Philosopher, art historian and poet
Interrogarsi sulla nostra presenza attiva e prospettica nella società, particolarmente in anni di crisi come quelli che stiamo attraversando, comporta il pensare a un intreccio di deviazioni della Storia e dalla Storia. L’unico senso ravvisabile nella Storia è il potere. Priva di una legge a essa immanente, essa non conduce da nessuna parte o se preferite conduce sempre e solo al potere che esercita anche una dissimulazione dei rapporti di forza su cui si basa. Non per questo bisogna rinunciare a tentare di eliminare i suoi aspetti più o meno ingiusti, brutali, deviandone il corso. Tuttavia, senza deviare dalla Storia le nostre azioni si riveleranno presto o tardi perdenti quando non irresponsabili. Deviare dalla Storia significa favorire e moltiplicare le microerranze nei gesti quotidiani. L’erranza è viaggio senza meta prefissata; è ugualmente stato di errore, di confusione della mente. Entro certi limiti è essenziale. Ogni nostro progetto, per essere degno di questo nome, deve essere in parte liberato da una meta che sia solo visualizzazione anticipante. È importante favorire la proliferazione di microdeviazioni. Non bisogna pensare con ciò a un individualistico cercare se stessi, bensì a un anarchico e, per quanto mi riguarda, senza contraddizione alcuna, a un cristiano desiderio di cittadinanza nell’essere-insieme, in quella casa che è l’essere come con.
Le microerranze sono indispensabili per alimentare un esercizio di realismo radicale che è esercizio d’ospitalità (questo e altri concetti sono sviluppati in un saggio di prossima pubblicazione: A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune, prefazione di René Schérer, Milano, Edizioni Mimesis, 2012, n.d.r.). Non è ancora l’esercizio dell’ospitalità. L’esercizio d’ospitalità è qualcosa di molto più modesto. La differenza tra l’uno e l’altro è analoga a quella tra un esercizio di matematica a cui si applica uno studente e l’esercizio di quella disciplina da parte di J. von Neumann o K. Gödel. L’esercizio d’ospitalità è realismo. Siamo inevitabilmente stranieri gli uni rispetto agli altri: uomo e uomo, padre e figlio, ma anche uomo e natura con ogni sua singolarità. Siamo vicendevolmente stranieri e ospiti, sia nel senso di ospitati sia in quello di ospitanti. Vale anche per ognuno di noi rispetto a sé. Lascio la parola al poeta palestinese M. Darwish di cui vi leggo qualche verso da Come se fossi allegro: “Come se fossi allegro, sono tornato. Ho suonato / più di una volta alla porta e ho atteso… / Forse ero in ritardo. Nessuno mi ha aperto, / non un rumore nel corridoio. / Mi sono ricordato di avere le chiavi / e mi sono scusato con me stesso: / Ti avevo dimenticato. Entra! / Siamo entrati…A casa mia sono l’ospite e l’anfitrione”.
