta al dottor Albanese “perché la storia suggelli i fatti”:
Fui in dubbio insino ad ora, se io dovessi o no rispondere qualche parola alla lettera del Dr. Albanese in data 1 Feb. 63 inserita nei giornali il Movimento e il Diritto. Le polemiche sono sempre odiose, e da queste, quanti altri mai abborro io.
Ma vari amici, mi convinsero, essere mio dovere dire qualche cosa affinché non appaja che io abbandonassi il Generale Garibaldi in condizioni fisiche tali da poter far supporre in me ignoranza non sensibile d’arte, ciò che sarebbe pressoché una colpa avuto riguardo alla infinita importanza del ferito.
Io lasciai il generale, convinto che egli fosse entrato in piena e perfetta convalescenza. La scuola palermitana insegna, che quando le tre grandi cavità del corpo umano sono in istato fisiologico normale, l’individuo ferito è convalescente, quantunque una ferita resti tutt’ora aperta e prosegua per un tempo indeterminato in un periodo di eliminazione qualsiasi. Esempi troppo noti abbiamo, e viventi, di questa verità. Il generale Türr emetteva per due anni schegge ossee dalla sua ferita e ciò non ostante fece la campagna del 60; il Generale Carini, per due anni egualmente mandò fuori dal suo braccio offeso frantumi d’osso, e la generalità in lui funzionava normalmente. Fu lo stesso del bravo colonnello Cairoli il quale anche addesso si leva da sé pezzetti d’osso dalla piaga ed aiutandosi colla gruccia frequenta il Parlamento del quale è deputato, si reca in città lontane per i mitting. Ora, domando io, quale criterio medico chirurgico può escludere lo stato di perfetta convalescenza nei Sig.ri Türr Cairoli e Carini? Quale lo potrebbe adunque nel Generale Garibaldi il quale fino dal 16 gennaio camminava egli pure colla gruccia nel quale sino d’allora e prima, le tre grandi cavità erano in perfetto stato normale?Sostengo quindi ancora che la mano chirurgica non ha più niente a fare nella ferita del Generale Garibaldi dato anche che il processo di eliminazione non sia ancora terminato, né sia per terminarsi presto, e che la medicatura giornaliera può essere fatta anche da persona non dell’arte.
Né con questo intendo menomamente mettere in dubbio che il Dr. Albanese faccia opera più che onesta continuando a prestare la sua cura al grande e illustre ferito, solo è nel mio interesse, quale chirurgo far comprendere e stabilire che io lasciai il Generale, quando apunto l’arte non era più per lui assolutamente necessaria.
Le eventuali possibili complicazioni morbose, potendo essere di tutte le forme, potranno diventare prova maggiore della convenienza che il Dr. Albanese resti infino a che gli paja presso l’illustre ferito, ma non altereranno in nulla il fatto che la ferita del Generale non reclami, né reclamasse da tempo l’opera di mano chirurgica.
Ma torniamo ora alla Storia Medica di Ripari: a Milano (dove soggiornerà fino al maggio del 1863 per trasferirsi poi nuovamente a Genova nel giugno) il medico solarolese lavora assiduamente alla stesura della sua storia medica della ferita; già durante il soggiorno pisano aveva concepito l’idea di dare alle stampe un approfondito lavoro sui fatti di Aspromonte, e ne aveva dato notizia allo Zannetti in una lettera del 6 dicembre: “Il mio lavoro sulla ferita di Garibaldi non sarà solo scientifico, ma politico, e storico, per cui devo dir tutto. Io ho difeso e sistemati i miei chirurghi e ho allontanato quelli che se avessi accettato sarebbe stato a danno di Albanese e Basile. È sempre stato un mio sistema proteggere i giovani dipendenti da me […]. Ma un’immoralità qualunque non lascerò impunita”.[67] La stesura dell’opera lo impegna molto, come comunica al collega Basile il 14 aprile 1863 :” Il lavoro mio è assai voluminoso e non sarà così presto stampato”[68], e gli promette di inviargli in anteprima “[…] le parti che più potranno interessarti, perché trattanti di te”[69]. Nella tarda primavera del ’63 il lavoro è pronto: viene pubblicato con il titolo Storia Medica della grave ferita toccata in Aspromonte dal Generale Garibaldi il giorno 29 agosto 1862, e posto in vendita al prezzo di 2 franchi a copia. Ripari, soddisfatto, ne dà notizia al Basile comunicandogli di averne inviato una copia in omaggio al celebre professore d’anatomia topografica Giovanni Gorgone (del quale fu aiuto l’Albanese) dell’amicizia del quale il medico cremonese si onora. Comunica poi al Basile di avergli inviato 100 copie dell’opera, perché la diffonda e la faccia conoscere in Sicilia: “[…] il danaro che ne caverai lo manderai allo stesso Daelli editore del Politecnico in Milano. Io non ho venduto il mio lavoro, ma lascio fare tutto al Daelli il quale mi darà poi i conti”[70].
