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Con il progetto fotografico Gaza Fuorifuoco Palestina, tentiamo una riflessione su potere e fragilità delle immagini negli scenari coloniali contemporanei, a partire dal genocidio in atto a Gaza e Cisgiordania.
In assiduo contatto con fotografi e giornalisti palestinesi, abbiamo iniziato a raccogliere la moltitudine di immagini che vengono dai territori rasi al suolo da Israele, in Palestina e oltre. Chi scatta fotografie nei luoghi della devastazione è considerato un testimone scomodo, un occhio disobbediente alla cecità, quindi da eliminare: oltre centoventi sono stati finora i fotografi cercati e uccisi in un anno (diciannove nei trent'anni precedenti). Ogni immagine che archiviamo porta con sé il rischio di essere un ultimo documento, e di essere costato una vita. Custodire un'immagine sull'altra, diffonderla perché sia vista e commentata, a smentire quotidianamente il racconto univoco dei media, è tra i nostri impegni. Mentre mostra il dolore del singolo e della comunità a cui appartiene, mentre registra il silenzio dei corpi inanimati, di case, tende, ospedali o scuole abbattuti, la fotografia presa sul campo rivela la realtà.
Un archivio vivente, cioè riluttante alla polvere e all'impotenza, può far inciampare la disinformazione imperante facendosi luogo d'azione, comportandosi da raccolta documentale outsider, estranea ad ogni strumentalizzazione.
“Fuori fuoco” è il termine con cui la fotografia sa sperimentare la sua imprecisione: ogni dettaglio sfuocato procede gradualmente verso la sua dispersione, fino ad ottenere una definizione attenuata ma dagli esiti inaspettati, talvolta potenti.
Se quanto riceviamo dai fotografi palestinesi è realizzato con una messa a fuoco precisa, chiara e inequivocabile, perché adottare un termine, «fuori fuoco», che esula dalla nitidezza? Ad evitare equivoci, si può dire che le fotografie da Gaza celano al loro interno una materia complessa, così possente da non poter essere assimilata al fotogiornalismo tout court.
Siamo abituati a ricevere innumerevoli immagini drammatiche, spettacolari, gridate o inoffensive, promozionali, da dispositivi domestici o tascabili, da schermi che occupano tutto lo spazio delle nostre giornate, ci spingono alla commozione, al pianto, alla condivisione.
Eppure in esse vi è già un antidoto, un suggerimento a lasciar perdere: perché far loro spazio nella nostra vita, scomodarla, renderla più faticosa? Arrivano nelle nostre case ma in breve diventano aliene, possiamo disfarcene, non sapendo più a cosa fanno riferimento, slegate come sono una dall'altra, mancanti come sono di ragioni durevoli. La fotografia da Gaza non bada esclusivamente al futuro, guarda prepotentemente all'oggi, all'urgenza di dire subito, qui ed ora, cosa succede, ponendosi come errore del fotogiornalismo fondato su canoni che non contemplano durata ma sparizione.
Il persistere di Gaza, la necessità intrinseca di durare nei nostri occhi e di far muovere le nostre mani, riesce perché fa proprio il principio di inesattezza, di inadeguato al racconto imperiale che reputa inutile, quindi sacrificabile, l'esistenza palestinese e dei suoi sostenitori. Nell'errore e nella tenacia di quel «qui resteremo» ha rifugio amichevole la resistenza allo svanire.
La mostra fotografica sarà allestita nel Palazzo Ducale di Massa nel mese di Gennaio, nei giorni dal 7 al 26.
Per richiederla telefonare:
Giuditta Sborgi 3285640047