L’esercizio d’ospitalità è realismo, è esercizio di riconoscimento di sé con l’altro: uomo (padre, figlio o sconosciuto), animale, io stesso. Io stesso con quanto di me non sono pronto a identificare o che relativizzo. Pensate agli uomini violenti con le donne, ma che finalmente accettano di parlarne. L’esercizio d’ospitalità è esercizio di riconoscimento della struttura della realtà: dell’essere come con. Non è solo essere strumentalmente interdipendenti, ma essere fatti di altro, di una materia in cui ci sono anche gli altri, stranieri ospitati e ospitanti. Moriremmo senza i microrganismi di cui siamo fatti in un equilibrio biologico stabile. Siamo fatti di chi ci ha aiutato a formarci, degli strumenti che abbiamo imparato a utilizzare. Nel passato la memoria implicita di tutto ciò era in qualche modo attiva, benché sempre troppo debolmente. Il contadino “sapeva”, intuiva che era fatto del sole e della pioggia che avevano fatto crescere il grano di cui si era nutrito e di cui era fatto. È diverso dalle radici, nozione che trovo ambigua e perfino pericolosa. Le radici sono mani che si aggrappano alla terra, il che è in parte inevitabile, ma occorre stare sempre attenti che non si trasformino in violenza contro la giustizia. Radici non è il termine più adeguato se si vuole indicare un provenire da, per esempio dal mare per il mito della fondazione di Roma come ce ne parla splendidamente Virgilio nel terzo libro dell’Eneide: “Già rosseggiava l’Aurora ponendo in fuga le stelle quando laggiù vediamo delle oscure colline e bassa bassa a fior d’acqua l’Italia. Acáte per primo urla a gran voce: “Italia!”; “Italia!” gridano lieti in segno di saluto i compagni festanti”. Oggi, la memoria dell’essere fatti di altro è al suo livello più basso. È quanto l’unico modello di sviluppo in atto ha con tutti i mezzi, e con successo, eliminato quasi completamente. Come? Con l’u-topia, con il non-luogo e il non-presente dell’immediatezza, dell’istantaneità che è l’altro nome di un mercato autoreferenziale, quello tardocapitalista, che non ha alcun modo d’essere accompagnato, neppure più epidermicamente, da valori. Istantaneità che non ha nulla a che vedere con il kairós, con l’atomo di tempo propizio al cambiamento, squarcio fulmineo nel presente. Questo mercato, oggi esplicitamente “fine unico” funzionale alla sua stessa conservazione tra prevedibilità e Fato (come il Fato degli Antichi, sopra gli stessi dei), ha solo bisogno di uomini caratterizzati, almeno in Europa e negli Stati Uniti, dalla preoccupazione di non essere esclusi dal consumo. Uomini da certificare attraverso procedure omologate e da utilizzare entro regole sempre più evanescenti, dentro un perenne stato d’emergenza, dentro l’incalzare dell’immediatezza, cioè dell’assenza di mediazione che vuole comprensibilmente ridimensionare in primo luogo il ruolo dei sindacati.
Ora, in una visione che aspiri a essere disincantata, ma non per questo rinunciataria, l’esercizio del riconoscimento di sé con l’altro, l’esercizio d’ospitalità può essere risveglio. W. Benjamin scriveva che il risveglio è il caso emblematico del ricordare. Direi, quindi: ritorno allo stato di veglia, alla memoria, alla nobiltà della memoria che è prima di tutto sollecitudine nei confronti di un essere incessantemente fatti di altro e non deposito privato del nostro passato. Risveglio da alimentare con microdeviazioni dal potere, con un pullulare di microcondivisioni, con un moltiplicarsi di resistenza, di lucidità errante e di quella dolcezza di cui parlava Teilhard de Chardin: “Se in questi ultimi tempi ho acquisito una convinzione, è che nei rapporti con gli altri non siamo mai troppo buoni o troppo dolci nelle forme; la dolcezza è la prima tra le forze e, forse, la prima tra le virtù, tra quelle che si vedono”.
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1) LUCIANO BENINI SFORZA, in "Verifiche", novembre 2010.