Riferisce al collega le recensioni lusinghiere che del lavoro hanno dato il Guerrazzi, il giornale “il Diritto” e l’Accademia Fisio-medico - statistica di Milano, che ha giudicato il libro di Ripari un’opera “preziosa per verità storica, e pei nobili e forti sentimenti dell’Autore”[71]. In effetti, rispetto agli altri lavori sullo stesso argomento pubblicati da Basile e da Albanese, l’opera di Ripari è quella più ricca di particolari e di documenti, riportando integralmente le relazioni dei vari consulenti che si sono avvicendati al capezzale di Garibaldi e i verbali dei numerosi consulti. Ancora oggi, insieme ai bollettini medici emessi regolarmente dai tre curanti e alle numerose corrispondenze inviate principalmente al professor Zannetti di Firenze, la relazione del medico cremonese rappresenta la principale e più approfondita fonte d’informazioni sulla quale si basano i non pochi studi di critica medica della ferita, pubblicati anche in anni recenti[72].
Il lavoro di Ripari conobbe una certa diffusione anche all’estero, soprattutto in Inghilterra dove la salute del Generale era seguita con particolare apprensione. In occasione del trionfale viaggio a Londra di Garibaldi (aprile 1864) la Storia Medica di Ripari fu presentata dal professor Partridge a una sessione del Royal College of Surgeons, mentre la prestigiosa rivista medica The Lancet, nel numero del 23 aprile 1864, dedicò un’ampia recensione ai lavori di Ripari e di Basile[73].
Come aveva preannunciato a Zannetti, il medico cremonese vuole rivolgere la propria attenzione non solo all’aspetto scientifico, ma anche politico e storico dei fatti: fa quindi precedere il suo lavoro da una lunga, approfondita e polemica analisi della situazione italiana ed internazionale. E quell’ immoralità che, parlando dei suoi giovani collaboratori, promette di non lasciare impunita, non può che riferirsi al supposto censurabile comportamento dell’Ambulanza: Ripari, anche nella sua Storia Medica, continuerà pervicacemente a sostenere, contro ogni testimonianza compresa quella di Garibaldi, che i suoi chirurghi si presentarono solo dopo mezz’ora la fine dello scontro. Ancora una volta Albanese si sente chiamato in causa, e in seguito alla pubblicazione del lavoro del suo capo-medico, da Caprera il 1° luglio 1863 gli scrive una lettera che, pur nella sua garbatezza e nel tono accomodante, lascia ancora una volta trapelare la delusione e il risentimento per l’ ingiusto addebito: “Ella ha pubblicato una storia sulla ferita del Generale Garibaldi e, riportando alcuni fatti che alla stessa si riferiscono, li ha narrati in modo da imprimere una macchia sulla condotta dell’Ambulanza da Lei comandata in Aspromonte. Io non starò a rilevare minutamente tutto quanto ci sarebbe da osservare sul Suo scritto, ma non posso fare a meno, per l’onore del corpo a cui appartenevo, di richiamare alla Sua memoria talune circostanze per rettificare le sue frasi sulla fuga dell’ambulanza appena cominciato il fuoco; sulla fuga della persona da Lei incaricata di vigilare il tutto; e sulla condotta dei medici Albanese e Basile, che arrivarono dal Generale mezz’ora dopo cessato il fuoco e dopo essere stati cercati e chiamati. […] Pure mi rivolgo a Lei con la parola franca, per come si addice a chi narra il vero, persuaso che Ella, coi Suoi sentimenti di onestà e di rettitudine, accetterà di buon grado un’amichevole rettifica sopra i fatti di cui conservo sicura memoria”[74]. Dopo aver rievocato i fatti così come a sua “sicura memoria” si sono svolti, Albanese conclude la lettera al collega cremonese: “Tutto questo potrei documentarlo, per come Le ho già accennato, con le più valide e formali testimonianze, e potrei appellarmi alla Sua stessa coscienza, se Ella quel giorno non fosse stato in preda ad una violenta febbre che minacciava la Sua stessa esistenza e che aveva fatto di Lei un fantasma. Io spero pur nondimeno che Ella vorrà ridare all’Ambulanza Generale l’onore che, non so per qual fatalità, con la Sua Storia sulla ferita del Generale le ha voluto togliere. Le mie osservazioni non sono dettate da nessuno spirito di opposizione; esse sono informate alla verità. […] Accolga queste mie parole, ne pubblichi Ella stessa quella parte che crede opportuna, a rettificare il Suo esposto, - che discostandosi dalla verità, attacca l’onore di un corpo tutto, immeritatamente. Da parte mia io non moverò per come Le ho detto lamento alcuno – a me basta la coscienza di aver adempiuto al mio dovere”[75].
