La questione è complessa e tocca temi etici, politici e filosofici di grande rilevanza. Il silenzio o la mancanza di una reazione adeguata da parte delle filosofe femministe contemporanee di fronte alla crisi umanitaria in Palestina può essere analizzato da diverse prospettive, tenendo conto delle premesse teoriche del femminismo e delle sue diverse correnti. Ecco alcune considerazioni in merito:
- Il femminismo intersezionale, teorizzato da pensatrici come Kimberlé Crenshaw (1959), sostiene che le oppressioni (di genere, razza, classe, ecc.) sono interconnesse e non possono essere affrontate separatamente. Di conseguenza, una filosofia femminista coerente con questa prospettiva dovrebbe opporsi a tutte le forme di violenza sistemica, inclusa quella contro i palestinesi. Il silenzio su Gaza e la Cisgiordania potrebbe essere visto come una mancanza di applicazione pratica dell'intersezionalità, che richiederebbe invece di ampliare lo sguardo oltre le questioni di genere per includere le lotte contro il colonialismo, l'apartheid e l'occupazione militare.
- Il femminismo dell'etica della cura, associato a pensatrici come Carol Gilligan (1936 ) e Joan Tronto (1952 ), enfatizza l'importanza delle relazioni, della responsabilità verso gli altri e della protezione dei più vulnerabili. Questa prospettiva avrebbe dovuto portare a una condanna ferma delle violazioni dei diritti umani in Palestina, in particolare verso donne e bambini, che sono spesso le vittime più colpite nei conflitti. La mancanza di una reazione forte potrebbe riflettere una limitazione nell'applicazione di questa etica a contesti geografici o culturali percepiti come "lontani" o "diversi".
- Le filosofe femministe decoloniali, come Chandra Talpade Mohanty (1955 ) o Silvia Federici (1942), criticano il femminismo occidentale per il suo spesso inconsapevole coinvolgimento in dinamiche di potere coloniali e imperialiste. Questa corrente avrebbe dovuto essere in prima linea nel denunciare l'occupazione israeliana come una forma di colonialismo moderno. Il silenzio potrebbe essere interpretato come un fallimento nel riconoscere le strutture di potere globale che perpetuano la violenza in Palestina, nonostante l'impegno teorico per la decolonizzazione.
- Molte filosofe femministe, come Judith Butler (1956) , hanno affrontato direttamente la questione palestinese, sottolineando l'importanza di un approccio universale ai diritti umani. Butler, ad esempio, ha criticato l'uso strumentale della retorica dei diritti delle donne per giustificare interventi militari o politiche oppressive. Tuttavia, non tutte le filosofe femministe hanno seguito questo esempio, e il silenzio di alcune potrebbe riflettere una priorizzazione selettiva delle lotte o una riluttanza a confrontarsi con temi politicamente controversi.
Il femminismo ha storicamente cercato di costruire reti di solidarietà tra donne di diverse culture e contesti. La mancanza di una reazione forte alla crisi palestinese potrebbe indicare una frattura in questa solidarietà, forse dovuta a pregiudizi culturali, pressioni politiche o una visione limitata delle priorità del movimento. Una risposta più energica avrebbe potuto rafforzare l'idea che il femminismo è una lotta globale per la giustizia, non limitata ai confini nazionali o culturali. Le filosofe femministe, in virtù delle loro premesse teoriche, avrebbero dovuto opporsi con energia alla violenza sistemica in Palestina, in particolare alla luce dei principi di intersezionalità, etica della cura, decolonizzazione e universalità dei diritti umani. Il silenzio o la mancanza di una reazione adeguata potrebbe essere visto come un fallimento nel tradurre queste teorie in pratica, specialmente in un contesto in cui le donne e le comunità più vulnerabili sono direttamente colpite. Una forte risposta avrebbe non solo rafforzato la credibilità del femminismo come movimento globale per la giustizia, ma avrebbe anche contribuito a portare attenzione su una crisi umanitaria che richiede urgentemente solidarietà e azione.
Femminismo - Prima parte – Continua
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