Ho letto con ritardo voluto, se non addirittura cercato il suo libro “Bivacchi”(che ho ricevuto da Ermanna e Marco Martinelli, comuni e stimati amici), per poterci entrare con uno sguardo più pieno, più rispettoso. E la pazienza è stata ripagata da una vena poetica e civile-morale insieme, che non concede nulla ai facili e arcadici versi, agli orti e ai giardini piccoli dell’io. Ci ho trovato una poetica dell’occhio, concentrata nell’attenta osservazione delle cose e delle persone: non per catalogarle o fotografarle semplicemente, ma per catturarne e svelarne le criticità, le mancanze, la ingiusta, brutale, vuota consistenza. Una mappa del dissesto antropologico e civile-morale contemporaneo, che la scrittura sa perimetrare e indagare con lucida e indignata precisione, con esatto e pungente accanimento. Mi viene in mente, secondo un’associazione anche sociologica, l’uomo “liquido” e cosificato che cammina i nostri tempi, la nostra geografia comune dell’indifferenza, del consumo divinizzato delle merci, secondo una declinazione alienante e omologata della nostra vita, che la sua raccolta poetica coglie e smaschera senza esitare. Un mondo ci viene svelato in questi versi, un mondo senza palpiti o voli nobili, con il sacro o l’ideale ridotto a “un battito d’ali nella cisterna”. Quella del suo libro è, date tali premesse, quasi per destino intrinseco ed estrinseco una poesia dell’esilio, della forestiera e lucida resistenza da parte del pensiero libero e umano, anzi troppo umano, se ci riferiamo per esempio anche solo allo spessore della “humanitas” classica, greco-latina. È comunque un pensiero, quello presente nei suoi testi, che non arretra rispetto agli “imperi”: politici, economici e purtroppo anche comportamentali, ormai codificati e divulgati/disseminati anche in basso, fra la gente più comune e umile, io credo. Ne viene fuori sulla pagina, attraverso la pagina una resistenza, poetica e morale insieme, contro la “ponderazione/ di grazia e sventura” propagata dai poteri forti o dominanti, dai codici comportamentali serenamente, gioiosamente votati a una normale, spietata, scivolosa affermazione di “iniquità”, magari “porgendo/ lietissima/ la mano/ con la stretta euforica”, o con “una cert’aria d’obbligo” e di solenne, neobarocca importanza.
Luciano Benini Sforza è nato a Ravenna nel 1965, ha studiato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Si occupa di letteratura moderna e contemporanea. Collabora o ha collaborato con quotidiani ('Il Messaggero', 'Il Resto del Carlino'), periodici e riviste (fra cui 'Tratti', 'Il Lettore di provincia', 'Autografo', 'Ariel', 'Cartolaria', 'Il Parlar franco', 'I Quaderni del battello ebbro', 'Italianistica', 'Atelier'). Ha curato con Nevio Spadoni l'antologia "Le radici e il sogno - Poeti dialettali del secondo 900 in Romagna" (Mobydick, 1996).Come poeta, ha esordito nel 1991 con la raccolta "Spazi e colloqui" (Pisa, a cura del Gruppo Culturale Ippolito Rosellini), per la quale ha vinto il Concorso nazionale di poesia giovanile Galileo Galilei; nel 1995 è uscita la raccolta "Le stanze di Penelope" (Book, Premio San Domenichino), cui hanno fatto seguito "Viaggio senza scompartimento" (Mobydick, 1998) e "Padri a Nord Ovest" (Pazzini, 2004). Suoi testi sono presenti in diverse antologie.