Tono meno garbato e meno accomodante, e forse più consono ai suoi reali sentimenti nei confronti di Ripari, Albanese terrà in una lettera, sempre da Caprera, indirizzata al professor Zannetti il 7 luglio: “A quest’ora avrà letto la celebre Storia del Ripari: io non ho mai visto cloaca simile, pare quasi impossibile. Ne parlai col Generale appositamente, perché vi erano certe cose che bisognava sentire l’opinione sua, massime quando asseriva che l’Ambulanza fuggiva appena cominciato il fuoco e che io mi presentava al Generale dopo chiamato e cercato mezz’ora dopo cessato il fuoco. Ciò è una infamia, una vile calunnia”[76].
Il voto di Albanese, di “non aver più niente a che fare” con Ripari, non fu esaudito: i tre medici si ritrovarono nel corpo di Stato Maggiore garibaldino nella campagna del 1866 in Trentino, e l’anno dopo nel tentativo di spedizione su Roma che si infranse a Mentana. Ma a quest’ultimo appuntamento mancò Basile: il medico siciliano, che nel maggio del 1867 si trovava a Caprera in visita a Garibaldi, venne a conoscenza dell’epidemia di colera che si era diffusa a Palermo e in altre zone della Sicilia. Rientrato in tutta fretta a Siculiana per assistere i compaesani e in particolare i fratelli Onofrio, sacerdote, e Luigi, farmacista, colpiti dall’infezione, contrasse egli pure il morbo e ne morì il 16 giugno 1867 a soli 37 anni. Al medico garibaldino, che per primo intuì l’esatta natura della ferita al piede del suo Generale, come a tante altre vittime dell’epidemia non fu risparmiato l’anonimato di una fossa comune.[77]
NOTE
[1] Scirocco, A. Garibaldi: battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Laterza, 2001, pag. 271.
[2] Archivio Museo Risorgimento di Milano, Fondo Curatolo, 15911, lettera inedita.
[3] Atti del Parlamento Italiano, Sessione del 1861, 2° periodo dal 20 novembre 1861 al 12 aprile 1862, VIII Legislatura, vol. III, Torino, Eredi Botta, 1862, pag. 576.
[4] Ripari, P. Storia medica della grave ferita toccata in Aspromonte dal Generale Garibaldi il giorno 29 agosto 1862, Tipografia di Gaetano Bozza, Milano, 1863.
[5] In realtà non aveva ancora compiuto 59 anni, come non è vero che viveva a Milano, bensì a Genova.
[6] Atti del Parlamento Italiano, cit, pag. 1271.
[7] Ibidem, pag. 1273.
[8] Archivio Museo Risorgimento di Milano, Fondo Curatolo, 15911, lettera inedita.
