Durante l'estate del 2018 l' Autore completa la Trilogia con il romanzo "Ritorno" (in un primo tempo intitolato "Ritorno all'Ombelico del mondo"). Si firma come Patrick DG Stefanini.

Il romanzo conclusivo della Trilogia viene presentato nella Sala dei Lombi di Giglio Castello sabato 15 giugno 2019. Con l'Autore, il Sindaco Sergio Ortelli, il presidente del Circolo Culturale dott. Armando Schiaffino, i signori Benucci e Gera in rappresentanza dello sponsor dell'evento.

INDICE

Parte prima: La confraternita dei Lacerocontusi

Gatto colli orecchi

Quattro amici al bar

La dura legge della motosega

Stelle e conigli

L’acqua fa male, il vino fa cantare

Rito di passaggio

Funerale marino

Samba pa ti

Nuove rotte

Dopo il diluvio

Laceri e contusi

Parte seconda: Cronache di Omphalòs

Ali spezzate

Annus mirabilis

Onda cult

Cannelle no TAV

¡No pasaràn!

Restauri e brontosauri

Per un pugno di decibel

La mossa dello struzzo

Quasi routine

Brevi di cronaca

Teatro sì, teatro no

Quella notte di ordinario eroismo

Capitolo di preti e sagrestani

Great Expectations

Parte terza: Eclissi di Giglio

Patrick quasi turista al Giglio

Perché non lo scrivi tu?

De (s)profundis

Mi allontanai per saperti meglio

Trilogia

Tutti insieme appassionatamente

Questione di Maiuscole

Grande scena a braccio

Epilogo

Appendice: I luoghi gigliesi della Trilogia

Postfazione: Un’intervista

INIZIO

Nel vialetto alberato che conduce al piccolo cimitero di Giglio Castello i cipressi secolari, in una purissima giornata di sole, proiettano ombre nitide sull’asfalto a tratti screpolato. Su quella specie di scacchiera saltellano una mezza dozzina di ragazzetti, scambiandosi insulti fantasiosi e affilati.

«Adesso ve lo faccio vedere io, se ce la faccio o no!»

Risate unte, spintoni. Un rosso lentigginoso proietta uno sputo denso, striato di rosso pure lui, oltre l’inferriata del camposanto.

«Uh, ti conviene faccela, assinnò ti si mette a pecorina e un se ne parla più».

E tutti gli altri, a squarciagola all’unisono: «Pece! Pece!»

Nel senso di Pece Romana: tipica penitenza prepuberale gigliese consistente nello strofinare fortissimo, con il pugno chiuso, il cuoio capelluto della vittima di turno.

E: «Morso! Morso!»

Nel senso di Morso dell’Asino: un pizzicotto particolarmente doloroso, praticato sul muscolo della coscia, appena sotto i glutei, con le due mani intrecciate a mo’ di schiaccianoci.

«Eh, che sarà mai, dire quella roba lì; mi sembrate davvero tutti matti».

«Faccelo vedé, allora, pischello. Poche storie».

Il ragazzino si avvicina al cancello, voltandosi ad ogni passo, sospettoso. Il gruppetto si ferma pochi metri più indietro, facendo a gara a chi storpia la propria faccia nella smorfia più devastante.

Il silenzio cala sulla scena come un fetido sudario.

Dopo un’ultima sbirciatina alle spalle, il ragazzino esala un sospirone (lo sento perfino io, che pure mi trovo a una cinquantina di metri); poi stringe gli occhi, per farsi coraggio, sul panorama di cippi e lapidi, e afferra risolutamente le sbarre della cancellata con entrambi le mani.

Infine urla con tutto il fiato che ha nei giovani polmoni:

«Gatto colli orecchi!»

I piccoli Gavroche si guardano l’un l’altro con occhi maliziosi e divertiti. Si vede chiaramente che vorrebbero scatenarsi in una fragorosa risata ma aspettano l’ok del capobanda, che sembrerebbe essere, appunto, il Rosso Malpelo.

«Ecco fatto» dice il ragazzino ancora con le mani sull’inferriata, chiaramente soddisfatto di sé, voltandosi verso la bella compagnia.

«Ecco fatto, che?» lo rintuzza, maligno, il rosso.

«Come che? L’ho detto. Ecco. L’ho detta, quella roba della scommessa. Ci sono riuscito».

Silenzio, greve.

Nubi di minaccioso sarcasmo si addensano sulle aureole impolverate dei monelli.

«A me mi pare di no. Voi, che dite?»

Ecco il segnale. Sghignazzi, insulti, grugniti, finte flatulenze prodotte con sperimentate compressioni delle ascelle.

«Come sarebbe a dire? Lo ridico, ascolta: “Gatto colli orecchi, gatto colli orecchi, gatto colli orecchi…”»

«Lo vedi che sei tutto scemo! È vero che hai detto così, ma lo dovevi di’ colle orecchie, no colla bocca; e nessuno, mi pare, sa ancora parlà[re] colle orecchie! Hai perso, hai perso…» lo incalza Malpelo con la tipica cantilena dello sfottò.

La bolgia di lazzi e motteggi sovrasta le vane proteste del giovinetto preso di mira in quel pomeriggio annoiato, mentre lo sciame si sbanda, ritorna, si sparpaglia qua e là per la macchia bassa. L’obiettivo di tanta esuberanza fanciullesca è già un altro: la gara a chi trova la mora selvatica più grossa.