PREFAZIONE DI MARCO MARTINELLI
Subito sono andato a riprendermi Il riposo dell’amato, quel libro così ferocemente limpido che mi aveva entusiasmato alla prima lettura, l’estate di qualche anno fa. Subito ho pensato che bisognava mettere in relazione la vena “chiara” di Jean Soldini, il suo vivere la filosofia come meraviglia e costruzione di ponti (concetti) verso la complessa ricchezza del reale, con la vena “oscura” delle sue liriche, guardarli appaiati, come due persone in una, il Soldini filosofo e il Soldini poeta. Guardarli per contrasto, e per contrasto in sé enigmatico. Per quanto il primo ti comunica in entusiasmo, fascino della traversata, capacità di affrontare la metafisica come affondo mai definitivo nel mistero dell’essere, dell’essere-uomo come essere-desiderante, per quanto il secondo ti abbandona davanti alle sue liriche come dolmen, pietre mute che ci parlano a versi, a brandelli, emergendo da tempi immemorabili, oppure relitti di un’apocalisse dei nostri giorni, già avvenuta. Come il primo ti coinvolge nel fuoco del pensiero, così il secondo ti stranisce lasciandoti solo, sperduto in un vento gelido. Sullo sfondo, per entrambi, l’orrore della Storia che “indossa/una cert’aria d’obbligo”, la Storia degli imperi e delle guerre, quella che, “solenne”, ti porge “lietissima/la mano/con la stretta euforica/della sua iniquità.” E mentre per il Soldini filosofo la consapevolezza della violenza che tutto travolge è affinata a ogni pagina dal fervore del creatore di concetti (che fa “dell’ingombro dell’altro” non un peso, ma l’occasione della nostra salvezza), il Soldini poeta ha lo sguardo volto in giù, a guardare silente le vittime, i volti sopraffatti “come l’erba schiacciata/che a terra/tenta una via di scampo”. Soldini non cerca, non si sente “obbligato” a cercare un apparentamento tra le sue due “maniere”, quasi non gli importi che il lettore riconosca il filosofo nel lirico, e viceversa. Quasi non gli importi – e credo non gli importi affatto! – che il lettore ritrovi un medesimo “stile”, perché di uno stile “riconoscibile”, ergo vendibile, hanno sempre bisogno il mercato e i suoi pigri corifei, e le classifiche dei quotidiani, non il lettore, la “creatura” che dobbiamo continuare a presupporre curiosa e inquieta, aperta a una nuova avventura ogni volta che apre un nuovo libro. A Soldini importa della città, “rasa al suolo/un quarto d’ora fa”, importa degli angeli e dei merli che ne attraversano il cielo, di un tegumento di tronco, di una riga gialla. Mai “indifferente”, la sua scrittura sceglie, sprofonda ora nell’una ora nell’altra “maniera”. Due maniere di stare al mondo, di percepirlo, di resistergli. Di amarlo.
Marco Martinelli, drammaturgo e regista, è nato a Reggio Emilia nel 1956. Nel 1983 fonda, con l’attrice Ermanna Montanari, il Teatro delle Albe. Nel 1991 viene nominato direttore artistico di Ravenna Teatro, “Teatro Stabile di Innovazione”. Con E. Montanari ha dato vita alla non-scuola. Protagonisti gli adolescenti nelle scuole, facendo a pezzi i “monumenti” teatrali per mettere poi fisicamente in relazione il segreto della Vita che “l’autore ha sapientemente nascosto secoli fa nelle parole della favola” con l’umanità selvatica di ragazze e ragazzi (cfr. il recente Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta. 1998-2008, a cura di M. Martinelli e E. Montanari, Ubulibri, Milano 2008).
DALLO SPAZIO ALLO SPAZIO
Hanno imparato dagli uccelli,
meticci sopravvissuti
a qualche svagata ipotesi
a una balza
di terra fiutata
da progenie impudiche.
Hanno imparato dai pastori,
alle prime luci dell’alba
con naturale accortezza
tornando dallo spazio
allo spazio
che accarezza le belve.
DENKMAL FÜR DIE ERMORDETEN
JUDEN EUROPAS*
Dipende se guardi giù
o un po’ più in su.
Hai scampo allora
o non hai scampo,
hai futuro
senza incauti incantamenti
o solo passato.
Uno vicino all’altro,
di statura variabile,
parallelepipedi
su sfondo d’alberi
su fondo-suolo ondeggiante.
Ordine, tremore di steli
e presto
un fruscio breve di creature.
ORIZZONTE
Disordine ordinario di un prurito
nella flagranza del giorno,
spostamento d’aria
nelle distanze sguainate.
S’alza intanto
il vento,
asciuga la pietra
sul litorale,
riannoda il pensabile
nel soffio che unisce
occhio a orizzonte
libero, infine,
di non essere meta
al pensiero
che si accinge
a pensare.
NEL FORO LUCENTE
Rettangoli di vetro
– attorno, mastice disseccato
collo logoro di camicia.
Ad abitarli,
un albero
un cielo farfugliato.