[9] Mola, A.A., Polo Friz, L. : I primi vent’anni di Giuseppe Garibaldi in Massoneria (1844- 1864) Estratti della Nuova Antologia, Fasc. 2143, luglio –settembre 1982, Le Monnier
[10] Scirocco, Alfonso – Garibaldi: battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo – G. Laterza& Figli, 2001
[11] Museo Centrale del Risorgimento, Roma, Busta 96-1
[12] Basile e Albanese erano già stati validi e fidati collaboratori di Ripari nella precedente campagna del 1860; riteniamo interessante riportare i lusinghieri curricula che dei due colleghi il medico solarolese presenta nella sua Storia Medica (pagg. 49-51). Di Basile dice: “Esciva egli di Palermo il 15 maggio 1860, colla missione del comitato segreto di far raccogliere tutte le squadre in armi nei d’intorni della città stessa. Il 16 raggiungeva il Generale a Partenico ove medicò i feriti di quel giorno. L’ambulanza generale era rimasta a Vita pei molti feriti di Calatafimi. Il dottor Basile amputava il braccio sinistro al suo terzo inferiore a certo Salvatore Gatti di Partenico, tutt’ora vivo. Incontratomi col Basile a Renna, ebbi l’ordine dal Generale di impiegarlo come chirurgo. Entrando noi in Palermo, medicò feriti, ed estrasse la palla dal piede di Giorgio Manin, e l’ebbe in cura di poi. Abbandonata a Palermo la Ambulanza generale dal dottor Cesare Boldrini vice-capo e dal dottor Francesco Ziliani, primo chirurgo della stessa, il giovane dottor Cipolla prese il posto di Boldrini, di Ziliani il dottor Basile. Il 18 luglio io spediva da Palermo a Milazzo il dottor Cipolla, e il dottor Basile, e il dottor Giliberti, ed i farmacisti dottor Paolo Papa speziale-capo e Cassinelli, restando io col grosso della ambulanza agli ordini del generale Sirtori. La presa di Milazzo costò molto sangue. Cento cinquanta feriti furono raccolti nel convento dei Carmelitani dal dottor Basile eretto ad ospedale da lui; e del quale ebbe la direzione tecnica, e dove fece la resezione parziale della mascella inferiore. […] Tornando al dottor Basile il 26 settembre amputò in campo a S. Angelo la gamba sinistra al terzo inferiore a certo dottor Angelo De Paoli milite nella divisione Türr con esito felice. Nello Spedale succursale di S. Maria di Capua ebbe due sale. Vi amputò al terzo medio della coscia destra Pasquale Masella, soldato borbonico, e guarì. Al terzo inferiore della gamba destra, pure con esito felice, Luigi Vasirano di Reggio, tenente del battaglione Palizzolo, brigata Milbitz. Alla metà della coscia sinistra Giuseppe Scaglia, soldato del primo reggimento. Chiesta in ottobre del 1860 la sua dimissione, il dottor Basile declinò la nomina di chirurgo divisionale da me conferitagli”. E riguardo ad Albanese: “Dandosi opera alacremente in Palermo alla formazione dell’esercito meridionale, parve a me, che alla prima divisione fosse da destinare a chirurgo-capo un siciliano, affinché il paese andasse convinto che noi della prima spedizione di Marsala non pensavamo a pigliarci i migliori posti, né i più grossi salari. Per il che rivoltomi al più grande chirurgo dell’isola , il professore Gorgone, lo pregai di mandarmi un giovane il quale rispondesse alla scopo, e quel chiarissimo professore fu cortese di spedirmi il dottor Enrico Albanese di Palermo. Proseguendo la ambulanza generale per Messina, dopo al presa di Milazzo il dottor Albanese ebbe a dirigere lo spedale militare della stessa Milazzo; fino a che concentratine i feriti in Barcellona passò con essi a chirurgo divisionale in uno dei molti spedali di quella città, sotto la direzione del professore Stradivari, il quale trovò sempre lodevole l’operato del dottor Albanese, che si prestò pur sempre con zelo e sapienza d’arte, ed alacrità non comune, alla direzione d’altri spedali, sino al tempo, nel quale fatta passare a Torino la ambulanza generale, egli diede le sue dimessioni [sic] alquanti mesi dopo il nostro arrivo in quella capitale. – Ritornato in patria vi lesse pubbliche relazioni d’anatomia regionale, per qualche tempo.
[13] Corrispondenza inviata a “Il Diritto” n° 251 di mercoledì 10 settembre 1862.
[14] Il Diritto, N° 251, Mercoledì 10 settembre 1862.
[15] Ripari, P. Storia medica della grave ferita toccata in Aspromonte al General e Garibaldi, Milano, Tip. Bozza, 1863. pag. 36.
[16] Ripari, P. cit. pag. 37.
[17] Ripari, P. cit. ibidem.
[18] Ripari, P. cit. ibidem.
[19] Ripari, P. cit. pag. 9.
[20] Ripari, P. ibidem.
[21] Ripari, P. cit. pagg. 38-39.
[22] Ripari, P. cit. pag. 39.
[23] Ripari, P. cit. pag. 41.