Il ragazzo, umiliato, si chiude in un mutismo furente, accasciato sulle ginocchia accanto all’inferriata; e il suo pallore cittadino, per l’emozione, si trasforma in rosso brillante: le gote gli luccicano al sole come ciliegie. Come le lacrime, che già ondeggiano sull’orlo delle ciglia. Poi, una ragazzina, planando in picchiata su di lui come un uccello rapace, lo afferra forte per un braccio e lo tira su, lo trascina via con sé; e bisbiglia parole che la brezza rapisce immediatamente, di sicuro qualcosa di magico e dolce, perché il ragazzo, adesso, sorride come uno squarcio di sole dopo una ‘gruppata’ di pioggia.

Mi voltai e ripresi a camminare lentamente nel vialetto bordato di cipressi, in direzione del paese. Ma il pensiero delle more selvatiche non voleva lasciarmi andare. Anzi, ad un certo punto, l’idea del frutto si trasformò in sapore, qui, proprio sotto la lingua.

La faceva proprio buona, mia zia Paola, la marmellata di more, rimestando per ore in un enorme pentolone i frutti selvatici raccolti sotto il sole di agosto mentre sulle chiare piastrelle della cucina si spandevano in cerchi concentrici le tracce brune del bombardamento zuccherino. Il vero lavoro ‘sporco’, tuttavia, lo faceva mio zio Lorenzo, nelle campagne. Ritornando dai vari orti e dalle vigne disseminate un po’ in tutta l’isola non perdeva mai l’occasione di riempire di more un certo panierino di vimini che, nel tempo, si era colorato di una tonalità bordeaux. Altri effetti collaterali erano le maniche delle camicie e i pantaloni strappati dalle spine dei rovi; e mia zia a cucire instancabilmente.

Anch’io, nel mio piccolo, davo un contributo alla raccolta. Simbolico, tuttavia, poiché la grande maggioranza delle bacche brune finiva dai rovi direttamente nella mia pancia. Del resto, stiamo parlando del frutto che amo di più. Un amore di frutto. Un amore di bambino.

In fondo doveva essere proprio quello, l’amore, l’ancora sconosciuto sentimento che, appena finito di pranzare, ogni pomeriggio mi catapultava sul poggio del Castello (posseduto per metà dagli Stefanini) con la scusa delle more. Le more, infatti, c’entravano solo in minima parte. Il motivo vero si chiamava Roberta.

Roberta ha due anni meno di me. Una Stefanini di quarta generazione, come me. Il suo babbo Angiolino è un cugino di mia mamma Rosetta.

La miniera del Campese e il sottoscritto ci siamo dati la staffetta nel 1962: in quell’anno, infatti, lei chiudeva l’attività e io iniziavo il mestiere della vita. Dieci anni dopo correvo sul poggio del Castello con Roberta in cerca di more selvatiche. Ma non c’erano soltanto Roberta e le more, ad attirarmi sulla collina degli Stefanini. Altre due buone ragioni mi spingevano ad arrampicarmi fin lassù: i pinoli e l’ingegnere.

I pinoli li condividevo volentieri con Roberta, durante le nostre scorribande tra i salti di roccia, le grotte franose e le foreste di spinarazzoli, altrimenti detti Rubus Ulmifolius: “ciacca e mangia”, schiaccia (con un sassetto liscio di granito) e mangia, facendo bene attenzione a non mandar giù pure qualche scheggia di guscio o granella di granito.

L’ingegnere, invece, era una ‘cosa’ tutta mia.

Carlo Brizzolara aveva circa sessant’anni. Era di Parma ma si era innamorato del Giglio, aveva fatto costruire una villetta sul poggio, al limitare della pineta, e ci passava tutte le estati. Di lavoro faceva l’ingegnere nella famosa ditta di macchine da scrivere Olivetti, ma le sue grandi passioni erano la canoa e la narrativa per ragazzi. In quell’estate del 1972 aveva già pubblicato tre romanzi: Il pennacchio, Ai cani non si tirano sassi e Temporale Rosy. Me ne fece dono, personalmente, con tanto di dedica.

Il quarto romanzo stava finendo di scriverlo, e qualche pagina la scrisse proprio davanti a me, sotto i miei occhi increduli. Si sarebbe intitolato Titina F5: diario di una piccola cilindrata.

Non saprei dire se mi incuriosiva di più il contenuto delle sue storie oppure il modo con cui lui me ne parlava, il suo entusiasmo visionario. Mentre scrivo, ho sotto mano il suo Pennacchio: “A Patrizio De Gregori, amico dei libri. Carlo Brizzolara. Isola del Giglio 30.9.1972”. Era finito in fondo alla libreria dei ragazzi. Dalle pagine occhieggiano una cartolina illustrata e un telegramma. Sulla cartolina è riprodotta la cartina artistica dell’Argentario e del Giglio, con una rotta tracciata a penna; sul retro la spiegazione: “Traversata in canoa Giglio Porto – Porto S. Stefano – 5 settembre, ore 3 e 10’ – A Patrizio De Gregori”. Sul telegramma gli auguri di buon compleanno (il mio decimo) spediti dal mio babbo e dalla mia mamma da chissà quale petroliera in navigazione in chissà quale oceano.

Capitai nei dintorni della villetta dell’ingegnere per caso.

No, ho sbagliato.

Mi correggo.

Capitai nei dintorni della villetta perché proprio quell’estate dovevo ammalarmi di narrativa.

GALLERIA FOTOGRAFICA - IL ROMANZO "RITORNO"

GALLERIA FOTOGRAFICA - PRESENTAZIONE DEL ROMANZO (15 giugno 2019)

Tutte le foto dell'evento, per gentile concessione dell'amico Sergio Giorgi (SerJo').