Rettangolo di vetro
rotto da un sasso.
Alla prima aderenza,
rotola lo sguardo
nel foro lucente – nero
senza indulgenza
sulla superficie opaca.
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(Renato Miracco, Alberto Giacometti: The Core of Life. An insightful look into the Swiss Artist's Italian side on show at the Solomon R. Guggenheim Museum, in "i-Italy", June 28, 2018)
Recensione di Gioacchino Toni, in "ilpickwick.it", 30 novembre 2016.
http://www.ilpickwick.it/index.php/arte/item/2912-alberto-giacometti-lo-spazio-e-la-forza
«Lo studio magistrale di Jean Soldini, che percorre l'integralità dell'opera con le sue glosse immergendole nuovamente nella loro continuità biografica, impone una visione più comprensiva, autenticamente comprensiva nel senso che avrebbe potuto desiderare W. Dilthey» (René Schérer).
ALBERTO GIACOMETTI OU LE SOUCI DE LA RÉALITÉ
10.10.2001
https://www.swissinfo.ch/fre/alberto-giacometti-ou-le-souci-de-la-r%C3%A9alit%C3%A9/2301034
«Ce que je vois m'inquiète»
«Mon désir est de reproduire le plus exactement possible ma vision des choses», disait Alberto Giacometti, au micro de la Radio suisse italienne, en 1956.
«Giacometti cherchait à mettre au premier plan ce qu'il voyait, en éliminant tout a priori, toute image pré-construite, explique l'historien de l'art, Jean Soldini. Il a repris en substance la leçon de Cézanne, selon qui il faut rendre ce que nous voyons, en oubliant tout ce qui a été dit ou fait avant nous.»
Un souci constant, dans l'expérience artistique de Giacometti, que l'on retrouve aussi bien dans ses sculptures minuscules des années trente et quarante, que dans sa phase de maturité. Et qui, d'une certaine façon, sous-tend déjà la phase surréaliste de l'artiste. Et cela malgré l'apparente rupture dans son œuvre, aux environs de 1934.
La vie dans son apparence, la vie pour laquelle Giacometti a une passion formidable, est le moteur de son travail. Il mène une lutte incessante avec la matière - que ce soit la craie, le plâtre ou les couleurs - pour en extraire une image proche de la réalité qu'il voit.
Andrea Tognina
L'AVVENTURA DELLA REALTÀ
Intervista a cura di Andrea Tognina
Swissinfo 06.10.2001
L'opera e la figura di Alberto Giacometti continuano ad esercitare un enorme fascino, per il loro rigore e per la loro misteriosa vitalità. I disegni, i quadri, le sculture dell'artista bregagliotto testimoniano di una straordinaria ricerca artistica e umana. Proviamo ad addentrarci in questo mondo in compagnia dello storico dell'arte e filosofo Jean Soldini.
Professor Soldini, cominciamo da ciò che lo spettatore coglie
immediatamente, nell'opera matura di Alberto Giacometti: la
centralità della figura umana. Come inquadrarla rispetto a
quanto egli ha fatto prima?
Giacometti, fin da quando comincia a disegnare, ha un
rapporto estremamente intenso con ciò che vede. Un
rapporto che ben presto, già prima dell'arrivo a Parigi nel
1922, diventa arduo. Il mondo esterno gli appare difficile da
afferrare. Giacometti ha delle grandi capacità manuali, che
dovrebbero facilitarlo. Ciò nonostante, non è così, perché fin
dall'inizio si pone di fronte alla realtà in modo singolare.
Il disagio nei confronti della realtà esterna lo porta a rivolgersi
sempre più verso l'inconscio, verso l'aggressività che emerge
dal suo inconscio. Lo si vede nelle opere surrealiste.
All'interno della fase surrealista, tra 1930 e 1934, si creano a
mio avviso le premesse per il ritorno alla realtà visibile.