[24] Ripari, P. cit. pag. 41-42: Relazione Medica compilata il 31 agosto 1862 a bordo della pirofregata il Duca di Genova da noi sottoscritti dottor Pietro Ripari capo-medico, dottore Enrico Albanese, già chirurgo divisionale nell’esercito meridionale, dottor Giuseppe Basile, già primo chirurgo nella ambulanza generale stesso anno, tutti appartenenti alla ambulanza generale del generale Garibaldi.
“Il generale Garibaldi, mentre percorreva la fronte dei volontari, ordinando a tutti di non far fuoco, toccava ad un tratto il 29 agosto 1862, verso le 4 pomeridiane, due ferite, dai primi colpi di fuoco delle truppe regolari di Aspromonte. L’una strisciante appena, gli denudava i comuni tegumenti alla coscia sinistra in vicinanza del gran trocantere, e di nessuna importanza. L’altra grave al collo del piede destro, della quale ecco la descrizione. La palla è penetrata a tre linee al di sopra e al davanti del malleolo interno; la ferita ha una figura triangolare a lembi lacero contusi del diametro di mezzo pollice circa. Alla parte opposta, mezzo pollice circa al davanti del malleolo esterno, si avverte un gonfiore che sotto al tatto è resistente. Si dubita che la palla sia in questo luogo incastrata: vi è argomento a credere che la palla abbia corso al di sopra dell’articolazione tibio-tarsica, sotto il ligamento annulare anteriore. La resistenza e la gonfiezza al davanti del malleolo esterno sono tanto sentite, che l’Albanese, sino ancora sul campo, praticò un’incisione per la estrazione del proiettile, estrazione che fu trovato sano consiglio rimettere al secondo tempo, e dalla resistenza fattasi più oscura, dopo il taglio dei comuni tegumenti, e dalla mitezza della alterazione locale. Lo specillo, arrestato nella ferita da una resistenza scabrosa, fa supporre delle scheggie ossee che non si accertano però chiaramente. Il piede non è gonfio, ed ha una temperatura normale; solo il collo del piede è un poco tumido; dalla ferita geme un icore sanguinolento. Il ferito ha polsi normali, e mangia con molto appetito, dorme molte ore a riprese. La località sino dal primo momento sul campo stesso venne trattata con imbroccazioni d’acqua fredda che si continuarono sino alla mezzanotte, e che vennero poscia sostituite dalle bagnature fredde (alle capanne del pastore Vincenzo) e dalla applicazione di ghiaccio (sulla pirofregata il Duca di Genova). Tenuto presente la mitezza dei sintomi locali e generali, saremmo tentati pronunciare una prognosi felice; se non che, ignorando tuttora il tragitto della palla, i guasti che possono essere avvenuti nella articolazione tibio-tarsica, ed il preciso luogo dove il proiettile si trova, crediamo prudente ora pronunciare un giudizio dubbio”.
Dott. Pietro Ripari, Dott, Enrico Albanese, Dott. Giuseppe Basile.
[25] Ripari, P. cit. pag. 48: 1 settembre 1862, ore 5 ¼ p. A bordo della pirofregata il duca di Genova. Noi qui sottoscritti dottori, nel dovere di tutelare la salute del generale Garibaldi gravemente ferito al piede, protestiamo altamente contro la misura adottata di far rimanere fino a domani il Generale a bordo, mentre pria di ora avrebbesi dovuto ordinarsene lo sbarco, essendo qui arrivati già da quattro ore. Sulla considerazione che il letto dove trovasi attualmente è per tutti i riguardi scomodissimo, dove non può trovare una posizione che gli renda meno penoso il suo stato, in un locale anche privo d’aria, dove soffre tutti i disagi di bordo; credendo indispensabile che il Generale non rimanga più oltre a bordo e che venga sbarcato avanti notte: dichiariamo barbara ed inumana questa misura che vieta ad un ferito il sollievo che non dovrebbesi negare a nessuno. Dott. Pietro Ripari, Dott, Enrico Albanese, Dott. Giuseppe Basile.
[26] Ripari, P. cit. pag. 45.
[27] Ripari, P. cit. pagg. 44-45.
[28] Ripari, P. cit. pag. 61. Caprera, 22 gennaio 1863 Mio caro Basile, Voi aveste di me cura affettuosa di figlio, oltre a essere mio speciale curante, dotato di mano leggera e benefica in qualunque vostra pratica operazione. Voi fin dal principio e durante la cura, sosteneste sempre fermamente essere il proiettile dentro la ferita, e precisamente in corrispondenza della incisione fatta in Aspromonte dal vostro amico dott. Albanese. Voi accertaste che l’articolazione tibio-tarsica non era lesa e fin dal 19 settembre 62, al Varignano, proponeste la spugna preparata per dilatare il tramite della ferita, per passare all’estrazione della palla. In fine dal momento in cui fui ferito, sino a questo di quasi completa guarigione, voi mi avete assistito così caramente da trovarmi nella impossibilità di esprimere tutta la mia gratitudine. Vogliate gradire queste parole dal cuore riconoscente del Vostro per la vita G. Garibaldi.