Perché? Sull'onda dell'attenzione per l'avventura, per il caso,
per la vita con le sue sorprese – un' attenzione che è
fondamentale nel surrealismo – la presenza misteriosa delle
cose comincia a riaffiorare. Alla fine del 1934 Giacometti
rompe con il surrealismo e sceglie di tornare definitivamente
alla realtà esterna.
Si riaggancia così a qualcosa che sin dall'inizio era presente
in modo embrionale nei suoi interessi. Non si tratta di un
ritorno alla tradizione. Dal 1937 al 1947 circa, Giacometti
lavora sulla figura cercando di mettere in primo piano
semplicemente ciò che vede, eliminando ogni a priori, ogni
immagine precostituita.
Vedere diventa una vera e propria sfida. In questo senso
Giacometti si richiama alla lezione di Cézanne, il quale
sosteneva che bisogna rendere l'immagine di ciò che
vediamo dimenticando tutto ciò che è apparso prima di noi.
Quello con Cézanne non è tanto un rapporto di somiglianza
formale, quanto di atteggiamento - testardo, ossessivo – nei
confronti della realtà.
E questo atteggiamento Giacometti lo mantiene sino alla fine?
Sì. Cambiano solo i mezzi utilizzati dall'artista. Dal '37 al '47 ci
sono le figure minuscole, dal '47 al '56 le sculture più note,
filiformi. Successivamente le figure riacquistano volume. Ma
sostanzialmente non cambia nulla nell'atteggiamento di
fondo dell'artista: un vedere liberato dagli schemi che ci
portiamo appresso. "Sono turbato da ciò che vedo", dice
Giacometti. Ma non è turbato da qualcosa di straordinario.
Anzi, al contrario, lo è proprio da ciò che è più consueto: una
mela, un bicchiere, sua moglie, suo fratello.
Per tornare alla domanda iniziale: Giacometti dipinge anche
paesaggi, oggetti, tra cui la nota mela del 1937, ma la figura
umana è preponderante nella sua opera. Perché?
Non separerei il suo interesse per la mela o per qualche altro
oggetto, dall'attenzione per la figura umana. Il suo interesse è
rivolto prima di tutto a ciò che esiste. Ciò che esiste e che gli
appare, egli tenta di renderlo nel modo più fedele possibile,
spogliandosi di tutti gli strumenti a cui potrebbe far ricorso.
Evidentemente la figura umana è un esistente in cui la vita si
manifesta in modo particolarmente forte. È particolarmente
irrequieta, potremmo dire.
Giacometti è interessato al dramma di questa irrequietezza,
di questa stupefacente concentrazione d'essere minacciata
dalla morte. Non si richiama a una visione tradizionalmente
umanista. Non è il dramma come condizione dell’uomo nella
storia. In tal senso non sono d'accordo con lo scrittore Tahar
Ben Jelloun quando scrive: "Si è intimiditi perché un uomo,
lontano dal mondo, lontano da ogni valore mercantile, è
riuscito ad esprimerci tutti, scavando il metallo e ricordandosi
della tragedia umana, sia essa immediata – come quella che
egli ha vissuto durante il nazismo – sia essa lontana e che
esiste da quando l'uomo umilia l'uomo".
A vent'anni, Giacometti è confrontato con la morte di un suo
occasionale compagno di viaggio, l'olandese Pieter van Meurs.
Che segno ha lasciato questa esperienza nell'opera di
Giacometti?
L'esperienza è importantissima, perché in lui c'è un’enorme
sete di vita e quindi la morte gli appare subito come qualcosa
di estremamente inquietante. Ma Giacometti non si limita
semplicemente ad esprimere la finitezza della condizione
umana. Quel che fa è cercare di far passare la morte insieme
alla vita nell'atto di scolpire o di dipingere.
Mi spiego meglio: quando scolpisce le sue figure filiformi, che
cosa fa? Sacrifica la materia, dunque fa sì che quelle sculture
passino vicinissime alla morte. Un atto necessario per
riuscire a caricare veramente di vita la materia, per evitare il
sovrappiù, la materia morta. Così ci ricorda anche la
condizione che è tipica di ciò che esiste: il destino di non
esistere più, prima o poi.
Le figure giacomettiane sono lì davanti a noi, s’impongono a
noi come le cose s’impongono al nostro sguardo, ma sono
anche sempre sul punto di sparire. Sono vive, quasi eterne
nella loro durezza, ma nello stesso tempo sono minacciate
dalla morte nella loro fragilità.
Giacometti esprime spesso la sua difficoltà a raggiungere ciò
che vorrebbe. Come guarda allora alle sue opere "concluse"?
Il suo modo di guardare alle proprie opere è duplice: da una
parte sa che, rispetto all'obiettivo altissimo che si è prefisso,
ciò che raggiunge è poco. Nel contempo ha la
consapevolezza del valore enorme delle sue opere.
Ma consideriamo un altro aspetto: se si pensa alla natura
della sua sfida, cioè il semplice attenersi a ciò che si vede,
questo comporta che la totalità della cosa appare per un
istante, poi scompare. E allora si tratta di aspettare il
momento del ritorno, il momento in cui l'oggetto riapparirà
nella sua verità. Giacometti si esprime così: "Il suo volto
tornerà presto, molto più giusto di prima". Questo mostra
quanto sia importante per lui il tempo.
Di solito l'attenzione è rivolta allo spazio, alla figura nello
spazio. In realtà il tempo è un fattore decisivo nell'opera di
Giacometti. L'oggetto passa e ripassa e bisogna essere in
una condizione di attesa febbrile, in modo tale da fissare il
momento in cui l'interezza dell'oggetto si ripresenterà, il
momento in cui non sarà più possibile separare esterno e
interno, apparenza ed essenza, in cui tutte queste categorie
salteranno completamente, diventando inutilizzabili. Certo,
basta un niente e sei a lato, devi ricominciare tutto.
De la “vaste chambre étrangère” au désert: sur la sculpture d’Alberto Giacometti, in Catalogue Alberto Giacometti, Martigny, Fondation Gianadda, 1986 (con testi di M. Butor, R. Hohl, J. Lord, ecc), pp.241-246 (in italiano: pp.247-251).
Il colossale, la madre, il “sacro”. L’opera di Alberto Giacometti, Bergamo, Pierluigi Lubrina Editore, 1991, pp. 254.
Alberto Giacometti. Le colossal, la mère, le “sacré”, préface de René Schérer, Lausanne, L’Âge d’Homme, 1993, pp. 218.
Conoscenza, attrazione e temporalità nell’opera di Alberto Giacometti, in Cat. Giacometti. Dialoghi con l’arte, a cura di Simone Soldini e Casimiro Di Crescenzo, Mendrisio, Museo d’Arte, 2000, pp. 27-48.
Alberto Giacometti: l’arte di cominciare da capo, Bellinzona, Biblioteca Cantonale di Bellinzona e Messaggi Brevi, 2009 (prima in “Quaderni grigionitaliani”, 2008, a. 77, n. 3, pp. 381-392).
Alberto Giacometti. L’espace et la force, Ėditions Kimé (Collection “Esthétiques”), Paris 2016, pp. 120.
Alberto Giacometti. Lo spazio e la forza, Edizioni Mimesis (Collana “Filosofie”), Milano-Udine 2016, pp. 120.
Alberto Giacometti. Grafica al confine fra arte e pensiero / Graphics on the Border between Art and Thought, a cura di / edited by Jean Soldini and Nicoletta Ossanna Cavadini, Skira, Milano 2020 (esposizione al m.a.x. museo, Chiasso), pp. 400.
La meraviglia delle meraviglie. Movimento e trasparenza nel lavoro di Alberto Giacometti, in “Cenobio”, LXIX, n. 2, 2020, pp. 5-14 .