[29] Cavina, Giovanni: La ferita di Garibaldi ad Aspromonte e gli specilli di Nélaton, Estratto dal bollettino mensile dell’Ordine dei Medici di Firenze e Provincia, Anno II, Giugno- Agosto 1948, pag. 3.
[30] Ibidem, pagg. 3-4.
[31] Scrive Prandina a Zannetti, in data 27 settembre 1862 da La Spezia :”[…] Albanese, il buon Albanese, che è un vero angelo, è trascinato a credere, ma non crede fermamente. Ripari è un essere incomprensibile in giudizio. Ottima persona, adoratore del Generale, capace di qualsiasi sacrificio: ma non Chirurgo. Basile, il solo Basile, tempesta che ci sia la palla, che bisogna cavar la palla, che bisogna esplorare, cercare, tagliare. Pazienza, questi suoi sentimenti li tenesse pere sé,ma ne fa parola al Generale e lo mette di malumore. Adesso si è ficcato in testa di mettere l’unguento Basilico al malleolo esterno per assottigliare i tessuti e quindi incidere. Come se un corpo estraneo se fosse sotto la pelle potesse farsi strada per l’unguento!” Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, Documenti e lettere inedite a Ferdinando Zannetti, a cura di Gabriele Paolini, ediz. Polistampa, Firenze, 2004, pagg. 93-94. E Ripari, con lettera a Basile in data 23 agosto 1863: “Perché parli di misterioso intrigo riguardo al ritardo del Movimento a stampare la tua lettera al Porta, quando sai che sono stato io a pregare il Movimento a non stamparla? Sono un uomo d’intrighi? Io ho sempre creduto che tu la mandassi privatamente al Porta, e non mai che intendessi mandarla ad un giornale. Perciò stimando fosse male che venisse pubblicata, scrissi perché non lo fosse. E non vi furono intrighi, e molto meno misteriosi.” Lettera di P.Ripari a G. Basile, 23 agosto 1863, Archivio Privato.
[32] Lettera non datata di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, Archivio Privato.
[33] Sul numero 276 di domenica 5 ottobre 1862 de Il Diritto Ripari fece pubblicare una lettera che a nome suo e dei colleghi Basile e Albanese inviò a Partridge, per ringraziarlo del consulto:” […] A nome quindi dei due altri curanti l’immortale ferito, prof. Albanese e dott. Basile, e del socio alla cura, Prof. Prandina, io qui vi prego di averci tutti a voi legati di singolare e imperitura gratitudine, gratitudine che si estende calda, doverosa, e che non sarà mai per venir meno in noi anche all’intero generoso popolo inglese”.
[34] In seguito all’amnistia del 5 ottobre, Garibaldi e i suoi compagni (tra cui i tre curanti) vengono liberati e possono trasferirsi a La Spezia nel più confortevole Hotel Milano. Ripari non accetterà mai di considerarsi un “amnistiato”: al ricevimento del provvedimento di grazia, consegnatogli al Varignano alle nove e mezza di sera del 5 ottobre 1862, scriverà: “ Rispetto il Re d’Italia, quale capo della Nazione Italiana, perché onoro in lui la nazione che lo ha acclamato suo re, ad unanimità di voti, e perché rispetto in lui me stesso, individuo qual sono della nazione medesima. Al signor Rattazzi, il quale pubblica il decreto sottoscritto da lui, mi permetto osservare. Non mi sento né sono ribelle. Ribelle è chi, congiurando secreto, o con armi aperte nostrali o straniere, tende a rovesciare il governo di casa propria o d’altrui. Io sono uno dei mille che nel 60 compierono l’audace impresa di Marsala, per i quali, duce il più onesto, il più santo, il più forte petto italiano, col programma – Italia una e Vittorio Emanuele – Palermo e Napoli sono entrate a far parte della costituzionale famiglia italiana […]. Perché ribelle adesso e non allora? […] Il decreto del 3 agosto vi dichiarava ribelli se non posavate le armi. Al re la stessa onoranza per quel decreto come per tutti gli altri, e per le stesse ragioni; ma per la nazione, pei ministri, per me, non mi sento né sono ribelle. Dottor PIETRO RIPARI”. (Ripari, P.: Storia medica, cit, pagg. 30-31).
[35] Il referto originale del consulto è conservato alla Biblioteca della Società Siciliana per la Storia Patria, a Palermo, Carpetta 27, Fascicolo N° 30.
[36] Ripari, P. cit, pag. 90.
[37] Relazione clinica pubblicata su La Presse Médicale Belge, N° 47, 9 novembre 1862, pag. 380.
[38] Basile, G.: Storia della ferita del Generale Garibaldi toccata il 29 agosto 1862 in Aspromonte, Dall’Ufficio Tipografico del Giornale “Il Commercio”, Palermo, 1863, pag. 51.
[39] Michelangelo Asson (Verona 1802-Venezia 1877) fu professore di anatomia all'Accademia e quindi professore di clinica chirurgica nella Scuola medica di Venezia. Operatore fra i più celebri del suo tempo, lasciò più di cento lavori d'argomento medico e chirurgico e in parte anche letterario.
[40] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pagg. 111-112.
[41] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pag. 125.
[42] Ripari, P.: cit. pag. 94.
[43] Ripari, P.: ibidem.
[44] Ripari, P. ibidem.
[45] Ripari, P. cit. pag. 124, note 1 e 2. - (1) Il peso del proiettile estratto dal piede del generale Garibaldi , e da me trovato di 22 grammi e mezzo, potei stabilire in questo modo. L'ottimo e distinto giovane dottor Manzoni di Pisa, ebbe il permesso dai famigliari del Generale di farne cavare da distinti artisti, la forma in piombo. Il dottor Manzoni fu tanto gentile di dare a me , ed al dottor Basile il gesso fatto col proiettile estratto. Con questo gesso potei in Milano far rifare in piombo pure il proiettile come si vede nelle figure VI e VII, rispondente necessariamente alla forma, e peso preciso del proiettile estratto.
(2) Mi pare di potere affermare che la palla entrata nel piede del Generale , non fosse che la metà di una grossa palla da bersagliere per queste ragioni. - 1.º Che il proiettile estratto mostri evidentemente non solo di
essere cambiato nella forma , ma anche di non essere intero - 2.º Che nella sua forma assunta figura VI e VII, conservi molta somiglianza con la intera palla da bersagliere, e assai più con la sua metà. ( V. Fig. V ,VI e VII. ) 3.º che pesata a bilancia di orefice pesi la metà precisa di una palla da bersagliere la quale intera pesa appunto 45 grammi
[46] Petacco,Arrigo e Ferrari, Marco: Ho sparato a Garibaldi. La storia inedita di Luigi Ferrari, il feritore dell'eroe dei Due Mondi Le Scie, Mondadori, 2016. Luigi Ferrari era a capo di uno dei sei battaglioni di bersaglieri inviati a braccare le truppe garibaldine e rimase ferito anche lui, subendo l’amputazione del piede, Fu l’unico a meritarsi una medaglia d’oro, datagli con la seguente motivazione: “Adempì all'amaro compito di comunque fermare il generale Garibaldi in marcia verso Roma. Aspromonte, 29 agosto 1862”. In realtà, gli ufficiali dei Bersaglieri avevano come armamento personale solo la sciabola, sicché sembra logico pensare che la medaglia gli fu data non per aver sparato personalmente il colpo, ma per essersi trovato a capo di quelli che spararono e che, quali subordinati, ricevettero onorificenze minori.
[47] Basile G. Storia della Ferita del Generale Garibaldi toccata il 29 agosto 1862 in Aspromonte compilata dal Dottor Giuseppe Basile. 1863 Dell’Ufficio Tip. del giornale Il Commercio. Palermo.
[48] Ripari, P. cit. pag 123.
[49] Ripari, P. cit. pag 122.
[50] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pag. 139.
[51] La Presse Médicale Belge, N°51, 7 dicembre 1862, pag.412.
[52] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pag. 143.
[53] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pagg. 158-159.
[54] Lettera di E. Albanese a F. Zannetti, 24 dicembre 1862, Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pag. 143.
[55] Basile, G.: Storia della ferita del Generale Garibaldi toccata il 29 agosto 1862 in Aspromonte, Dall’Ufficio Tipografico del Giornale “Il Commercio”, Palermo, 1863, pag. 28.
[56] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pag.146.
[57] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pag. 148.
[58] Basile, G.: Storia della ferita del Generale Garibaldi toccata il 29 agosto 1862 in Aspromonte, Dall’Ufficio Tipografico del Giornale “Il Commercio”, Palermo, 1863, pagg. 28-30.
[59] Questo carteggio, fortuitamente ritrovato alcuni anni fa dai discendenti del Dott. Basile occultato in una masseria di loro proprietà, consta di 8 lettere autografe del dottor Ripari al collega siciliano (mancano purtroppo le lettere di Basile) e di un foglio di annotazioni, raccolti in una carpetta titolata “Lettere del Dr. Ripari – provano la parte che lui ebbe di nascosto nel lavoro di Basile – Storia della ferita del Generale Garibaldi”. Le lettere sono datate dal 14 aprile 1863 al 23 giugno 1864, e dimostrano come il Ripari sia stato prodigo di consigli (ma soprattutto di critiche) al collega impegnato nella stesura del suo lavoro. Siamo profondamente grati agli eredi del dottor Giuseppe Basile, proprietari del carteggio, per averci messo generosamente a disposizione copia dei documenti per la trascrizione e lo studio.
[60] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, 19 agosto 1863, Archivio Privato.
[61] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, senza data, Archivio Privato.
[62] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, 23 agosto 1863, Archivio Privato.
[63] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, senza data, Archivio Privato.
[64] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, 19 agosto 1863, Archivio Privato.
[65] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, 27 agosto 1863, Archivio Privato.
[66] Ibidem.
[67] Rip. In La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit., pagg. 139-140.
[68] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, Milano, 14 aprile 1863, Archivio Privato.
[69] Ibidem
[70] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, Genova, 13 giugno 1863, Archivio Privato.
[71] Lettera inedita di Pietro Ripari a Giuseppe Basile, 4 luglio 1863, Archivio Privato.
[72] V. ad es. La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit. e Garibaldi and the surgeons, Journal of the Royal Society of Medicine, Vol. 94, May 2001, Sabbatani, Sergio Le ferite di Garibaldi, Le infezioni in Medicina, n° 4, pagg 274-287, 2010.
[73] The Lancet, vol. I, 1864, pagg. 467-69.
[74] Albanese, E. La ferita di Garibaldi ad Aspromonte Diario inedito della cura, Remo Sandron Editore, 1907, pagg. 141-142.
[75] Ibidem, pagg.147-148.
[76] La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, cit. pag.158.
[77] Sulla casa di Siculiana (AG) dove nacque e visse il dottor Giuseppe Basile (oggi trasformata in albergo) il 29 agosto 2010, anniversario dello scontro di Aspromonte, venne inaugurata la seguente targa commemorativa:
IN QUESTA ANTICA DIMORA
VIDE I NATALI NEL 1830
FUNESTATI NEL 1867 A SOLO 37 ANNI
IL PRODE CHIRURGO DEI MILLE
DOTT. GIUSEPPE BASILE
COMPONENTE DEL COMITATO SEGRETO RIVOLUZIONARIO
DI PALERMO NEL 1860
MEDICO DELLA FALANGE GARIBALDINA
INTERVENNE CON ESPERTISSIMA TECNICA PROFESSIONALE
ALLA ESTRAZIONE DEL PROIETTILE
DAL PIEDE DEL GENERALE GIUSEPPE GARIBALDI
FERITO SULL’ASPROMONTE IL 29 AGOSTO 1862
AL GRIDO DI “ROMA O MORTE”
SOSTENNE FERMAMENTE LA PRESENZA DELLA PALLA
NEL SITO LACERATO
AVVERSO I PARERI DEI PIU’ GRANDI LUMINARI
DELLA SCIENZA MEDICA DI QUEL TEMPO
CURO’ GIORGIO MANIN E NINO BIXIO
LAVORANDO DI BISTURI E FUCILE
DECORATO DI MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE
LA SUA VITA FU UN APOSTOLATO CHE NON TEME CONFRONTI
NELL’IMMINENTE RICORRENZA DEL 150° ANNIVERSARIO
DELL’UNITA’ D’ITALIA
RICORDANDO OGGI I 148 ANNI DEL FATTO STORICO
D’ASPROMONTE
GLI EREDI PRONIPOTI AVVOCATO LUIGI CON I FIGLI
GIUSEPPE SILVIO E MANLIO
VOLLERO